Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14260 del 08/06/2017


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Cassazione civile, sez. III, 08/06/2017, (ud. 14/10/2016, dep.08/06/2017),  n. 14260

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – rel. Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 10459/2014 proposto da:

DOPLA SPA, già GIO’ STYLE MONOUSO SPA, in persona del Presidente del

Consiglio di Amministrazione e legale rappresentante Sig.

L.R., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ANTONIO GRAMSCI 14,

presso lo studio dell’avvocato FEDERICO HERNANDEZ, rappresentata e

difesa dall’avvocato SERGIO CALVETTI giusta procura in calce al

ricorso;

– ricorrente –

contro

MEDIOFACTORING SPA, già INTESA MEDIOFACTORING SPA, in persona

dell’Avv. D.D., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

DEL TRITONE, 102, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE CAVALLARO,

che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati FRANCESCO

BENATTI, ALDO PENAZZI, giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 951/2013 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 04/03/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

14/10/2016 dal Consigliere Dott. GIACOMO TRAVAGLINO;

udito l’Avvocato SERGIO CALVETTI;

udito l’Avvocato ROMANO CERQUETTI per delega non scritta;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SGROI Carmelo, che ha concluso per il rigetto.

Fatto

I FATTI

La s.p.a. Dopla convenne dinanzi al Tribunale di Milano la società Mediofactoring, lamentandone l’inadempimento delle contrattualmente obbligazioni assunte e chiedendone la condanna al risarcimento del danno a titolo di indennizzo assicurativo con riferimento ai crediti garantiti nei confronti del cliente Genesi s.p.a..

Il giudice di primo grado respinse la domanda.

La corte di appello di Milano, investita dell’impugnazione proposta dall’attrice, la rigettò a sua volta, osservando:

– Che il contratto posto a fondamento del contenzioso doveva qualificarsi, in assenza di contestazioni sul punto, come factoring (per la cui validità non poteva ritenersi prescritta ad substantiam la forma scritta ex lege n. 52 del 1991);

– Che la clausola 13 delle condizioni generali di contratto imponesse la forma scritta a tutte le comunicazioni previste dal contratto, tra cui, a titolo esemplificativo, la notifica di modifica delle condizioni applicate (come correttamente ritenuto dal Tribunale);

– Che la pattuizione fosse legittima ai sensi dell’art. 1352 c.c. e la forma de qua si presumesse voluta per la validità del patto con il quale si sarebbe stabilito una modificazione della condizione prevista per la garanzia pro soluto, ossia la esigibilità del credito entro 120 giorni dalla fattura, ferma la possibilità di integrazione attraverso collegamento telematico o telefax (come già ritenuto dal Tribunale);

– Che il contrasto tra i testi M. e B. fosse indicativo di un malinteso tra le parti in ordine al raggiungimento dell’intesa modificativa, mentre nessun elemento decisivo di interpretazione delle fonti scritte fosse emerso dalle deposizioni degli altri testimoni escussi (come pure ritenuto dal giudice di primo grado);

– Che l’interpretazione delle prove documentali non consentisse di eccederne il loro significato letterale, sì che la comunicazione del 16 dicembre 2002 non potesse dirsi espressione attuale della volontà di accettare la modifica richiesta, supponendone, in ipotesi, una accettazione in altrove – onde la mancata manifestazione, in illa, del necessario un consenso negoziale per scriptum (come già affermato dal Tribunale);

– Che il contenuto dello scambio di e.mail allegate agli atti di causa non oltrepassasse la soglia della ambiguità volontaristica oltre la quale soltanto sarebbe stato possibile attribuire alle comunicazioni ivi contenute il significato di accettazione della modifica della condizione contrattualmente prevista per la garanzia (come ulteriormente opinato già in prime cure);

– Che la critica all’iter motivazionale seguito dal Tribunale, fondato sull’esistenza di un asseritamente legittimo accordo modificativo (l’estensione del termine garantito da 120 a 150 giorni) “per fatti concludenti” non poteva trovare ingresso alcuno in sede di gravame, volta che (a tacere dell’idoneità ex se dell’individuazione dei pretesi fatti concludenti funzionali a sostenere la predicabilità di un legittimo accordo modificativo) il richiamo al disposto dell’art. 1352 c.c., rappresentava nel contempo l’intangibile e condivisibile fondamento della ricostruzione della volontà delle parti già operato in prime cure e l’invalicabile limite della rilevanza della prova orale – ammessa al solo fine di fornire elementi di interpretazione delle fonti scritte, ritenute peraltro le uniche idonee a consacrare l’asserito intento modificativo delle intese raggiunte in ordine alle condizioni di esigibilità dei crediti ceduti;

– Che la pur sostenuta tesi dell’esistenza di fatti concludenti riconducibili univocamente a soluzioni eremenutiche diverse da quelle adottate non trovava il necessario conforto nè nella deposizione della teste C., nè nella circostanza dell’evidenziata modalità di giroconto a media factoring di crediti ceduti in compensazione da genesi e del pagamento al factor del corrispettivo dello 0,40% che le parti avrebbero pattuito a fini di assicurazione del credito, vicende entrambe elusive della centrale e determinante questione di diritto (l’applicabilità dell’art. 1352 c.c.) risolta con condivisibili e condivise argomentazioni dal giudice di primo grado – onde l’inefficacia delle censure ad esse rivolte, sull’erroneo presupposto che il procedimento di appello integrasse gli estremi del novum iudicium e non anche di rigorosa revisio prioris istantiae, come costantemente affermato da questa Corte di legittimità.

Avverso la sentenza della Corte meneghina la società Dopla ha proposto ricorso per cassazione sulla base di 4 motivi di censura illustrati da memoria.

La s.p.a. Mediofactoring resiste con controricorso.

Diritto

LE RAGIONI DELLA DECISIONE

Il ricorso è infondato.

Il ricorso – che si sottrae soltanto a fatica, in rito, alla scure della inammissibilità – è, nel merito, manifestamente infondato.

All’esito di una defatigante (e non sempre funzionale alle esigenze di sinteticità e concisione richieste in sede di giudizio di Cassazione) esposizione dei fatti, vengono rappresentati a questa Corte i seguenti motivi di censura:

Con il primo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1352 c.c.; mancata applicazione della norme di cui agli artt. 1362 c.c. e segg..

Con il secondo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., in tema di disponibilità e valutazione delle prove.

Con il terzo motivo, si denuncia assenza di pronuncia sull’ordine ex art. 210 c.p.c., svolto in sede di appello.

Con il quarto motivo, si denuncia omessa e insufficiente motivazione concernente l’omessa motivazione in relazione alla dichiarazione resa da Mediofactoring nel doc. 12 dimesso in primo grado.

I primi tre motivi di ricorso sono palesemente destituiti di giuridico fondamento.

Il quarto motivo è inammissibile, poichè fondato su un vizio motivazionale non più denunciabile nei termini in cui esso viene rappresentato a questa Corte all’esito della modifica dell’art. 360 c.p.c., n. 5, applicabile ratione temporis (la sentenza di appello risulta, difatti, depositata il 4 marzo 2013. Quanto alle restanti censure.

La Corte milanese, in attuazione del generale principio di diritto processuale che impone, nella motivazione, il rispetto di criteri logici di giustificazione razionale del raggiunto convincimento e dell’adottata decisione, offre chiara e puntuale valutazione, condivisibilmente argomentata, della valenza e dell’efficacia probatoria attribuita a tutti gli elementi e a tutte le fonti di prova acquisiti al processo, ritenendo la ricostruzione del fatto, così come operata in sede di sua puntuale esposizione, dotata di un più elevato grado di conferma logica e di credibilità razionale rispetto ad altre, possibili e pur prospettate ipotesi fattuali alternative (segnatamente quelle, pur non integranti formalmente uno specifico motivo di ricorso, rappresentate ai ff. da 2 a 22 dell’odierna impugnazione, contenenti esplicite critiche alla sentenza di appello, proponendo una diversa e personale ricostruzione “del quadro probatorio”).

Vero è che, nella specie, i motivi di censura sono irrimediabilmente destinati ad infrangersi sul corretto impianto motivazionale adottato dal giudice d’appello dianzi descritto, dacchè essi, nel loro complesso, pur formalmente abbigliati in veste di denuncia di una (peraltro del tutto generica) violazione di legge e di un (asseritamente) decisivo difetto di motivazione, si risolvono, nella sostanza, in una (ormai del tutto inammissibile) richiesta di rivisitazione di fatti e circostanze come definitivamente accertati in sede di merito.

La società ricorrente, difatti, lungi dal prospettare a questa Corte un vizio della sentenza rilevante sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, mediante una specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che si assumono in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie astratta applicabile alla vicenda processuale, si volge piuttosto ad invocare una diversa lettura delle risultanze procedimentali così come accertare e ricostruite dalla Corte territoriale, muovendo all’impugnata sentenza censure del tutto irricevibili, volta che la valutazione delle risultanze probatorie, al pari della scelta di quelle – fra esse – ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, postula un apprezzamento di fatto riservato in via esclusiva al giudice di merito il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre (pur astrattamente possibili e logicamente non impredicabili), non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere in alcun modo tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale, ovvero vincolato a confutare qualsiasi deduzione difensiva.

E’ poi principio di diritto ormai consolidato quello per cui l’art. 360 c.p.c., non conferisce in alcun modo e sotto nessun aspetto alla corte di Cassazione il potere di riesaminare il merito della causa, consentendo ad essa, di converso, il solo controllo – sotto il profilo logico-formale e della conformità a diritto – delle valutazioni compiute dal giudice d’appello, al quale soltanto, va ripetuto, spetta l’individuazione delle fonti del proprio convincimento valutando le prove (e la relativa significazione), controllandone la logica attendibilità e la giuridica concludenza, scegliendo, fra esse, quelle funzionali alla dimostrazione dei fatti in discussione (salvo i casi di prove cd. legali, tassativamente previste dal sottosistema ordinamentale civile).

Per altro verso, il ricorrente, nella specie, pur denunciando, formalmente, un insanabile deficit motivazionale della sentenza di secondo grado, inammissibilmente (perchè in contrasto con gli stessi limiti morfologici e funzionali del giudizio di legittimità) sollecita a questa Corte una nuova valutazione di risultanze di fatto (ormai definitivamente cristallizzate sul piano processuale) sì come emerse nel corso dei precedenti gradi del procedimento, così mostrando di anelare ad una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito, nel quale ridiscutere analiticamente tanto il contenuto, ormai consolidatosi, di fatti storici e vicende processuali, quanto l’attendibilità maggiore o minore di questa o di quella ricostruzione probatoria, quanto ancora le opzioni espresse dal giudice di appello non condivise e per ciò solo censurate al fine di ottenerne la sostituzione con altre più consone ai propri desiderata – quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa fossero ancora legittimamente proponibili dinanzi al giudice di legittimità.

In particolare, poi, quanto all’interpretazione adottata dai giudici di merito con riferimento al contenuto della convenzione negoziale per la quale è processo, alla luce di una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice va nuovamente riaffermato che, in tema di ermeneutica contrattuale, il sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sè, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito, ma esclusivamente il rispetto dei canoni normativi di interpretazione (sì come dettati dal legislatore agli artt. 1362 c.c. e segg., correttamente applicati, sia pur per detto implicito, dal giudice di appello che ha condivisibilmente privilegiato un’intepretazione letterale del testo negoziale, contrariamente a quanto mostra di ritenete parte ricorrente) e la coerenza e logicità della motivazione addotta (così, tra le tante, funditus, Cass. n. 2074/2002): l’indagine ermeneutica, è, in fatto, riservata esclusivamente al giudice di merito, e può essere censurata in sede di legittimità solo per inadeguatezza della motivazione o per violazione delle relative regole di interpretazione (vizi entrambi impredicabili, con riguardo alla sentenza oggi impugnata), con la conseguenza che deve essere ritenuta inammissibile ogni critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca nella sola prospettazione di una diversa valutazione ricostruttiva degli stessi elementi di fatto da quegli esaminati.

Il ricorso è pertanto rigettato.

Le spese del giudizio di Cassazione seguono il principio della soccombenza. Liquidazione come da dispositivo.

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di Cassazione, che si liquidano in complessivi Euro 15.200, di cui Euro 200 per spese.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari alla somma già dovuta, a norma del predetto art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 14 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 8 giugno 2017

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