Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14259 del 13/07/2016


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Cassazione civile sez. trib., 13/07/2016, (ud. 26/01/2016, dep. 13/07/2016), n.14259

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PICCININNI Carlo – Presidente –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 29699/2010 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

CMD DI C.M. & C. SAS IN LIQUIDAZIONE, in persona del

liquidatore e legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliato in ROMA VIA DARDANELLI 46, presso lo studio

dell’avvocato MARINA PETROLO, che lo rappresenta e difende

unitamente all’avvocato GIOVANNI DIRINDELLI giusta delega a margine;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE;

– intimato –

avverso la sentenza n. 36/2009 della COMM. TRIB. REG. di FIRENZE,

depositata il 20/10/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

26/01/2016 dal Consigliere Dott. PAOLA VELLA;

udito per il ricorrente l’Avvocato MELONCELLI che ha chiesto

l’accoglimento del ricorso principale e il rigetto del ricorso

incidentale;

udito per il controricorrente l’Avvocato DELLA LENA per delega

dell’Avvocato PETROLO che ha chiesto il rigetto;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

DEL CORE Sergio, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso

principale, assorbito il ricorso incidentale e in subordine per

l’accoglimento del ricorso incidentale.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

Con ricorso affidato ad un unico motivo, avente ad oggetto la violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19, con riguardo alla necessita’ che l’Iva chiesta a rimborso sia inerente ad un’attivita’ d’impresa effettivamente esercitata, l’Agenzia delle entrate impugna la sentenza n. 36 del 20.10.2009, con cui la Commissione tributaria regionale della Toscana ha respinto tanto l’appello principale dell’Ufficio (facente leva sull’assoluta inesistenza di operazioni attive nei 17 anni di durata della societa’ e sul riferimento della presunzione D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 4, comma 1, alle sole operazioni attive), quanto quello incidentale del contribuente (relativo anche all’ininfluenza del condono operato per le annualita’ 1998-2002 sul rimborso Iva richiesto, ai sensi della L. n. 289 del 2002, art. 9, comma 9) proposti avverso la decisione della Commissione tributaria provinciale di Firenze, che aveva accolto parzialmente il ricorso della societa’ contro il diniego di rimborso dell’Iva riportata a nuovo nella dichiarazione Iva 2003, a causa della rilevata “mancanza dell’esercizio d’impresa”.

Il giudice d’appello ha ritenuto inidonee le argomentazioni di entrambe le parti ad inficiare il decisum dei giudici di prime cure in ordine alla esistenza di una presunzione – da qualificare “assoluta” solo fino al 31 dicembre 1997 – di esercizio di impresa per le societa’ commerciali, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 4, comma 1, con conseguente riconoscimento solo del credito Iva sino ad allora maturato.

La contribuente ha resistito con controricorso, rilevando tra l’altro la novita’ del tema dell’inerenza delle operazioni passive, ed ha proposto a sua volta ricorso incidentale affidato a due motivi.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Con l’unico motivo di ricorso, l’Agenzia delle entrate deduce la “Violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 4 e 19, nonche’ della sesta Direttiva CEE n. 77/38 in materia di IVA, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3)”, osservando che le citate disposizioni “consentono la detraibilita’ e/o la rimborsabilita’ dell’Iva corrisposta in relazione ad operazioni passive di un’impresa contribuente, sempre che esse siano inerenti all’attivita’ d’impresa effettivamente esercitata; conseguentemente, non puo’ essere accordata la richiesta di rimborso dell’Iva corrisposta da una s.a.s. che, per tutta la durata della propria esistenza (17 anni, dal 1985 al 2002) non ha mai posto in essere alcuna operazione attiva; neppure in virtu’ del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 4, comma 2, lett. a), il quale pone una presunzione di assoggettabilita’ ad IVA delle sole operazioni attive dalle s.a.s., e comunque nella misura in cui esse vengono effettivamente svolte”.

2. Il motivo e’ pienamente fondato.

3. Costituisce invero ius receptum di questa Corte che “in tema di IVA, in base alla disciplina dettata del D.P.R 26 ottobre 1972, n. 633, art. 4, comma 2, n. 1 e art. 19 (ed anche alla luce della sesta direttiva del Consiglio del 17 maggio 1977, n. 77/388/CEE, come interpretata dalla giurisprudenza della Corte di giustizia), mentre le cessioni di beni da parte di una societa’ di capitali sono da considerare in ogni caso effettuate nell’esercizio di impresa, in ordine invece agli acquisti di beni, ed in generale alle operazioni passive, non e’ sufficiente, ai fini della detraibilita’ dell’imposta, che la qualita’ d’imprenditore societario risulti da elementi meramente formali, (quali l’iscrizione nel registro delle imprese e la titolarita’ della partita IVA), dovendosi altresi’ verificare in concreto l’inerenza e la strumentalita’ del bene acquistato rispetto alla specifica attivita’ imprenditoriale, compiuta o anche solo programmata” (Cass. sent. n. 16687/13; conf. Cass. nn. 3746/15, 5860/16), “circostanza la cui prova incombe sull’interessato e la cui valutazione va effettuata in concreto tenuto conto dell’effettiva natura del bene”, in correlazione agli scopi dell’impresa (Cass. n. 8628/15; conf. da ultimo, Cass. n. 5860/16).

4. Di conseguenza, ai fini della detraibilita’ dell’imposta “occorre accertare che dette operazioni passive siano effettivamente inerenti all’esercizio dell’impresa, cioe’ compiute in stretta connessione con le finalita’ imprenditoriali”, essendo il relativo diritto ammesso anche in ipotesi di mancanza di un effettivo esercizio dell’impresa, ossia in assenza di compimento di operazioni attive in senso stretto, purche’ si tratti di operazioni quantomeno “finalizzate alla costituzione delle condizioni necessarie perche’ l’attivita’ tipica possa concretamente iniziare, e quindi anche le attivita’ meramente preparatorie che per definizione vengono poste in essere in una fase in cui non vi e’ ancora produzione di ricavi” (Cass. n. 8583/06; conf. Cass. nn. 3022/07, 4242/07, 11765/08, 23400/10, 7344/11, 1859/14, 25986/14, 3746/15).

5. E’ stato infatti chiarito che “in tema di IVA, in base alla disciplina dettata del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, artt. 1, 4, 17 e 19, la qualita’ di imprenditore societario e’ condizione unicamente per rendere assoggettabili ad IVA le operazioni attive, mentre la compatibilita’ con l’oggetto sociale di spese relative alla compravendita e/o alla ristrutturazione di immobili costituisce, rispetto alla detraibilita’ del tributo assolto sulle operazioni passive, elemento puramente indiziario della loro inerenza all’effettivo esercizio dell’impresa, valutabile, pertanto, dal giudice di merito insieme con altre circostanze, idonee a formarne il convincimento circa l’effettiva inerenza delle medesime operazioni passive all’espletamento della progettata attivita’ imprenditoriale, all’interno di un criterio di ripartizione che vede onerata della prova la societa’” (Cass. nn. 4157/13 e 25777/14).

6. Va invece respinto il ricorso incidentale.

7. Con il primo motivo viene cumulativamente dedotta la “Violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto (L. n. 289 del 2002, art. 9, comma 9) e/o per omessa, insufficiente ovvero contraddittoria motivazione circa un fatto rilevante in ordine al thema decidendum”, in quanto l’intervenuta definizione condonistica non avrebbe in alcun modo influenzato il diritto al rimborso integrale dell’Iva, mentre la C.T.R. avrebbe negato la maggior somma a quel titolo richiesta senza alcuna motivazione.

7.1. La censura, che contesta illogicamente sia l’inesistenza che l’insufficienza e contraddittorieta’ della motivazione della sentenza impugnata, non ne coglie la ratio decidendi – laddove il giudice d’appello collega il parziale riconoscimento del diritto al rimborso dell’Iva al limite temporale (“31.12.97”) della presunzione assoluta di esercizio di impresa per le societa’ commerciali – ne’ tiene conto della pacifica incompatibilita’ delle norme interne sul condono con la disciplina dell’Iva.

7.2. In tema di IVA, infatti, della L. n. 289 del 2002, art. 9, va comunque disapplicato, stante il suo preminente contrasto con gli obblighi previsti in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri, secondo l’interpretazione resa dalla Corte di giustizia che ascrive a dette norme comunitarie (artt. 2 e 22 della sesta direttiva; art. 10 del Trattato) portata generale e ritiene il condono tombale idoneo a pregiudicare seriamente il funzionamento del sistema comune dell’imposizione sul valore aggiunto (C. giust., 17 luglio 2008, causa C-132/06; conf. ex plurimis Cass. n. 20068 del 2009, n. 19546 del 2011, n. 8110 del 2012, n. 2915 del 2013, n. 20435 del 2014, n. 14992 e n. 20953 del 2015).

7.3. Inoltre, secondo il costante insegnamento di questa Corte (v. per tutte Cass. n. 13037 del 2015), “le sanatorie fiscali non modificano gli importi di rimborsi e crediti derivanti da dichiarazioni presentate, il che comporta che nessuna modifica di tali importi puo’ essere determinata da tale definizione, che non sottrae all’amministrazione il potere di contestare il credito, atteso che il condono elide in tutto o in parte, per sua natura, il debito fiscale, ma non opera sui crediti che il contribuente possa vantare nei confronti del fisco, i quali restano soggetti all’eventuale contestazione da parte dell’ufficio” (Cass. n. 375 del 2009, n. 5586 e n. 18942 del 2010), con la conseguenza che l’Amministrazione finanziaria puo’ procedere all’accertamento diretto a dimostrare l’inesistenza del diritto al rimborso (Cass. nn. 20433 e 27314 del 2014), dovendo altresi’ considerarsi che deduzione e detrazione, da un lato, ovvero rimborso, dall’altro, costituiscono nient’altro che modalita’ alternative di esercizio del credito verso il fisco (Cass. n. 27292 del 2014).

8. Il secondo motivo, che investe il capo della sentenza d’appello relativo alle spese processuali – sempre sotto il duplice profilo dell’error in iudicando e del vizio motivazionale – resta invece assorbito dall’accoglimento del ricorso principale, che comporta, piu’ radicalmente, la caducazione dell’intera pronuncia.

9. Concludendo, in accoglimento del ricorso principale la sentenza impugnata va cassata per contrasto con i principi sopra richiamati e, non risultando necessari ulteriori accertamenti in fatto, la causa puo’ essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, con il rigetto del ricorso originario del contribuente, e la sua condanna alla rifusione delle spese del giudizio di legittimita’, liquidate in dispositivo; le peculiarita’ della vicenda processuale giustificano invece la compensazione delle spese dei gradi di merito.

PQM

La Corte accoglie il ricorso principale, respinge i motivi del ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta l’originario ricorso del contribuente, che condanna alla rifusione delle spese del giudizio di legittimita’, liquidate in Euro 5.2500,00 oltre spese prenotate a debito, con compensazione delle spese dei gradi di merito.

Cosi’ deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 26 gennaio 2016.

Depositato in Cancelleria il 13 luglio 2016

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