Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14233 del 08/07/2020

Cassazione civile sez. un., 08/07/2020, (ud. 11/02/2020, dep. 08/07/2020), n.14233

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Primo Presidente f.f. –

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente di Sez. –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. DORONZO Adriana – Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – rel. Consigliere –

Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 29540/2019 proposto da:

M.N.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA COLA DI

RIENZO 212, presso lo studio dell’avvocato LEONARDO BRASCA, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato FELICE ARCO;

– ricorrente –

contro

PROCURATORE GENERALE PRESSO LA SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE, CONSIGLIO

DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI BRESCIA, CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE;

– intimati –

avverso la sentenza n. 64/2019 del CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE,

depositata il 29/07/2019.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

11/02/2020 dal Consigliere Dott. ANTONIO VALITUTTI;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. CAPASSO Lucio, che ha concluso per il rigetto del

ricorso;

udito l’Avvocato Felice Arco.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Brescia depositava, in data 22 febbraio 2016, una pronuncia con la quale irrogava all’avvocato M.N.F. la sanzione della sospensione dall’esercizio della professione per la durata di mesi sei.

1.1. La decisione aveva ad oggetto due procedimenti originati da due diversi esposti (un terzo si concludeva con l’assoluzione dell’incolpato, divenuta definitiva per difetto di impugnazione da parte del pubblico ministero). Il primo procedimento, traeva origine da un esposto presentato da B.V., il quale accusava l’avvocato M. di avergli sottratto la somma di Euro 50.000,00, lasciata al legale in deposito fiduciario, con l’incarico di eseguire un investimento, come sarebbe risultato da una cartula, in data 9 dicembre 2009, intestata “Dichiarazione di ricevuta”, con firma in calce del professionista, somma mai restituita al depositante. Il secondo procedimento traeva origine da un esposto presentato da R.W., il quale si doleva del fatto che l’avvocato M. avesse rinunciato al mandato nell’imminenza di un’udienza, poi conclusasi con l’assoluzione dell’imputato, con il ministero di un difensore di ufficio.

1.2. Il Consiglio dell’Ordine degli avvocati, all’esito dell’istruttoria, reputava comprovati gli addebiti ed irrogava all’incolpato la sanzione interdittiva, ritenendo violati “i doveri di probità, dignità, decoro e diligenza nonchè di lealtà, correttezza e fedeltà, prescritti dagli artt. 5, 6, 7 e 41 del codice deontologico di categoria.

2. Il Consiglio Nazionale Forense – respinta l’eccezione preliminare di nullità della pronuncia impugnata, per non essere stata sottoscritta dal presidente e dal segretario in carica al momento del deposito della decisione – rigettava il ricorso dell’avvocato M., confermando in toto la pronuncia impugnata.

3. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’avvocato M.N.F., affidato a quattro motivi e contenente, altresì, domanda di sospensione dell’efficacia della sentenza impugnata. Gli intimati, Consiglio Nazionale Forense, Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Brescia e Procura Generale presso la Corte di Cassazione, non hanno svolto attività difensiva.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. In via pregiudiziale va dichiarato inammissibile il ricorso proposto nei confronti del Consiglio nazionale forense, che, in quanto soggetto terzo rispetto alla controversia e autore della impugnata decisione, è privo di legittimazione nel presente giudizio, le parti del quale vanno individuate nel soggetto destinatario del provvedimento impugnato, cioè nel Consiglio dell’Ordine locale che, in sede amministrativa, ha deciso in primo grado e nel pubblico ministero presso la Corte di Cassazione (cfr., ex plurimis, Cass., sez. un., 6 giugno 2003, n. 9075; Cass. Sez. U., 7 dicembre 2006, n. 26182; Cass. Sez. U., 13 giugno 2008, n. 19513; Cass. Sez. U., 24 gennaio 2013, n. 1716; Cass. Sez. U., 24 febbraio 2015, n. 3670; cass. Sez. U., 27 dicembre 2016, n. 26996).

2. Con il primo motivo di ricorso, l’avv. M. denuncia la violazione del R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 51 e art. 3 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4.

2.1. Si duole il ricorrente del fatto che il Consiglio Nazionale Forense non abbia ritenuta affetta da nullità la decisione impugnata, sebbene la pronuncia dell’Ordine degli Avvocati di Brescia del 16 maggio 2014 non recasse la “firma autografa” del Presidente, avv. T.P. e del segretario, avv. Ta.Id., in carica al momento della pronuncia e che avevano partecipato alla relativa deliberazione, ma soltanto la firma – attestante il deposito della decisione, da parte del segretario allora in carica, avv. P.G.. Di più, la decisione emessa dal Consiglio Nazionale Forense nel caso di specie sarebbe contraria ad altra resa in precedenza dal medesimo organo (n. 82 del 2012), nella quale sarebbe stato affermato il principio secondo cui la decisione del Consiglio dell’Ordine deve essere sottoscritta, a pena di nullità, dal presidente e dal segretario. Per il che la sentenza in questione avrebbe, altresì, violato il disposto dell’art. 3 Cost..

2.2. Il motivo è infondato.

2.2.1. E’ ben vero, infatti, che – sensi del R.D. n. 37 del 1934, art. 51, comma 3 – la sentenza disciplinare emessa dal Consiglio dell’Ordine deve recare la sottoscrizione del presidente e del segretario, per tali intendendosi coloro che ricoprano tali cariche alla data della sua deliberazione, alla quale abbiano partecipato quali componenti del collegio (Cass. Sez. U., 07/11/2016, n. 22516).

Tuttavia, qualora la conformità all’originale della copia notificata della sentenza risulti attestata dal consigliere segretario, con riferimento all’indicazione a stampa del nome e del cognome del presidente e del segretario, tale formulazione della copia non è idonea a dimostrare la mancanza della sottoscrizione dell’originale asseverando, anzi, il contrario (Cass. Sez. U., 20/05/2014, n. 11024).

2.2.2. Ne discende, con riferimento al caso concreto, che nessun rilievo – ai fini della validità della pronuncia del Consiglio dell’Ordine di Brescia – riveste il fatto che la decisione comunicata all’avv. M. non rechi la “firma autografa” del presidente e del segretario che hanno partecipato alla deliberazione, ma solo l’indicazione di firma – “dattiloscritta”, ossia apposta a stampa -contenente i nominativi degli avvocati T. (presidente) e Ta. (segretario), seguita dall’attestazione del segretario in carica al momento del deposito. Tale attestazione – accertata dal Consiglio Nazionale Forense nell’impugnata pronuncia – vale, invero, a dimostrare la sottoscrizione dell’originale della sentenza da parte dei soggetti tenuti ad apporvela; di talchè la dedotta nullità non può ritenersi sussistente.

3. Con il secondo motivo di ricorso, l’avv. M. denuncia la violazione della L. 31 dicembre 2012, n. 247, art. 56, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

3.1. L’istante eccepisce – con riferimento all’episodio relativo all’esponente B. – la prescrizione del preteso illecito per decorso del termine dei sei anni – elevabile per effetto degli anni interruttivi (ciascuno dei quali fa decorrere un nuovo termine di prescrizione di cinque anni) fino ad un massimo di sette anni e sei mesi – previsto dalla L. n. 247 del 2012, art. 56, applicabile ratione temporis alla fattispecie concreta.

3.2. La censura è infondata.

3.2.1. L’illecito ascritto all’avv. M. si è, invero, concretato nell’avere il medesimo indebitamente trattenuto la somma di Euro 50.000, versatagli dal suo cliente, B.V., in deposito fiduciario, con l’espresso incarico di effettuare un investimento. Tale somma non è stata più restituita al depositante, sebbene – a detta dello stesso ricorrente – la restituzione fosse stata sollecitata dal B. in data 9 marzo 2012, sollecito al quale il professionista avrebbe risposto negando – in data 21 marzo 2012 la ricezione della somma contante (p. 8 del ricorso).

3.2.2. Tanto premesso, va anzitutto osservato che contrariamente all’assunto del ricorrente – al caso di specie non si applica il più favorevole regime della prescrizione previsto dalla L. n. 247 del 2012, art. 56, comma 3. Tale norma – a differenza della formulazione del previgente del R.D. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 51, a tenore del quale “L’azione disciplinare si prescrive in cinque anni”, senza che sia prevista limitazione alcuna al prolungamento di detto termine per effetto degli atti interruttivi dopo avere stabilito, al comma 1, che “L’azione disciplinare si prescrive nel termine di sei anni dal fatto”, ha previsto, al comma 3, che “Se gli atti interruttivi sono più di uno, la prescrizione decorre dall’ultimo di essi, ma in nessun caso il termine stabilito nel comma 1 può essere prolungato di oltre un quarto”, ossia per un termine superiore a sette anni e sei mesi.

Orbene, queste Sezioni unite hanno più volte affermato che la L. n. 247 del 2012, art. 56, comma 3, non si applica agli illeciti commessi – come nel caso di specie – anteriormente alla sua entrata in vigore, e ciò in quanto il potere disciplinare sanzionatorio in esame, per la sua natura amministrativa, resta insensibile al diritto sopravvenuto più favorevole (Cass. Sez. U., 18/04/2018, n. 9558; Cass. Sez. U., 25/03/2019, n. 8313; Cass. Sez. U., 24/01/2020, n. 1609).

3.2.3. Tanto premesso, deve ritenersi che il termine di prescrizione di cinque anni, previsto dalla disciplina previgente (applicabile ratione temporis alla fattispecie concreta) non fosse decorso alla data di emissione della pronuncia impugnata (25 ottobre 2018). Va, per vero, osservato che, in materia di procedimento disciplinare a carico degli avvocati, in presenza di una condotta illecita protratta nel tempo la prescrizione – che può essere eccepita, stante la natura pubblicistica della materia (cfr., in tal senso, anche Cass. Sez. U., 30/06/1999, n. 372), per la prima volta anche in sede di giudizio di legittimità – decorre dalla data di cessazione dell’illecito (Cass. Sez. U., 26/11/2008, n. 28159).

Orbene, nel caso di illecito permanente del professionista realizzato con l’omissione del rendiconto e con il trattenimento della somma consegnata dal cliente, il momento in cui cessa la permanenza dell’illecito coincide con quello dell’indebita appropriazione e cioè con il momento in cui il professionista nega il diritto del cliente sulla somma affermando il proprio diritto di trattenerla (Cass. Sez. U., 02/02/2015, n. 1822), cui può essere equiparata – come lo stesso ricorrente riconosce (p. 8) – la negazione di averla ricevuta (cfr. pure, in tal senso, con riferimento all’appropriazione, da parte dell’avvocato, dell’importo dell’assegno emesso a favore del proprio assistito dalla controparte soccombente in un giudizio civile, senza che il cliente sia informato dell’esito del processo che lo aveva visto vittorioso, Cass. Sez. U., 21/02/2019, n. 5200).

3.2.4. Nel caso di specie, non può condividersi l’assunto del ricorrente, secondo il quale l’illecito, consistito nell’appropriazione indebita della somma consegnatagli dal cliente, si sarebbe “consumato istantaneamente il 09.12.2009”, data del versamento del contante dal B. all’avv. M.. Per le ragioni suesposte, è – invero – evidente che la permanenza dell’illecito è cessata con la comunicazione del 21 marzo 2012, nella quale – a detta dello stesso avv. M., quest’ultimo avrebbe negato di avere ricevuta la suddetta somma, appropriandosene illecitamente. Per cui è da tale data che deve decorrere la prescrizione, in applicazione analogica dell’art. 158 c.p. (Cass., 28/09/2012, n. 16515; Cass. Sez. U., n. 28159/2008).

Ne consegue che – tenuto conto dei diversi atti interruttivi della prescrizione posti in essere dall’apertura del procedimento fino alla conclusione della fase giurisdizionale dinanzi al Consiglio Nazionale forense (v., in tal senso, Cass. Sez. U., 16/11/2015, n. 23364) (21 ottobre 2013, apertura del procedimento, 22 febbraio 2016, decisione del Consiglio dell’ordine locale, 25 ottobre 2018, decisione del Consiglio Nazionale forense) – il termine quinquennale di prescrizione, decorrente dal 21 marzo 2012, non può considerarsi decorso alla data in cui è stata depositata la sentenza del Consiglio Nazionale forense (29 luglio 2019).

3.3. Per tali ragioni, il mezzo deve essere, pertanto, disatteso.

4. Con il terzo motivo di ricorso l’avv. M. denuncia la violazione dell’art. 116 c.p.c., art. 2697 c.c., artt. 30 e 33 del Codice deontologico forense, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

4.1. Lamenta il ricorrente che il Consiglio Nazionale forense abbia effettuato, per quanto concerne la mancata restituzione della somma versatagli dal cliente, un’erronea interpretazione della “Dichiarazione di ricevuta” del 9 dicembre 2009, che avrebbe posto a fondamento principale della pronuncia di colpevolezza del M. per la vicenda B., sebbene tale dichiarazione fosse connotata da “ambiguità”, sì da richiedere maggiori approfondimenti della questione “al di là della firma del M. apposta in calce a tale assai infrequente e impropria dichiarazione”. Nella valutazione di tale prova il Consiglio forense avrebbe, quindi, “fatto malgoverno dell’art. 116 c.p.c.”, non tenendo altresì conto in maniera adeguata delle altre risultanze processuali, come pure non avrebbe fatto corretta applicazione dei principi in materia di onere della prova, ex art. 2697 c.c..

Quanto alla mancata restituzione del contratto di investimento, la cui consegna risulta, del pari, dalla cartula del 9 dicembre 2009, il Consiglio Nazionale forense non avrebbe tenuto conto del disposto dell’art. 2235 c.c., secondo cui il prestatore d’opera professionale – che è tenuto a restituire i documenti ricevuti per l’espletamento dell’incarico – può trattenerli per il tempo occorrente alla tutela dei propri diritti.

4.2. Il motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato.

4.2.1. Poichè le decisioni del Consiglio Nazionale Forense in materia disciplinare sono impugnabili dinanzi alle Sezioni Unite della Corte di cassazione, ai sensi del R.D. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 56, comma 3, convertito, con modificazioni, dalla L. 22 gennaio 1934, n. 36, soltanto per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge, l’accertamento del fatto, l’apprezzamento della sua rilevanza rispetto alle imputazioni, la scelta della sanzione opportuna e, in generale, la valutazione delle risultanze processuali non possono essere oggetto di controllo in sede di legittimità, salvo che si traducano in palese sviamento di potere, ossia nell’uso del potere disciplinare per un fine diverso da quello per il quale è stato conferito (Cass. Sez. U., 23/03/2007, n. 7103; Cass. Sez. U., 04/02/2009, n. 2637; Cass. Sez. U., 02/12/2016, n. 24647; Cass. Sez. Un., 31/07/2018, n. 20344).

Nel caso in esame, sub specie del vizio di violazione di legge (art. 30 Codice deontologico forense, art. 116 c.p.c. e art. 2697 c.c.), il ricorrente – men che lamentare specifiche violazioni delle norme succitate da parte della decisione impugnata – sollecita, nella sostanza, una rivisitazione dell’accertamento dei fatti e delle risultanze istruttorie, motivatamente effettuata dal Consiglio e non censurabile in questa sede.

4.2.2. Per quanto concerne, poi, la pretesa violazione dell’art. 2235 c.c. e art. 33 del Codice deontologico forense, va osservato che – ben al contrario dell’assunto del ricorrente – la prima norma consente il trattenimento dei documenti ricevuti “per il periodo strettamente necessario alla tutela dei propri diritti secondo le leggi professionali”. La seconda – dettata appunto in relazione ai professionisti legali – non consente, come esattamente rilevato dal Consiglio forense, di subordinare la restituzione della documentazione ricevuta in consegna al soddisfacimento dei propri diritti nei confronti del cliente, nè tanto meno di trattenere qualsiasi tipo di documenti che siano consegnati al legale dal proprio cliente. Ed invero, dal combinato disposto delle due norme si evince che il diritto di ritenzione, sancito per i professionisti dall’art. 2235 c.c., si riferisce ai soli documenti occorrenti per la dimostrazione dell’opera svolta (Cass. 31/07/2012, n. 13617), dovendo ogni altro documento essere restituito “senza ritardo” al cliente, ai sensi dell’art. 33, comma 1, del Codice deontologico forense.

Non può, pertanto, essere condivisa – ponendosi in palese contrasto con la normativa succitata – la tesi del M., secondo il quale il contratto in questione avrebbe potuto essere trattenuto fintantochè il cliente non avesse desistito dalle accuse nei confronti del legale e si fosse astenuto dal pretendere dal medesimo, “in modo meschino, la restituzione di somme che in realtà non ha mai

consegnato allo stesso” (p. 12 del ricorso).

4.3. La doglianza in esame va, di conseguenza, disattesa.

5. Con il quarto motivo di ricorso, l’avv. M. denuncia la violazione dell’art. 32 del Codice deontologico forense, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

5.1. L’istante censura la decisione impugnata, nella parte in cui avrebbe erroneamente ricostruito la vicenda concernente la rinuncia al mandato conferitogli da R.W., senza tenere conto che quest’ultimo si era dichiarato propenso a revocare il mandato al legale, che poi la situazione era rientrata in conseguenza degli accordi intercorsi tra le parti, ma che al legale “non era stato corrisposto quanto dovuto per la prestazione svolta”, sicchè il medesimo si era visto costretto a rinunciare al mandato. Tutti questi risvolti della situazione non sarebbero stati adeguatamente presi in considerazione dalla decisione impugnata.

5.2. Il motivo è inammissibile.

5.2.1. Il ricorrente, sub specie del vizio di violazione di legge, sollecita, nella sostanza, una rivisitazione dell’accertamento dei fatti, delle risultanze istruttorie e della rilevanza disciplinare dell’addebito, motivatamente effettuata dal Consiglio e non censurabile in questa sede.

5.2.2. La censura non può, pertanto, trovare accoglimento.

6. Il ricorso va, di conseguenza, rigettato, senza alcuna statuizione sulle spese, attesa la mancata costituzione degli intimati.

7. Difettando per le ragioni suesposte, il requisito della fondatezza delle doglianze proposte, l’istanza cautelare di sospensione non può trovare accoglimento.

PQM

La Corte, pronunciando a Sezioni Unite, dichiara inammissibile il ricorso nei confronti del Consiglio Nazionale Forense e lo rigetta nei confronti degli altri intimati. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Si dà atto che il presente provvedimento è sottoscritto dal solo presidente del collegio per impedimento dell’estensore, ai sensi del D.P.C.M. 8 marzo 2020, art. 1, comma 1, lett. a).

Così deciso in Roma, il 11 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 8 luglio 2020

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