Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14254 del 24/05/2019

Cassazione civile sez. lav., 24/05/2019, (ud. 14/03/2019, dep. 24/05/2019), n.14254

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. CURCIO Laura – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –

Dott. CIRIELLO Antonella – Consigliere –

Dott. PICCONE Valeria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 29525-2017 proposto da:

ZUMBO SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e

difesa dall’avvocato FERDINANDO SALMERI;

– ricorrente –

contro

L.G.C., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA

CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE,

rappresentata e difesa dall’avvocato ROSARIO ERRANTE;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 819/2017 della CORTE D’APPELLO di REGGIO

CALABRIA, depositata il 06/10/2017, R.G.N. 361/2016.

Fatto

RILEVATO

CHE:

La Corte d’Appello di Reggio Calabria confermava la pronuncia del Tribunale della stessa sede che aveva accolto il ricorso proposto da L.G.C. nei confronti della Zumbo s.r.l. volto a conseguire declaratoria di illegittimità del licenziamento collettivo intimato il 23/10/2014 per violazione della percentuale di manodopera femminile sancita dalla L. n. 223 del 1991, art. 5, comma 2 con gli effetti reintegratori e risarcitori previsti dalla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 1 come novellato dalla L. n. 92 del 2012, siccome integrante la condotta datoriale, comportamento discriminatorio.

La Corte distrettuale, in estrema sintesi, respingeva la doglianza formulata dalla società per la genericità della censura sollevata dalla lavoratrice in sede di opposizione con riferimento alla percentuale di manodopera maschile con mansioni impiegatizie, in forza presso l’intero complesso aziendale. Argomentava, per contro, che la lavoratrice aveva fatto richiamo ai medesimi dati numerici sulla consistenza della manodopera di entrambi i sessi con riferimento al settore impiegatizio, allegati dalla società sin dalla costituzione in giudizio nella fase sommaria, sia con riferimento al reparto amministrativo sia all’intero complesso aziendale. E gli elementi acquisiti denunciavano chiaramente la intervenuta violazione di legge, per essere la percentuale di personale femminile ridotta da un terzo ad un sesto, nè la parte datoriale aveva fornito alcuna prova contraria, confermando, per contro, gli stessi dati numerici allegati nel pregresso grado di giudizio.

Avverso tale decisione la società interpone ricorso per cassazione affidato ad unico articolato motivo cui resiste con controricorso la parte intimata.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1.Con unico motivo si denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 223 del 1991, art. 5, comma 2 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si deduce che “al fine di verificare la violazione della norma in discorso, è necessario accertare sia la percentuale di manodopera femminile occupata in azienda sia la percentuale di manodopera femminile licenziata” onde pervenire alla comparazione richiesta dalla legge fra l’uno e l’altro dato.

Ci si duole che la Corte di merito abbia disposto non corretta applicazione del richiamato dettato normativo avendo concentrato la propria indagine sul personale femminile rimasto in azienda successivamente al licenziamento, senza procedere all’indispensabile accertamento della percentuale di manodopera femminile licenziata.

Si deduce, quindi, che ove correttamente elaborato il calcolo, si sarebbe pervenuti alla conclusione che la percentuale di manodopera femminile posta in mobilità era pari o inferiore a quella occupata in precedenza.

2. Il motivo non è fondato.

Per un ordinato iter argomentativo, va rammentato che a seguito della L. n. 236 del 1993 (art. 6, comma 5 bis) è stato introdotto, per la fase risolutiva del rapporto di lavoro, il divieto di “discriminazione indiretta” (mutuato dalla L. n. 125 del 1991, sulle pari opportunità) che ha imposto un’aggiunta all’art. 5, comma 2, secondo cui nella individuazione del personale licenziato deve essere mantenuto l’equilibrio proporzionale esistente tra lavoratori e lavoratrici.

La norma così dispone: “l’impresa non può altresì licenziare una percentuale di manodopera femminile superiore alla percentuale di manodopera femminile occupata con riguardo alle mansioni prese in considerazione”.

Il tenore letterale della norma, elemento di interpretazione fondamentale e prioritario di ermeneutica ex art. 12 disp. att. c.c., dispone che il confronto da operare in relazione al personale da espungere dal ciclo produttivo, va innanzitutto circoscritto all’ambito delle mansioni oggetto di riduzione, cioè all’ambito aziendale interessato dalla procedura, così da assicurare la permanenza, in proporzione, della quota di occupazione femminile sul totale degli occupati.

Sotto il medesimo profilo, va poi rimarcato che la disposizione non prevede una comparazione fra numero di lavoratori dei due sessi prima e dopo la collocazione in mobilità; essa impone invece di verificare la percentuale di donne lavoratrici, e poi consente di mettere in mobilità un numero di dipendenti nel cui ambito la componente femminile non deve essere superiore alla percentuale precedentemente determinata.

Nell’ottica descritta, deve ritenersi quale dato numerico acquisito agli atti (vedi pag. 4 della sentenza impugnata e pag. 7 ricorso conclusioni A), l’impiego di n. 6 uomini e n. 3 donne nel reparto amministrazione; in siffatto ambito di riferimento, dunque, la percentuale di manodopera femminile con mansioni impiegatizie era pari al 33,33%.

Nel contesto descritto si era poi proceduto al licenziamento di due donne ed un uomo, e la percentuale di donne licenziate era pari al 66,66%.

Orbene, appare evidente che immuni da censure siano gli approdi ai quali è pervenuta la Corte di merito, laddove ha ritenuto violati i precetti sanciti dalla L. n. 223 del 1991, art. 5, comma 2 benchè abbia operato un raffronto fra dati numerici anteriori e successivi al licenziamento, con statuizione suscettibile di correzione ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c..

Al lume delle superiori argomentazioni, il ricorso deve essere, pertanto, respinto.

Le spese del presente giudizio di legittimità seguono il regime della soccombenza, liquidate come in dispositivo.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti, come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 14 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 24 maggio 2019

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