Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14240 del 08/07/2020

Cassazione civile sez. III, 08/07/2020, (ud. 07/02/2020, dep. 08/07/2020), n.14240

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GRAZIOSI Chiara – Presidente –

Dott. SCRIMA Antonietta – rel. Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. D’ARRIGO Cosimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 33097/2018 proposto da:

COOP ALLEANZA 30 SOCIETA’ COOPERATIVA, in persona del Presidente del

C.d.A., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA IRNERIO, 67,

presso lo studio dell’avvocato SAMUELE ANTONIUCCI, rappresentata e

difesa dall’avvocato MICHELE FERRANDINO;

– ricorrente –

contro

MA.RI. SAS DI V.R. & C., elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA MERULANA 234, presso lo studio dell’avvocato CRISTINA

DELLA VALLE, rappresentata e difesa dall’avvocato ANTONIO ALUIGI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1117/2018 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata in data 11/05/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

7/02/2020 dal Consigliere Dott. ANTONIETTA SCRIMA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PATRONE Ignazio, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato SAMUELE ANTONIUCCI per delega;

udito l’Avvocato ANTONO ALUIGI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con ricorso ai sensi dell’art. 447-bis c.p.c., depositato presso il Tribunale di Bologna nel 2016, Coop Alleanza 3.0 Società Cooperativa (di seguito indicata anche come Coop Alleanza), affittante il ramo di azienda costituito da un pubblico esercizio specializzato nell’attività di bar e piccola ristorazione, sito nel centro commerciale (OMISSIS), in virtù del contratto di locazione stipulato da Coop Adriatica s.c.a r.l. in data 4-13 novembre 2014, cui la ricorrente era subentrata per effetto di atto di fusione per notaio Dott. T.F. in data 10 dicembre 2015, chiese: 1) l’accertamento dell’avvenuta risoluzione di tale contratto ex art. 1456 c.c., in forza della clausola risolutiva espressa contenuta nel punto n. 7.5 del contratto, di cui la ricorrente si era avvalsa con lettera raccomandata inviata il 21 aprile 2016 e ricevuta il 6 maggio 2016, a seguito dell’inadempimento della affittuaria, MA.RI. s.a.s. di V.R. & C., al pagamento di canoni di affitto dovuti dal 1 luglio 2015 al 1 aprile 2016, per totali Euro 44.280,00; in subordine, l’accertamento della risoluzione del medesimo contratto ex art. 1456 c.c., in forza della clausola risolutiva espressa di cui alla clausola n. 7.8 per il mancato pagamento degli oneri consortili, pari ad Euro 8.154,94; in ulteriore subordine, la risoluzione del contratto ex artt. 1453 e 1455 c.c., in relazione ai predetti inadempimenti, nonch alla mancata esecuzione di lavori di ristrutturazione/restyling dell’unità aziendale che l’affittuaria si era contrattualmente obbligata a portare a termine entro il 28 febbraio 2015; 2) la condanna dell’affittuaria al rilascio del ramo d’azienda.

La ricorrente diede atto del fatto che, successivamente alla menzionata lettera raccomandata, con la quale si era avvalsa della clausola risolutiva espressa, l’affittuaria aveva versato la somma di Euro 43.920,00 e che residuava il credito di Euro 360,00 per imposta di registro e di Euro 10.980,00 per indennità di occupazione senza titolo riferita al periodo successivo alla citata lettera.

Si costituì MA.RI. s.a.s. di V.R. & C. (di seguito indicata anche MA.RI. s.a.s.), che contestò le domande, di cui chiese il rigetto. In particolare, la resistente dedusse che: era subentrata nel contratto di affitto di ramo d’azienda stipulato dalla precedente affittuaria, Cafexpress Quattro di F.G. s.n.c., con Immobiliare Grande Distribuzione S.p.a., in forza di contratto preliminare di cessione d’azienda stipulato con la prima nel maggio 2009, cui aveva corrisposto l’importo di Euro 190.000,00; in data 6 ottobre 2009 il contratto fra il precedente affittuario e l’affittante era stato risolto e, in pari data, era stato stipulato il contratto di affitto di ramo d’azienda fra MA.RI. s.a.s. e Immobiliare Grande Distribuzione S.p.a., il quale prevedeva un canone annuo di Euro 43.248,12; scaduto quest’ultimo contratto il 6 ottobre 2014, MA.RI. s.a.s. aveva sottoscritto un nuovo contratto di affitto del medesimo ramo d’azienda con Coop Adriatica s.c.r.l., con canone annuo ridotto ad Euro 36.000,00.

La resistente rappresentò, inoltre, che: a) aveva sempre ritardato il pagamento dei canoni di locazione in ragione del fatto che sin dall’inizio della gestione dell’attività gli incassi si erano rivelati ben al di sotto delle aspettative; b) anche nel 2014 i pagamenti erano avvenuti in misura parziale e con notevole ritardo e nonostante ciò nel novembre 2014, come detto, Coop Adriatica s.c. a r.l. aveva rinnovato il contratto al canone ridotto di Euro 36,000,00; c) anche nel corso degli anni 2015 e 2016 non aveva potuto fare altro che ritardare i canoni e versare ripetuti acconti per via della scarsità della clientela affluente al centro commerciale e d) pertanto, del tutto inaspettatamente era giunta la raccomandata di risoluzione del contratto, non preceduta da alcun preventivo sollecito.

MA.RI. s.a.s., non contestò il pagamento tardivo delle rate trimestrali ma sostenne l’inoperatività della clausola risolutiva espressa, azionata da Coop Alleanza in mala fede, considerata la tolleranza dimostrata sin dall’inizio della gestione dalla concedente nel ricevere i pagamenti dei canoni ben oltre il termine stabilito, essendo la stessa consapevole delle difficoltà di gestione ed economico-finanziarie che interessavano tutti gli esercenti del centro commerciale; con riferimento agli oneri consortili, assumeva che l’affittuaria aveva richiesto il pagamento prioritario dei canoni di affitto e per tale motivo gli oneri scaduti erano stati corrisposti il 28 settembre 2016 e il 26 ottobre 2016; evidenziò che, in relazione a tali oneri, la ricorrente era garantita da fideiussione bancaria a prima richiesta dell’importo di Euro 7.500,00, non escussa, e che era stata comunque compensata dai ritardi mediante il pagamento degli interessi di mora; affermò, infine, di aver eseguito i lavori di ristrutturazione, convenuti nel contratto, nel mese di giugno 2016.

La resistente contestò, quindi, gli inadempimenti attribuitile da parte ricorrente, in quanto da lungo tempo tollerati, ravvisò la violazione del principio di buona fede contrattuale e un comportamento costituente abuso del diritto da parte di Coop Alleanza nell’utilizzo della clausola risolutiva espressa, rilevando che la pretestuosità della condotta di controparte si risolveva nel riconoscimento della scarsa importanza dell’inadempimento, tenuto conto dei reciproci interessi e, in particolar modo, dell’investimento compiuto dall’affittuaria per ben sette anni nell’azienda, cedutale nel 2009 dal precedente affittuario al prezzo di Euro 190.000,00 e del pregiudizio causato al personale dipendente e concluse, pertanto, per il rigetto di ogni domanda.

Con sentenza in data 31 ottobre 2017, n. 2416/2017, il Tribunale adito accolse la domanda proposta dalla ricorrente in via principale e, quindi, accertò la risoluzione di diritto del contratto e condannò la resistente al rilascio del ramo d’azienda e alle spese di lite.

MA.RI. s.a.s. propose gravame avverso la decisione di primo grado chiedendo, in totale riforma della stessa, il rigetto di tutte le domande proposte da Coop Alleanza; quest’ultima si costituì in secondo grado eccependo, in via preliminare, l’inammissibilità dell’appello per la cessazione della materia del contendere a seguito dell’accordo raggiunto fra le parti in data 13 marzo 2018 per la riconsegna del ramo d’azienda; nel merito, contestò le censure e chiese il rigetto del gravame e la conferma della sentenza impugnata, riproponendo difese, domande e istanze istruttorie proposte in primo grado.

La Corte di appello di Bologna, con sentenza depositata in data 11 maggio 2018, in accoglimento dell’impugnazione proposta, rigettò le domande avanzate da Coop Alleanza e condannò quest’ultima alle spese del doppio grado del giudizio di merito.

Avverso la sentenza della Corte territoriale Coop Alleanza ha proposto ricorso per cassazione basato su sei motivi e illustrato da memoria.

MA.RI. s.a.s. ha resistito con controricorso pure illustrato da memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo è così rubricato: “Nullità della sentenza d’appello per mancata rilevazione della cessazione della materia del contendere per effetto del contratto 13.3.2018, che costituisce da un lato “error in procedendo”, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4 e dall’altro violazione dell’art. 1362 c.c., per omessa indagine sulla comune intenzione delle parti e per omesso esame delle espressioni usate nel contratto stesso, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, indagine ed esame che avrebbero portato a sentenza di inammissibilità del gravame per cessazione della materia del contendere e conseguente sopravvenuta carenza d’interesse ad agire ex art. 100 c.p.c.”.

2. Con il secondo motivo si lamenta “In relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, erroneo esame nella sua interezza del contratto 13.3.2018 stipulato al momento del rilascio dell’azienda, contratto che costituisce “un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, avendo esso fatto venir meno la materia del contendere per effetto dell’estinzione del contratto di affitto di ramo d’azienda, con conseguente sopravvenuta carenza di interesse ad agire”.

3. I primi due motivi che, essendo strettamente connessi, ben possono essere esaminati congiuntamente, sono inammissibili.

Ed invero, non risulta riprodotto, nei due motivi all’esame il contenuto integrale – o almeno sufficientemente la parte dello stesso rilevante in questa sede – del contratto del 13 marzo 2018 (definito dalla ricorrente anche come “verbale del 13/3/2018”: v. p. 10), dal quale si assume che la Corte di merito avrebbe dovuto desumere l’intervenuta cessazione della materia del contendere, con conseguente difetto di specificità di entrambi i mezzi, non valendo ad assolvere il dettato di cui dell’art. 366 c.p.c., n. 6, la mera riproduzione in ricorso solo di alcuni punti della premessa del richiamato atto del 13 marzo 2018 (v. p. 10 e 11 del ricorso) nè la sintesi dei punti 6 e 7 dello stesso riportata a p. 11 e 12 del ricorso.

Peraltro, la Corte di merito risulta aver esaminato, interpretato e valutato l’atto in questione (v. sentenza impugnata, p. 6), motivatamente concludendo che in base allo stesso non può ritenersi “provato l’effettivo venir meno dell’interesse delle parti a una decisione sul merito della vertenza”. Al riguardo si osserva che questa Corte di legittimità già ha avuto modo di precisare che, in tema di ermeneutica contrattuale, l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto del negozio si traduce in una indagine di fatto, affidata al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità nella sola ipotesi di motivazione inadeguata ovvero di violazione di canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 c.c. e segg.. Pertanto, al fine di far valere una violazione sotto i due richiamati profili, il ricorrente per cassazione deve non solo fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamene violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti, non essendo consentito il riesame del merito in sede di legittimità (Cass. 9/10/2012, n. 17168; Cass., ord., 15/11/2017, n. 27136). Questa Corte ha pure ripetutamente chiarito che, per sottrarsi al sindacato di legittimità, l’interpretazione data dal giudice di merito ad un contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni; sicchè, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (Cass. 17/03/2014, n. 6125; Cass. 20/11/2009, n. 24539; Cass. 22/02/2007, n. 4178).

Infine, con le censure formulate, per quanto attiene ai lamentati vizi motivazionali, la ricorrente non ha proposto le relative doglianze nel rispetto del paradigma legale di cui al novellato n. 5 dell’art. 360 c.p.c..

Alla luce del vigente testo della norma appena richiamata, applicabile al caso di specie ratione temporis, non è più configurabile il vizio di insufficiente e/o contraddittoria motivazione della sentenza, atteso che la norma suddetta attribuisce rilievo solo all’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che sia stato oggetto di discussione tra le parti, non potendo neppure ritenersi che il vizio di contraddittoria motivazione sopravviva come ipotesi di nullità della sentenza ai sensi del n. 4) del medesimo art. 360 c.p.c. (Cass., ord., 6/07/2015, n. 13928; v. pure Cass., ord., 16/07/2014, n. 16300); va, inoltre, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass., ord., 8/10/2014, n. 21257). Tutto ciò in conformità al principio affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 8053 del 7/04/2014, secondo cui la già richiamata riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia – nella specie all’esame non sussistente, contrariamente a quanto sostiene la ricorrente – si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.

Le Sezioni Unite, con la richiamata pronuncia, hanno pure precisato che l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, così come da ultimo riformulato, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia).

Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico” il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque – come nella specie preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

4. Con il terzo motivo (espressamente formulato in via subordinata al mancato accoglimento dei primi due motivi) si deduce:

“- a) In relazione all’art. 360, n. 5, violazione dell’art. 1456 c.c. (errore motivazionale), per la contraddizione insita nell’avere affermato contemporaneamente da un lato di voler di “circoscrivere l’ambito temporale sottoposto al suo esame al contratto 13.11.2014” e dall’altro di “ritenere “proseguito l’atteggiamento tollerante”, unendolo a quello dell’originario concedente I.G.D. S.p.A. risalente all’anno 2009 e per avere ritenuto il lasso di tempo intercorrente tra il 1 luglio 2015 e il giorno di ricevimento della prima diffida, 6 maggio 2016, sufficiente ad ingenerare una prassi di tolleranza nei ritardi, ostativa dell’uso della clausola risolutiva espressa.

– b) In relazione all’art. 369 c.p.c., comma 3, violazione dell’art. 1175 c.c., che impone al debitore e al creditore di comportarsi correttamente, per mancata comparazione tra il comportamento della creditrice con quello scorretto della debitrice, che riscuoteva i canoni della sublocazione e non versava quelli della locazione.

– c) Sempre in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 3, violazione dell’art. 1372 c.c., che limita alle sole parti gli effetti del contratto, per avere ritenuto non conforme a buona fede il comportamento di Coop Alleanza 3 per essere succeduta nei comportamenti di tolleranza pluriennali verso l’affittuaria tenuti dalla dante causa Immobiliare Grande Distribuzione S.p.A. (I.G.D.).

– d) Sempre in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 3, violazione dell’art. 1456 c.c., per aver ritenuto inoperante, per effetto di tolleranza, la clausola risolutiva espressa attivata dalla creditrice a causa del mancato pagamento di 4 canoni di affitto trimestrali consecutivi e di oneri consortili per circa Euro 50.000,00 riferiti ad un solo anno di affitto in mancanza di un preventivo preavviso” (così testualmente).

4.1. Il motivo va complessivamente rigettato.

Al riguardo, esaminando congiuntamente le plurime censure con esso formulate, si osserva che la sentenza impugnata non risulta apparentemente motivata, nè la motivazione risulta perplessa ed obiettivamente incomprensibile, e neppure che “sembrerebbe” dalla lettura della stessa che “la morosità tollerata nei ritardati pagamenti si allargherebbe a tre anni”, come sostiene la ricorrente.

La Corte territoriale ha, infatti, posto in rilievo che, “anche circoscrivendo l’osservazione all’esecuzione del contratto stipulato nel 2014, tale atteggiamento tollerante risulta proseguito nel rapporto contrattuale con Coop Adriatica s.c.a.r.l. di cui Coop Alleanza è divenuta titolare nel 2015 per effetto di fusione fra tali società (oltre ad altre). Nella comparsa di costituzione in primo grado, infatti, MA.RI. s.a.s. ha dettagliatamente descritto i reiterati pagamenti parziali e i ritardi nel saldo dei canoni di affitto dal 2014 sino al 2016 e tali allegazioni non sono state contestate. Con riferimento agli oneri consortili – cui il giudice (di prime cure) ha fatto riferimento solo “ad colorandum” e che si esamina avendo l’appellata riproposto ogni domanda e difesa svolta in primo grado – si riscontra analoga tolleranza, posto che i mancati pagamenti contestati con la lettera dell’aprile 2016 risalgono al 2015 e sono attestati da quattro fatture

succedute nel tempo senza alcuna richiesta di pagamento precedente quella citata”.

Dopo aver rilevato che “Coop Adriatica, poi Coop Alleanza, contestualmente o successivamente ai descritti atti di tolleranza, non hanno mai manifestato l’intenzione di avvalersi della clausola risolutiva espressa in caso di ulteriore protrazione dell’inadempimento, circostanza che avrebbe escluso la tacita rinuncia ad avvalersene”, il giudice d’appello ha fatto corretta applicazione dei principi affermati da questa Corte, laddove ha affermato che, da tali premesse, “consegue che, dopo anni di tolleranza (e secondo la stessa ricostruzione dell’attuale ricorrente i pagamenti parziali e in ritardo e i mancati pagamenti sono durati, con riferimento al solo contratto stipulato nel 2014, complessivamente ben più di un anno, sicchè detta parte non può dolersi che la Corte di appello abbia parlato di più anni di tolleranza) del ritardo nei pagamenti (dei canoni e degli oneri) l’improvviso esercizio della clausola risolutiva espressa è comportamento contrario al canone della buona fede cui deve improntarsi anche l’esecuzione del contratto”.

Questa Corte sul punto ha già avuto modo di affermare il principio secondo cui “La tolleranza del locatore nel ricevere il canone oltre il termine stabilito rende inoperante la clausola risolutiva espressa prevista in un contratto di locazione, la quale riprende la sua efficacia se il creditore, che non intende rinunciare ad avvalersene, provveda, con una nuova manifestazione di volontà, a richiamare il debitore all’esatto adempimento delle sue obbligazioni. Tuttavia, in applicazione del generale principio di buona fede nell’esecuzione del contratto e del divieto dell’abuso del processo, non può essere imposto al locatore di agire in giudizio avverso ciascuno dei singoli analoghi inadempimenti, al fine di escludere una sua condotta di tolleranza” (Cass., ord., 6/06/2018, n. 14508; Cass. 31/10/2013, n. 24564; Cass. 14/02/2012, n. 2111).

Tale principio va ribadito in questa sede con la precisazione che la valutazione sull’esistenza o meno di una prassi di tolleranza del ritardo costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice di merito e non sindacabile in sede di legittimità (Cass., ord., 6/06/2018, n. 14508, in motivazione) e che il mancato esercizio del potere potestativo di ottenere la risoluzione del contratto per l’inadempimento di controparte in virtù della clausola risolutiva espressa, da parte del locatore, è l’effetto conformante della buona fede nella fase esecutiva del contratto, sicchè il rispetto di tale principio impone che il locatore contestualmente (Cass. 11/10/1989, n. 4058) o anche successivamente all’atto di tolleranza manifesti la sua volontà di avvalersi della clausola risolutiva espressa in caso di ulteriore protrazione dell’inadempimento (Cass. 15/07/2005, n. 15026) e comunque per il futuro. Tuttavia, la stessa ricorrente non deduce, nel motivo all’esame (v. però quanto dedotto, con esito negativo, con il sesto motivo) che ciò sia avvenuto successivamente alla ritenuta tolleranza e prima della lettera raccomandata del 21 aprile 2016, con la quale era stata comunicata dalla ricorrente alla controricorrente la volontà della prima di avvalersi della clausola risolutiva espressa, dichiarazione ribadita nell’atto introduttivo del presente giudizio, come rappresentato dalla medesima ricorrente (v. ricorso p. 4 e p. 20-21).

Peraltro, nel motivo all’esame, si fa pure fugacemente riferimento ad una lettera raccomandata successiva del 28 aprile 2016 (v. p. 20) che, in base a quanto risulta dal ricorso, non può che essere quella richiamata a p. 22 del predetto atto, con cui veniva sollecitato il pagamento degli oneri consortili, proveniente però da soggetto diverso dall’attuale resistente, e precisamente dal Consorzio degli Operatori del (OMISSIS), e, quindi, in ragione di quanto evidenziato, tale lettera risulta irrilevante ai fini che interessano in questa sede.

Dalle argomentazioni che precedono resta assorbito l’esame di ogni ulteriore questione proposta con il motivo in scrutinio.

5. Con il quarto motivo si denuncia “Violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 4 e 5, non avendo la Corte posto alla base della decisione le prove acquisite”.

5.1. Il motivo è inammissibile in quanto la censura non risulta articolata secondo i criteri indicati dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. 10/06/2016, n. 11892; Cass., ord., 28/02/2018, n. 4699; Cass., ord., 23/10/2018, n. 26769; v. anche Cass., sez. un., 5/08/2016, n. 16598, in particolare p. 14 della motivazione) e comunque tende ad una rivalutazione del merito, non consentita in questa sede.

6. Con il quinto motivo si denuncia “in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione degli artt. 1453 e 1455 c.c., per avere ritenuto non grave l’inadempimento di parte intimata e quindi non pronunciata la risoluzione del contratto, e violazione degli artt. 1175 e 1176 c.c., per non avere valutato il comportamento totalmente omissivo del debitore nell’ambito dei suoi doveri di agire secondo le regole della correttezza e di osservare la diligenza del buon padre di famiglia” (così testualmente).

6.1. Il motivo è inammissibile, alla luce del principio, che va ribadito in questa sede, secondo cui, in materia di responsabilità contrattuale, la valutazione della gravità dell’inadempimento ai fini della risoluzione di un contratto a prestazioni corrispettive (nella specie affitto di ramo d’azienda), ai sensi dell’art. 1455 c.c., costituisce questione di fatto, la cui valutazione è rimessa al prudente apprezzamento del giudice del merito, risultando insindacabile in sede di legittimità ove sorretta da motivazione congrua ed immune da vizi logici e giuridici (Cass. 30/03/2015, n. 6401; Cass. 28/06/2006, n. 14974), tenuto conto che nella specie la Corte di merito ha motivato la sua decisione al riguardo con motivazione non apparente o intrinsecamente contraddittoria (v. sentenza impugnata, p. 9-10).

7. Il sesto motivo, proposto in via subordinata al mancato accoglimento dei motivi terzo, quarto e quinto, è così rubricato: “Omesso esame dell’appello incidentale, ritualmente proposto e notificato all’appellante nelle forme di cui all’art. 436 c.p.c., comma 3, diretto ad ottenere l’ammissione di prove documentali ed orali idonee a provare l’invio dei solleciti di pagamento in data 2.4.2015 e 28.8.2015. Tale omesso esame costituisce vizio della sentenza riconducibile all’art. 360 c.p.c., n. 4, in relazione all’art. 183, comma 7, richiamato dall’art. 359 c.p.c., secondo cui il Giudice “provvede sulle richieste istruttorie”, rappresentando il mancato esame dell’appello incidentale, relativo alla mancata, ammissione di decisivi mezzi istruttori, “error in procedendo”. Tale omissione comporta nullità del procedimento e della sentenza censurabile in Cassazione ai sensi del citato art. 360 c.p.c., n. 4″.

7.1. Il motivo è inammissibile.

Sul punto si osserva che la ricorrente non ha colto la ratio decidendi, in quanto la Corte di merito non ha omesso di pronunciarsi in relazione alle istanze istruttorie formulate dall’attuale ricorrente e già disattese dal Tribunale. Infatti, pur a voler ritenere che dette istanze siano state riproposte in secondo grado con appello incidentale, la Corte di merito – che ben teneva presente dette istanze complessivamente considerate (v. pure p. 5 della sentenza impugnata) – non ha omesso di esaminarle ma le ha disattese, affermando che il deposito di documenti in quel grado non poteva essere autorizzato, non avendo, quanto al rigetto delle dette istanze istruttorie da parte del Tribunale, l’appellata formulato specifiche censure, così evidenziando non il difetto della riproposizione delle istanze a mezzo di appello incidentale ma – appunto – la mancanza di specifiche, argomentate censure con riferimento alla decisione del primo Giudice al riguardo; nè a tale omissione può ovviarsi dinanzi a questa Corte con la memoria (v. memoria del ricorrente, p. 12).

Qualora poi si volesse ritenere che la decisione della Corte di merito non si riferisca onnicomprensivamente anche alle prove orali, pure richieste con l’appello incidentale in via congiuntiva o alternativa alle prove documentali, va evidenziato che la ricorrente, nell’illustrazione del mezzo all’esame, si duole specificamente ed in particolare della mancata ammissione delle prove documentali e non deduce neppure di aver ribadito la richiesta relativa alla predetta prova orale in sede di precisazione delle conclusioni in appello, con conseguente inammissibilità, pure sotto tale profilo, della censura proposta (Cass. ord., 13/09/2013, n. 22883).

8. Il ricorso deve essere, pertanto, rigettato.

9. Tenuto conto della particolarità della vicenda e delle questioni esaminate, le spese del giudizio di cassazione ben possono essere compensate per intero tra le parti.

10. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, se dovuto, da parte della ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; compensa per intero tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità; ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, se dovuto, da parte del k ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 7 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 8 luglio 2020

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