Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14202 del 14/06/2010

Cassazione civile sez. lav., 14/06/2010, (ud. 05/05/2010, dep. 14/06/2010), n.14202

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE LUCA Michele – Presidente –

Dott. LAMORGESE Antonio – rel. Consigliere –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. MAMMONE Giovanni – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 33640-2006 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso

lo studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, che la rappresenta e difende,

giusta mandato a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

B.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PELAGIO I,

10, presso lo studio dell’avvocato STUDIO LEGALE MURANO-CENTOMIGLIA

ANTONIETTA che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato

PERROTTA ALESSANDRO, giusta mandato a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5570/2006 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 25/08/2006 R.G.N. 2043/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

05/05/2010 dal Consigliere Dott. ANTONIO LAMORGESE;

udito l’Avvocato FIORILLO LUIGI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

ABBRITTI PIETRO, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza depositata il 25 agosto 2006, la Corte di appello di Roma, in riforma della decisione di primo grado, ha accolto la domanda avanzata da B.A. nei confronti della società Poste Italiane ed ha dichiarato la nullità del termine apposto al contratto di lavoro stipulato tra il B. e la società con decorrenza dal 5 ottobre 2000, con la conseguente trasformazione, a far tempo dalla stessa data, del rapporto in quello di lavoro subordinato a tempo indeterminato, e con la condanna della società a corrispondere al lavoratore le retribuzioni maturate dalla costituzione in mora in data 24 marzo 2004, oltre interessi e svalutazione monetaria.

La Corte di merito è pervenuta a queste conclusioni, avendo accertato; che l’assunzione dell’appellante era avvenuta con contratto a termine stipulato; per il periodo 5 ottobre 2000/31 gennaio 2001, ai sensi dell’art. 8 c.c.n.l. 26 novembre 1994 e del successivo accordo integrativo del 25 settembre 1997, per far fronte alle esigenze di carattere straordinario conseguenti a processi di riorganizzazione, ivi ricomprendendo un più funzionale riposizionamento di risorse sul territorio, anche derivanti da innovazioni tecnologiche, ovvero conseguenti all’introduzione e/o sperimentazione di nuove tecnologie, prodotti o servizi. Essendo le assunzioni per tali ipotesi legittimate dalla contrattazione collettiva fino al 30 aprile 1998, data di scadenza della proroga per l’esercizio della facoltà per l’azienda di procedere ad assunzioni a termine per sopperire alle dette esigenze, il termine era stato illegittimamente apposto.

La cassazione di questa sentenza è stata chiesta dalla società, con ricorso basato su tre motivi.

L’intimato ha resistito con controricorso, poi illustrato con memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1372 cod. civ. e critica la sentenza impugnata per avere disatteso l’eccezione sollevata dalla società, di risoluzione per mutuo consenso del rapporto di lavoro intercorso con il B..

Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione della L. 18 aprile 1962, n. 230, L. 26 febbraio 1987, n. 56, art. 23 e degli artt. 1362 e ss. cod. civ., unitamente a vizio di motivazione. Deduce l’errore in cui è incorsa la Corte territoriale nel ritenere che l’esercizio da parte dell’azienda della facoltà di procedere ad assunzioni di lavoratori a termine per le ipotesi previste dall’art. 8 c.c.n.l. 1994, come integrate dall’accordo del 1997, fosse consentito fino al 30 aprile 1998: sia tale accordo integrativo che quelli successivi, ad avviso della società ricorrente, hanno natura ricognitiva della situazione aziendale e non fissano alcun limite temporale per le assunzioni a termine del personale. Erroneamente la sentenza impugnata ha considerato irrilevante l’accordo collettivo del 18 gennaio 2001 e ne ha limitato la portata a mera funzione di legittimazione a posteriori dei contratti a termine stipulati dopo il predetto limite temporale del 30 aprile 1998.

Il terzo motivo, denunciando violazione degli artt. 1217 e 1233 cod. civ., contesta la sentenza impugnata in relazione alle statuizioni adottate sulle conseguenze economiche della declaratoria di nullità del termine: la Corte territoriale ha omesso qualsiasi verifica sulla sussistenza della mora accipiendi e non ha considerato che l’eccezione di aliunde perceptum non poteva che essere dedotta genericamente dalla società, nell’impossibilità di dimostrare i compensi percepiti dal lavoratore, se non con l’acquisizione dei modelli 101 e 740, attraverso un ordine di esibizione.

Il ricorso è infondato.

Quanto al primo motivo, come questa Corte ha più volte affermato in analoghe controversie instaurate da altri lavoratori nei confronti della medesima azienda, per il riconoscimento della sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, è necessario, affinchè possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, che sia accertata una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di volere, d’accordo tra loro, porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo, non solo sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, ma anche del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative; la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto (v. Cass. 10 novembre 2008 n. 26935, Cass. 28 settembre 2007 n. 20390).

Nella specie, la Corte di merito ha fornito una motivazione, in fatto, congrua, adeguata e priva di vizi logici, evidenziando che il ritardo con il quale il lavoratore aveva agito in giudizio per far valere l’illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro da lui stipulato non solo non era prolungato, ma non valeva a qualificare la pregressa inerzia dell’appellante come espressione di una volontà certa di porre fine al rapporto di lavoro, essendo essa riconducibile ad incertezze interpretative in ordine alla legittimità dell’apposizione del termine in fattispecie oggetto di specifica contrattazione delle parti collettive.

Anche riguardo alle censure svolte con il secondo motivo si deve fare riferimento alla giurisprudenza di questa Corte Suprema (cfr., ex plurimis, Cass. 23 agosto 2006 n. 18378), la quale, decidendo su fattispecie sostanzialmente identiche a quella in esame, ha confermato le pronunce dei giudici di merito che avevano dichiarato illegittimo il termine apposto a contratti stipulati, in base alla previsione dell’accordo integrativo del 25 settembre 1997 sopra citato (esigenze eccezionali, conseguenti alla fase di ristrutturazione ..), dopo il 30 aprile 1998.

E’ questa un’interpretazione da confermare anche dopo l’entrata in vigore della riforma del processo di cassazione introdotta dal D.Lgs. 2 febbraio 2006 n. 40, che consentendo il ricorso per cassazione “per violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro” (art. 360 c.p.c., n. 3), affida a questa Corte l’interpretazione diretta delle norme dei contratti collettivi che regolano il rapporto di lavoro dei dipendenti di Poste Italiane.

Richiamato quanto già affermato circa la configurabilità, in relazione alla L. n. 56 del 1987, art. 23, di una vera e propria delega in bianco a favore dei sindacati nell’individuazione di nuove ipotesi di apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro, e premesso altresì che in forza della sopra citata delega in bianco le parti sindacali hanno individuato, quale nuova ipotesi di contratto a termine, quella di cui al citato accordo integrativo del 25 settembre 1997, questa Corte ha ritenuto corretta l’interpretazione dei giudici di merito del distinto accordo attuativo sottoscritto in pari data e del successivo accordo attuativo sottoscritto in data 16 gennaio 1998, nel senso che con tali accordi le parti avevano convenuto di riconoscere la sussistenza fino al 31 gennaio 1998 (e poi in base al secondo accordo attuativo, fino al 30 aprile 1998), della situazione di cui al citato accordo integrativo, con la conseguenza che, per far fronte alle esigenze derivanti da tale situazione, l’impresa poteva procedere (nei suddetti limiti temporali) ad assunzione di personale straordinario con contratto tempo determinato; da ciò deriva che deve escludersi la legittimità dei contratti a termine stipulati dopo il 30 aprile 1998 in quanto privi di presupposto normativo.

Si è in particolare osservato che la suddetta interpretazione degli accordi attuativi non viola alcun canone ermeneutico, atteso che il significato letterale delle espressioni usate è così evidente e univoco che non necessita di un più diffuso ragionamento al fine della ricostruzione della volontà delle parti; infatti nell’interpretazione delle clausole dei contratti collettivi di diritto comune, nel cui ambito rientrano sicuramente gli accordi sindacali sopra riferiti, si deve fare innanzitutto riferimento al significato letterale delle espressioni usate e, quando esso risulti univoco, è precluso il ricorso a ulteriori criteri interpretativi, i quali esplicano solo una funzione sussidiaria e complementare nel caso in cui il contenuto del contratto si presti a interpretazioni contrastanti (cfr., ex plurimis, Cass. 28 agosto 2003 n. 12245, Cass. 25 agosto 2003 n. 12453).

Inoltre è stato rilevato che tale interpretazione è rispettosa del canone ermeneutico di cui all’art. 1367 cod. civ. a norma del quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possano avere qualche effetto, anzichè in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno; ed infatti la stessa attribuisce un significato agli accordi attuativi de quibus (nel senso che con essi erano stati stabiliti termini successivi di scadenza alla facoltà di assunzione a tempo, termini che non figuravano nel primo accordo sindacale del 25 settembre 1997); diversamente opinando, ritenendo cioè che le parti non avessero inteso introdurre limiti temporali alla deroga, si dovrebbe concludere che gli accordi attuativi, così definiti dalle parti sindacali, erano “senza senso” (così testualmente Cass. 14 febbraio 2004 n. 2866).

Infine, questa Corte ha ritenuto corretta, nella ricostruzione della volontà delle parti come operata dai giudici di merito, l’irrilevanza attribuita all’accordo del 18 gennaio 2001 in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga, e cioè quando il diritto del soggetto si era già perfezionato; ed infatti, ammesso che le parti avessero espresso l’intento di interpretare autenticamente gli accordi precedenti, con effetti comunque di sanatoria delle assunzioni a termine effettuate senza la copertura dell’accordo 25 settembre 1997 (scaduto in forza degli accordi attuativi), la conclusione affermata dal giudice del merito è comunque conforme alla regula iuris dell’indisponibilità dei diritti dei lavoratori già perfezionatisi, dovendosi escludere che le parti stipulanti avessero il potere, anche mediante lo strumento dell’interpretazione autentica (previsto solo per lo speciale settore del lavoro pubblico, secondo la disciplina nel D.Lgs. n. 165 del 2001), di autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti a termine non più legittimi per effetto della durata in precedenza stabilita (vedi, per tutte, Cass. 12 marzo 2004 n. 5141).

In base al detto orientamento, ormai consolidato, va confermata la nullità del termine apposto al contratto stipulato dalla società Poste Italiane con il B. per il periodo 5 ottobre 2000/31 gennaio 2001.

Riguardo al terzo motivo, contrariamente a quanto assume la ricorrente con il contestare al giudice del merito l’omessa verifica sulla esistenza della mora accipiendi e il mancato esame dell’eccezione di aliunde perceptum, la Corte territoriale ha evidenziato, in relazione al primo profilo di censura, la messa in mora per la società con la ricezione in data 24 marzo 2004 della lettera, con la quale il lavoratore aveva espressamente dichiarato di essere a disposizione dell’azienda al fine di riprendere servizio; in relazione al secondo profilo, che la deduzione della percezione di reddito da parte del lavoratore successivamente alla cessazione del rapporto è stata prospettata solo in termini eventuali, sfornita di qualsiasi riscontro, come tale assolutamente generica.

Il ricorso va dunque rigettato.

Per il criterio della soccombenza, le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico della società Poste Italiane e sono liquidate come in dispositivo, senza applicare, non ricorrendo il presupposto della colpa grave nella proposizione del ricorso, la maggiorazione di cui all’art. 385 cod. proc. civ., u.c. nella formulazione anteriore a quella risultante dopo la modifica introdotta dalla L. 18 giugno 2009, n. 69.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento, in favore del resistente, delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 27,00 e in Euro 2.000,00 (duemila/00) per onorari, oltre spese generali, iv.a. e c.p.a..

Così deciso in Roma, il 5 maggio 2010.

Depositato in Cancelleria il 14 giugno 2010

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