Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14206 del 05/06/2013


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Civile Sent. Sez. L Num. 14206 Anno 2013
Presidente: VIDIRI GUIDO
Relatore: MAROTTA CATERINA

SENTENZA

sul ricorso 295-2008 proposto da:
INTESA SANPAOLO S.P.A., che ha incorporato la S.P.A.
SANPAOLO IMI, in persona del legale rappresentante pro
tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, CORSO
VITTORIO EMANUELE II 326, presso lo studio
dell’avvocato SCOGNAMIGLIO RENATO, che la rappresenta
2013
406

e difende unitamente all’avvocato SCOGNAMIGLIO
CLAUDIO, giusta delega in atti;
– ricorrente contro

SPANO’ ANNA;

Data pubblicazione: 05/06/2013

- intimata –

e sul ricorso 3646-2008 proposto da:
SPANO’

ANNA

SPNNNA57B43F839D,

elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA FEDERICO CONFALONIERI 5,
presso lo studio dell’avvocato MANZI ANDREA, che la

– controricorrente e ricorrente incidentale contro

INTESA SANPAOLO S.P.A., che ha incorporato la S.P.A.
SANPAOLO IMI, in persona del legale rappresentante pro
tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, CORSO
VITTORIO EMANUELE Il 326, presso lo studio
dell’avvocato SCOGNAMIGLIO RENATO, che la rappresenta
e

difende

unitamente

all’avvocato

SCOGNAMIGLIO

CLAUDIO, giusta delega in atti;
– controricorrente al ricorso incidentale –

e sul ricorso 13698-2009 proposto da:
SPANO’

ANNA

SPNNNA57B43F839D,

elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA FEDERICO CONFALONIERI 5,
presso lo studio dell’avvocato MANZI ANDREA, che la
rappresenta e difende, giusta delega in atti;
– ricorrente contro

INTESA SANPAOLO S.P.A., che ha incorporato la S.P.A.
SANPAOLO IMI, in persona del legale rappresentante pro
tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, CORSO

rappresenta e difende, giusta delega in atti;

VITTORIO

EMANUELE

II

326,

presso

lo

studio

dell’avvocato SCOGNAMIGLIO RENATO, che la rappresenta

e difende unitamente all’avvocato SCOGNAMIGLIO
CLAUDIO, giusta delega in atti;
controricorrente-

avverso la sentenza definitiva n.

1321/2007

della

CORTE D’APPELLO di ROMA e avverso la sentenza non
definitiva n.

2021/2006 della CORTE D’APPELLO di ROMA

R.G.N. 163/2004;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 05/02/2013 dal Consigliere Dott. CATERINA
MAROTTA;
udito l’Avvocato SCOGNAMIGLIO CLAUDIO;
udito l’Avvocato MANZI ANDREA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. GIANFRANCO SERVELLO che ha concluso per
l’accoglimento del ricorso principale, assorbimento
degli altri.

:

R. Gen. N. 295/2008.
N. 3646/2008.
N. 136978/200:
Udienza 5/2/201.
Spanò Anna chntesa Sai
Paolo S.p.A

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso al Tribunale, giudice del lavoro, di Roma, Anna Spanò, impiegata di
prima categoria, conveniva in giudizio la San Paolo Imi S.p.A. dolendosi della
mancata promozione al grado di funzionario cui da tempo aspirava. Rilevava che,

pur in presenza di tutti i presupposti di fatto e contrattuali per il richiesto
avanzamento, tale mancata promozione era da considerarsi ingiusta e frutto di
discriminazione sessuale in suo danno. Il giudice di primo grado, nel contraddittorio
con la Banca convenuta, rigettava il ricorso. Proposto appello da parte della
lavoratrice, la Corte di appello di Roma, con sentenza non definitiva del 18 dicembre
2006, accertava la sussistenza della discriminazione relativamente al periodo dal 1°
luglio 1994 al 3 giugno 1996 (cioè fino a quando la Spanò aveva chiesto ed ottenuto
di essere collocata in part-time) ritenendo che, in base alle disposizioni di cui alle
leggi n. 125/1991 e n. 903/1977, la lavoratrice non avesse altro onere di allegazione
se non quello (a) dell’effetto pregiudizievole personale – come nella fattispecie in
esame, il mancato avanzamento di carriera – e (b) della verosimiglianza del fatto che
tale pregiudizio dipendesse da una discriminazione (diretta e personale ovvero
indiretta). Rilevava che la Spanò avesse proposto la domanda affermando di avere
subito una discriminazione in via personale e diretta a causa della violazione da parte
del datore di lavoro dei criteri di valutazione dell’avanzamento in carriera. Riteneva
che, a fronte della dimostrata attitudine alla nomina a funzionario (di per sé non
sufficiente a fondare il diritto alla nomina), sussistesse la ragionevole presunzione
che la medesima fosse stata vittima di discriminazione. Richiamava, altresì, a tale
ultimo riguardo, due interpellanze parlamentari (rispettivamente del 10/3/1987 e del
15/11/1995) aventi ad oggetto l’esiguità delle promozioni ottenute dal personale

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N. 3646/2008.
N. 136978/200
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Spanò Anna cl Intesa Sai
Paolo 5.p.A

femminile dell’Istituto Mobiliare Italiano ed il parere rilasciato dal Collegio
Istruttorio del Comitato nazionale di parità e pari opportunità nel novembre 1997
evidenziante la totale mancanza di specificazione dei criteri di misurazione degli

pronunciata il 4 febbraio 2007 e depositata il 4 giugno 2008, la Corte territoriale
dichiarava inammissibile la domanda diretta ad ottenere una pronuncia di
avanzamento in carriera (tutela in forma specifica) ritenendo che la Spanò avesse
agito con l’azione ordinaria di cui all’art. 15 dello statuto dei lavoratori e non ai sensi
della normativa speciale di cui alle leggi n. 903/1997 e n. 125/1991 che solo
prevedono la possibilità di far cessare gli effetti del comportamento discriminatorio
con condanna dell’autore dell’illecito. Sul presupposto, però, che anche un’azione
ordinaria come quella intrapresa dalla ricorrente potesse dal luogo a risarcimento del
danno, condannava la società appellata al pagamento in favore di controparte di una
indennità risarcitoria pari alle differenze retributive tra il trattamento corrisposto alla
Spanò nel periodo dal 1° luglio 1994 al 3 giugno 1996 e quello proprio del
funzionario.
Avverso le sentenze ricorre la Intesa San Paolo S.p.A. (già San Paolo IMI) con
un unico ricorso (notificato e depositato prima della pubblicazione della sentenza
definitiva) affidato ad un motivo, cui la Spanò resiste con controricorso, formulando
ricorso incidentale autonomo affidato a quattro motivi (tutti riferiti alla sentenza non
definitiva) al quale, a sua volta, resiste la Banca con controricorso.
Ricorre, poi, autonomamente contro la sentenza definitiva Anna Spanò
affidandosi a cinque motivi riferiti alla sentenza definitiva e riproponendo i quattro

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obiettivi ai fini della progressione in carriera. Quindi, con sentenza definitiva

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Paolo S.p.A

motivi di cui al ricorso incidentale. Resiste con controricorso la Intesa San Paolo
S.p.A..
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
MOTIVI DELLA DECISIONE

1. I ricorsi hinc et inde proposti avverso la stessa sentenza sono stati riuniti ex
art. 335 cod. proc. civ..
2. Con unico motivo di ricorso principale la Banca Intesa San Paolo denuncia:
“Violazione e falsa applicazione degli artt. 3 Cost., 1, 2 e 3 della legge 9/12/1977 n.
903, 1, 2 3, 4 della legge 10/4/1991 n. 125 e, per quanto possa occorrere, dell’art. 2
della legge 13/5/1990 n. 135, nonché degli artt. 2697, 2727 e 2729 cod. civ., carenza
e contraddittorietà della motivazione su un punto decisivo della controversia”.
Lamenta la ricorrente il fatto che la Corte territoriale abbia accolto la domanda
ritenendo sussistente una discriminazione per ragioni di sesso, pur limitatamente al
periodo 1/7/1994 – 3/6/1996, sotto le suggestioni di un’erronea e fuorviante
applicazione della normativa di legge a tutela del lavoro femminile e sulla base di
una motivazione del tutto inadeguata. Rileva, in particolare, che la Corte capitolina,
erroneamente integrando la norma elastica di cui all’art. 1 della legge della legge n.
903/1977, ha dapprima fatto riferimento ad una discriminazione diretta, senza
tuttavia indicare alcun significativo elemento di prova fornito dalla lavoratrice da cui
evincere che quest’ultima fosse stata postergata nell’inquadramento come
funzionario nei confronti dei dipendenti di sesso maschile, in una tornata di
promozioni collettive o in un episodio di promozione individuale, salvo poi a ritenere
comunque sussistente una discriminazione indiretta, ed in questo caso senza spiegare
come una attitudine possa assumere rilevanza a tale fine e facendo riferimento, per
(

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dimostrare la praticata discriminazione, a circostanze tutt’altro che precise e
concordanti.
Il motivo, che si conclude con un quesito di diritto idoneo ad intercettare la

congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l’enunciazione del principio
giuridico generale, è fondato nei termini di seguito illustrati.
I divieti di discriminazione previsti nel nostro ordinamento completano la
disciplina garantista del diritto del lavoro affiancandosi alle disposizioni sulla parità
di trattamento ed anzi assicurando a queste ultime concreta attuazione attraverso uno
specifico contenuto precettivo e misure strumentali alla realizzazione dell’obiettivo
della parità.
Di atti antidiscriminatori nei rapporti di lavoro si occupa, invero, già la legge 20
maggio 1970, n. 300 che all’art. 15, appunto intitolato “Atti discriminatori” e
costituente una prima attuazione del principio di parità nel rapporto di lavoro,
sanziona con la nullità qualsiasi patto o atto diretto a discriminare un lavoratore, tra
l’altro, nell’assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei
provvedimenti disciplinari e dunque caratterizzato ex lege da un motivo illecito
anche al di là degli specifici ed ulteriori presupposti richiesti dall’art. 1345 cod. civ.
(non occorrendo che il motivo discriminatorio sia esclusivo, né che sia comune alle
parti essendo rilevante l’intento discriminatorio del solo datore di lavoro).
Detta norma, in linea con il filone principale dello Statuto dei lavoratori, nella
sua iniziale formulazione, si riferiva alle discriminazioni per motivi sindacali, terreno
originario di applicazione del principio anche in altri ordinamenti.

questione devoluta alla Corte e ad assolvere alla funzione di costituire il punto di

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Una esplicita attuazione del principio di parità uomo-donna desumibile dagli
artt. 3, 37 e 51 Cost., dall’art. 119 del Trattato CEE e dalle direttive CEE 10/2/75 n.
117 e 12/2/76 n. 207, si è avuta con la legge 9/12/77 n. 903 che ha previsto, tra

lavoro, formazione e aggiornamento professionale (art. 1), il diritto alla parità
retributiva e a criteri di classificazione comune (art. 2), il divieto di discriminazione
in materia di attribuzione delle qualifiche e delle mansioni e di progressione nella
carriera (art. 3), la parità in materia di cessazione dal lavoro (art. 4), le modalità di
partecipazione delle donne al lavoro notturno ed divieto assoluto dall’inizio dello
stato di gravidanza fino al compimento del settimo mese di età del bambino (art. 5)
ed ha aggiunto all’art. 15 dello Statuto dei lavoratori l’ultimo comma prevedente
espressamente il divieto di discriminazione per ragioni politiche, religiose, di sesso,
razza e lingua (art. 13) e, dunque, esteso la nullità anche ai patti o atti diretti a fini di
tali tipologie di discriminazione (successivamente il decreto legislativo n. 216/2003
ha ulteriormente esteso l’indicata sanzione anche alle discriminazioni in base
all’handicap, all’età, all’orientamento sessuale e alle convinzioni personali).
Sempre la legge n. 903/77 all’art. 15 ha articolato un procedimento di
repressione di condotte discriminatorie poste in essere dal datore di lavoro modulato
su quello di cui all’art. 28 Stat., anzi pressoché identico se non per due significative
differenze in tema di legittimazione attiva e di tutela reintegratoria: a) legittimato
attivo è il lavoratore discriminato o, per sua delega, l’organizzazione sindacale; b)
oltre alle forme di tutela inibitoria e reintegratoria in forma specifica analoghe a
quanto previsto dall’art. 28, è prevista anche la condanna al risarcimento del danno

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l’altro: il divieto di discriminazioni fondate sul sesso relativamente all’accesso al

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(patrimoniale e non patrimoniale). Il tutto, però, sempre nell’ambito della procedura
d’ urgenza.
Con tale normativa, il procedimento giurisdizionale a tutela del soggetto

sesso rispetto all’accesso al lavoro o in merito all’inosservanza del divieto di adibire
il personale femminile a mansioni in orario notturno. Per qualunque altra condotta
discriminatoria che abbia pregiudicato la lavoratrice nello svolgimento del rapporto
di lavoro, l’unico strumento processuale utilizzabile continua ad essere l’azione
ordinaria di nullità di cui all’art. 15 dello Statuto dei lavoratori.
Un rafforzamento della tutela discriminatoria tanto sul piano sostanziale quanto
su quello processuale si è avuto con la legge del 10 aprile 1991 n. 125 (che ha
recepito la raccomandazione CEE 13/12/84 n. 635 che sollecitava gli Stati membri ad
adottare misure a salvaguardia delle donne nell’accesso al lavoro e nello sviluppo di
carriera professionale) che, in particolare, ha sancito il passaggio dal mero principio
di parità di trattamento a quello di pari opportunità, specialmente attraverso la
previsione delle azioni positive di cui all’art. 4 al fine di rimuovere gli ostacoli che
di fatto impediscono la realizzazione di pari opportunità.
Tale norma ha innanzitutto introdotto la distinzione tra discriminazione diretta
ed indiretta prevedendo che costituisce discriminazione, ai sensi della legge 9
dicembre 1977, n. 903, qualsiasi atto o comportamento che produca un effetto
pregiudizievole discriminando “anche in via indiretta” i lavoratori in ragione del
sesso e che costituisce discriminazione indiretta ogni trattamento pregiudizievole
conseguente alla adozione di criteri che svantaggino in modo proporzionalmente

discriminato resta tuttavia esperibile solo nel caso di una discriminazione basata sul

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maggiore i lavoratori dell’uno o dell’altro sesso e riguardino i requisiti non essenziali
allo svolgimento dell’attività lavorativa.
Da un punto di vista processuale l’art. 4 della legge n. 125/1991 ha configurato

(o del consigliere) di parità, che possono promuovere tanto un procedimento speciale
a cognizione sommaria quanto l’azione ordinaria.
Il suddetto art. 4 della legge n. 125/1991, poi modificato dall’art. 8 del d.lgs. n.
196/2000, è stato, quindi trasfuso negli artt. 36 e ss. del codice delle pari opportunità
tra uomo e donna – d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198, poi integrato dal d.lgs. del 25
gennaio 2010 n. 5 – che all’art. 25 ha mantenuto la distinzione tra discriminazione
diretta e indiretta prevedendo al comma 1 che: “Costituisce discriminazione diretta,
ai sensi del presente titolo, qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o
comportamento, nonché l’ordine di porre in essere un atto o un comportamento, che
produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in
ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quello
di un’altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga” ed al comma 2
che: “Si ha discriminazione indiretta, ai sensi del presente titolo, quando una
disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento
apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato
sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell’altro sesso,
salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa,
purché l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano
appropriati e necessari”.

una concorrente legittimazione della lavoratrice (o del lavoratore) e della consigliera

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Nel nuovo impianto legislativo, dunque, oggetto dei divieti di discriminazione
non sono soltanto le leggi e gli atti negoziali (in particolare le pattuizioni, individuali
e collettive, relative alle condizioni di lavoro e i negozi unilaterali di gestione del

differenziazione vietati, ma anche i meri comportamenti ispirati a tali criteri, nei
quali si configura al tempo stesso un inadempimento contrattuale e un illecito
aquiliano, con conseguente responsabilità risarcitoria del datore nei confronti del
prestatore di lavoro discriminato.
Inoltre, il provvedimento in via d’urgenza, può essere promosso dal lavoratore
interessato in qualsiasi ipotesi di discriminazione di genere, e quindi, non solo, come
inizialmente previsto dall’art. 15 1. n. 903 del 1977, per far valere discriminazioni
nell’accesso al lavoro e nell’adibizione a lavoro notturno.
Per il resto, lo schema di tutela giurisdizionale contro le discriminazioni di
genere introdotto dall’art. 4 della legge n. 125 del 1991 è rimasto sostanzialmente
immutato nella disciplina del codice delle pari opportunità.
Dunque, la tutela antidiscriminatoria può avvalersi, oggi (e sin dalle modifiche
di cui al d.lgs. 196/2000), di azioni ordinarie, l’una individuale e l’altra collettiva (o
pubblica), e di due simmetriche procedure d’urgenza.
Nell’azione individuale (che può riguardare tanto una discriminazione diretta
quanto una discriminazione indiretta) è il singolo che si attiva per far valere la
lesione di un proprio diritto; mentre, in quelle collettive, è il consigliere di parità
nazionale o regionale, in relazione all’area geografica di interesse che, con riguardo
ad atti, patti o comportamenti discriminatori diretti e indiretti, anche quando non

rapporto), illegittimi per il solo fatto che in essi si concreti l’applicazione di criteri di

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siano individuabili immediatamente o direttamente le lavoratrici o i lavoratori lesi,
prende l’iniziativa per farsi portavoce degli interessi di un insieme di lavoratori.
Le azione ordinarie devono essere precedute, per i dipendenti di datori di lavoro

Consigliere di parità provinciale o regionale su delega del lavoratore o dei lavoratori
interessati) nelle forme previste dalla contrattazione collettiva e dall’art. 410 c.p.c.; e,
per i dipendenti di strutture pubbliche, nelle forme di cui all’art. 66 d.lgs. n.
165/2001.
Altrettanto non è richiesto, ovviamente, per le procedure d’urgenza atteso che
l’espletamento del tentativo suddetto in tal caso rischierebbe di vanificare la tutela.
Mentre nel caso di azione individuale l’azione può condurre ai medesimi
risultati previsti dalla normativa previgente (la sanzione di nullità degli atti o patti
discriminatori, l’ordine di rimozione degli effetti e di cessazione della condotta
iniqua, il risarcimento del danno), nel caso dell’azione in giudizio contro le
discriminazioni a carattere collettivo, il giudizio può portare all’ordine di definizione
di un piano collettivo di rimozione degli effetti discriminatori (al mancato
adempimento di detto ordine consegue l’applicazione dell’art. 650 del codice penale,
che punisce l’inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità).
L’art. 40 del codice, rubricato “Onere della prova”, riproduce la regola
introdotta dall’art. 4, comma 6, della legge n. 125/1991 nel testo modificato dall’art.
8 del d.lgs. n. 196/2000. In sintesi, la norma pone a carico del soggetto convenuto nel
giudizio instaurato a seguito dell’esperimento tanto di un’azione collettiva quanto di
un’azione del consigliere di parità in caso di discriminazione collettiva, l’onere di
fornire la prova dell’inesistenza della discriminazione, nel caso in cui il ricorrente

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privati, dal tentativo di conciliazione (promosso, oltre che dal singolo, anche dal

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fornisca al giudice elementi di fatto desunti anche da dati di carattere statistico, circa
i comportamenti discriminatori lamentati (assunzioni, trasferimenti, regimi
retributivi, assegnazioni a mansioni e qualifiche, progressione in carriera,

presunzione dell’esistenza di atti, patti e comportamenti discriminatori in ragione del
sesso”.
La suddetta disposizione appare in linea con quanto disposto dalla direttiva n.
2006/54 CE in tema di opportunità nei rapporti di lavoro che all’art. 19 prevede che:
“1. Gli Stati membri, secondo i loro sistemi giudiziari, adottano i provvedimenti
necessari affinché spetti alla parte convenuta provare l’insussistenza della violazione
del principio della parità di trattamento ove chi si ritiene leso dalla mancata
osservanza nei propri confronti di tale principio abbia prodotto dinanzi ad un organo
giurisdizionale, ovvero dinanzi ad un altro organo competente, elementi di fatto in
base ai quali si possa presumere che ci sia stata discriminazione diretta o indiretta. 2.
Il paragrafo 1 non osta a che gli Stati membri impongano un regime probatorio più
favorevole alla parte attrice”. Tale direttiva, che raggruppa in un unico testo i
principali contenuti delle direttive anteriori in tema di non discriminazione nonché
certi sviluppi risultanti dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, con riguardo
all’onere della prova riproduce analoga disposizione già prevista dalla direttiva n.
80/1997, art. 4.
Sulla portata di tali direttive e sulla operatività dell’onere della prova dalle
stesse previsto si è a lungo interrogata la dottrina all’interno della quale hanno preso
corpo diverse opzioni interpretative contrapponendosi all’opinione favorevole a
leggere nella norma la previsione di una vera e propria inversione dell’onere della

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licenziamenti), purché “idonei a fondare in termini precisi e concordanti la

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prova il diverso orientamento propenso a sostenere che si tratti di una semplice
attenuazione dell’onere della prova in favore della parte ricorrente.
Anche la Corte di Giustizia dell’Unione europea, è stata investita della questione

21/07/2011 resa nella Causa C-104/10 (domanda di pronuncia pregiudiziale proposta
dalla High Court of Ireland – (Irlanda) – Patrick Kelly/National University of Ireland
– University College, Dublin -) al par. 29 si è così espressa: “La direttiva 97/80
enuncia, all’art. 4, n. 1, che gli Stati membri adottano i provvedimenti necessari
affinché spetti alla parte convenuta provare l’insussistenza della violazione del
suddetto principio ove chi si ritiene leso dalla mancata osservanza nei propri
confronti di tale principio abbia prodotto dinanzi ad un organo giurisdizionale,
ovvero dinanzi ad un altro organo competente, elementi di fatto in base ai quali si
possa presumere che ci sia stata discriminazione diretta o indiretta (v. sentenza 10
marzo 2005, causa C-196/02, Nikoloudi, Racc. pag. 1-1789, punto 68)” ed al par. 30:
“In tal senso, incombe a colui che si ritenga leso dal mancato rispetto del principio di
parità di trattamento, dimostrare, in un primo momento, i fatti che consentano di
presumere la sussistenza di una discriminazione diretta o indiretta. Solamente nel
caso in cui questi abbia provato tali fatti, spetterà poi alla controparte, in un secondo
momento, dimostrare che non vi sia stata violazione del principio di non
discriminazione”.
Dunque, non pare possa leggersi nelle direttive citate una esortazione al
legislatore nazionale a prevedere una vera e propria inversione dell’onere della
prova. Le direttive, infatti, impongono un alleggerimento del carico probatorio
gravante sull’attore prevedendo che questi alleghi e dimostri circostanze di fatto dalle

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interpretativa con riferimento alla direttiva n. 80/1997 e nella decisione n. 104 del

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quali possa desumersi per inferenza che la discriminazione abbia avuto luogo per far
scattare l’onere per il datore di lavoro di dimostrare l’insussistenza della
discriminazione.

della legge n. 125/1991 nel testo modificato dall’art. 8 del d.lgs. n. 196/2000,
richiede che la presunzione derivante dagli elementi di fatto addotti dall’attore o
dalla consigliera di parità abbia i caratteri della precisione e della concordanza.
Ed allora può ritenersi, in conformità con quanto previsto dal legislatore
comunitario, che la suddetta disposizione abbia alleggerito l’onere probatorio a
carico del ricorrente anche rispetto alla regola di cui all’art. 2729 cod. civ., in quanto
non ha richiesto il requisito di gravità della presunzione, ma solo che la
discriminazione si fondi su presunzioni precise e concordanti. Ciò, evidentemente
non significa che è stata attuata una inversione dell’onere della prova (neppure voluta
dal legislatore comunitario) ma semplicemente che è stato introdotto un onere
probatorio “asimmetrico” (si è fatto riferimento in dottrina ad una solo parziale
relevatio ab onere probandi in favore del soggetto discriminato): rimane fermo per
l’attore l’onere della prova, ma l’assolvimento dello stesso richiede il conseguimento
di un grado di certezza minore rispetto a quello consueto. In sintesi: dimostrati i fatti
che fanno ritenere probabile la discriminazione, spetta alla controparte dimostrarne
l’insussistenza.
Ai fini di tale dimostrazione “alleggerita”, inoltre, il requisito della precisione
impone che i fatti noti da cui muove il ragionamento probabilistico (e cioè l’esistenza
di atti, patti e comportamenti per l’appunto discriminatori) ed il percorso che essi
seguono non siano vaghi ma ben determinati nella loro realtà storica; il requisito

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Peraltro l’art. 40 del codice, al pari di quanto già previsto dall’art. 4, comma 6,

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della concordanza postula che la prova sia fondata su una pluralità di fatti noti
convergenti nella dimostrazione del fatto ignoto. Inoltre l’indicazione, quale
elemento tipizzato, dei dati statistici, se non è tale da sostanziare, di per sé, il (non

grado di convincimento in ordine all’esistenza del fatto ignoto – è tuttavia
emblematica della serietà che deve caratterizzare gli elementi su cui fondare il
ragionamento probabilistico (una prova statistica, infatti, ancorché non caratterizzata
da un rigore scientifico cui resisti non potest non può che essere caratterizzata, ai fini
della controllabilità globale dei risultati, da una chiara esplicitazione delle modalità
di rilevazione degli stessi, dalla misurazione oggettiva e quantitativa dei fenomeni,
da chiare modalità di presentazione delle informazioni).
Tanto chiarito in termini generali, va detto che l’onere della prova “alleggerito”
nei termini sopra considerati sicuramente si applica a tutte le azioni instaurate ai
sensi della legge n. 125/1991 (le cui disposizioni sono state, come detto, trasfuse nel
codice delle pari opportunità) sia a quelle individuali proposte dalla lavoratrice (o del
lavoratore) sia a quelle collettive proposte dalla consigliera (o dal consigliere) e di
parità, sia che si tratti di un procedimento speciale a cognizione sommaria sia che
(dopo le modifiche introdotte dal d.lgs. n. 196/2000) sia stata invece intrapresa una
azione ordinaria (per quanto già detto, assolutamente sovrapponibile a quella prevista
dall’art. 15 dello statuto dei lavoratori, potendo condurre ai medesimi risultati
previsti da quest’ultima: declaratoria di nullità degli atti o patti discriminatori, ordine
di rimozione degli effetti e di cessazione della condotta iniqua, risarcimento del
danno).

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previsto) requisito della gravità – nel senso della attitudine a produrre un significativo

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Udienza 5/2/201.
Spanò Anna c/ Intesa Sal
Paolo S.p.A

Nulla, infatti, autorizza a ritenere il suddetto regime probatorio applicabile solo
all’azione speciale e, del resto, una interpretazione in senso così limitativo
confliggerebbe con i principi posti dal legislatore comunitario.

condotta discriminatoria per ragioni di genere sia essa prospettata quale
discriminazione diretta sia essa diretta a denunciare una discriminazione indiretta.
Orbene, nella specie, la Corte territoriale non si è attenuta agli indicati principi.
Per quanto si evince dalla sentenza impugnata e dallo stesso controricorso della
Spanò, quest’ultima aveva agito (con una azione antidiscriminatoria in via ordinaria
nell’ambito della quale ben avrebbe potuto avvalersi del regime probatorio
semplificato di cui sopra si è detto) lamentando la mancata promozione a funzionario
alla quale da tempo aspirava. Aveva sostenuto che, pur in presenza di tutti i
presupposti di fatto (specificità delle conoscenze, alta specializzazione, elevato
rendimento, giudizi positivi e ripetute proposte di avanzamento) e contrattuali, la
promozione le era stata negata e che la discriminazione individuale subita si inseriva
in un quadro di discriminazione generale e diffusa in danno del personale femminile
dell ‘ Imi.
Non si trattava, dunque, della denuncia di un trattamento deteriore discendente
immediatamente dall’adozione del criterio selettivo per genere (discriminazione
diretta) bensì della prospettazione di un trattamento individuale pregiudizievole
conseguente all’applicazione di un criterio diverso da quello di genere e di per sé
apparentemente neutro che però, nelle descritte circostanze aziendali, aveva finito
con il produrre un trattamento deteriore per genere (discriminazione indiretta).

Naturalmente deve trattarsi di una azione chiaramente diretta a sanzionare una

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N. 136978/200:
Udienza 5/2/201.
Spanò Anna c/ Intesa Sai
Paolo S.p.A

Del resto non risulta che la Spanò avesse addotto l’adozione da parte della
Banca di un criterio selettivo tale da determinare una diretta discriminazione ai suoi
danni per ragioni di sesso né l’indicata sussistenza dei presupposti fattuali e

risultando la stessa, come ritenuto dalla stessa Corte territoriale, solo significativa di
una attitudine in astratto a ricoprire il ruolo di funzionario, non anche di una
sperequazione per ragioni di genere.
Quanto alla lamentata discriminazione indiretta, gli elementi addotti dalla Spanò
non corrispondono a quelli richiesti dalla normativa sopra richiamata per fondare il
ragionamento probabilistico posto dalla Corte capitolina a sostegno del decisum.
Mancano negli atti posti da Spanò a base della lamentata discriminazione
(indiretta) e specificamente valorizzati nella decisione impugnata quelle
caratteristiche di precisione, concordanza e, si aggiunge, di serietà richieste dalle
disposizioni normative speciali in tema di onere della prova perché possa scattare
sulla parte convenuta l’onere di dimostrare l’insussistenza della discriminazione.
Si fa, infatti, riferimento a due interpellanze parlamentari e cioè ad atti a
contenuto prevalentemente politico attraverso le quali i parlamentari, veicolando
istanze di categorie interessate, sottopongono al Governo determinate questioni per
ottenere spiegazioni e risposte su ciò che riguarda l’indirizzo politico del Governo
stesso. Si tratta di atti che al più possono rappresentare una sensibilità puntuale ma
che sono privi di quella attendibilità scientifica idonea a connotarli della serietà che il
legislatore ha inteso comunque richiedere a mezzo dell’espresso riferimento ai dati
statistici.

contrattuali per l’avanzamento in carriera è indicativa di tale discriminazione

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N. 3646/2008.
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Udienza 5/2/201.
Spanò Anna ci Intesa Sai
Paolo S.p.A

Peraltro si tratta di atti distanziati l’uno dall’altro di ben otto anni (la prima
interpellanza è del 1987, la seconda è del 1995) e quindi di certo non temporalmente
convergenti nella dimostrazione probabilistica del fatto ignoto.

Comitato nazionale di parità e pari opportunità reso nel novembre 1997 a seguito
della citata interpellanza del 15/11/1995. Si tratta, infatti, di una valutazione resa, a
seguito di una istruttoria i cui criteri di rilevazione dei dati non risultano esplicitati,
da un organo destinato meramente ad interloquire con il Comitato.
Gli elementi addotti dalla ricorrente (esclusa essendo la possibilità che una
sommatoria di dati in sé inconsistenti e privi di precisione possa assumere una
qualche valenza) non avevano, dunque, quelle caratteristiche per essere considerati, a
termini di legge, fatti idonei a consentire di presumere la sussistenza di una
discriminazione; ciò tanto più in un contesto – quello della nomina di funzionari
bancari – in cui i criteri fiduciari non possono certo essere considerati come non
essenziali a termini dell’art. 4 co. 2 della legge n. 125/1991.
Non avendo, dunque, la Spanò fornito, sulla base di una comparazione
attendibile tra il suo ed i trattamenti ricevuti da soggetti di genere diverso ma versanti
nella sua stessa condizione, elementi di fatto idonei a fondare, in termini precisi e
concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti o comportamenti discriminatori,
nessun onere ricadeva sulla Banca convenuta che ben poteva limitarsi ad eccepire,
come è accaduto (ed in punto di fatto non è controverso), che nelle scelte poste a
base delle promozioni era stato preferito, per esigenze aziendali, chi fosse in
possesso di una laurea in scienze economiche o tecniche.

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Eguale ragionamento va svolto con riguardo al parere del Collegio istruttorio del

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N. 3646/2008 •
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Spanò Anna c/ Intesa Sai
Paolo S.p.A

Da tanto consegue che il ricorso principale deve essere accolto con assorbimento
degli altri; la sentenza impugnata va, dunque, cassata in relazione alle censure
accolte e, non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, la causa va decisa nel

Il diverso esito dei giudizi di merito e la novità delle questioni trattate
costituiscono giusto motivo per compensare integralmente tra le parti le spese
processuali.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi; accoglie il ricorso principale con assorbimento degli
altri; cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e decidendo nel
merito rigetta la domanda iniziale di Anna Spanò. Compensa tra le parti le spese
dell’intero processo.
Così deciso in Roma, il 5 febbraio 2013

Il Consiglier

Il Presidente

merito con il rigetto della domanda iniziale di Anna Spanò.

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