Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14194 del 07/06/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 07/06/2017, (ud. 01/03/2017, dep.07/06/2017),  n. 14194

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MACIOCE Luigi – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – rel. Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 11020-2015 proposto da:

C.M., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA ACHILLE PAPA 21, presso lo studio dell’avvocato SAVERIO UVA, che

lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

ENI S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ANTONIO MORDINI 14,

presso lo studio dell’avvocato MANLIO ABATI, che la rappresenta e

difende, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 7260/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 21/10/2014 R.G.N. 6082/013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

01/03/2017 dal Consigliere Dott. DANIELA BLASUTTO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato SAVERIO UVA;

udito l’Avvocato MANLIO ABATI.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. La Corte di appello di Roma, con sentenza del 24 settembre 2014, ha confermato la pronuncia di primo grado con cui era stata rigettata la domanda proposta da C.M. avente ad oggetto l’impugnativa del licenziamento intimato per giusta causa dalla datrice di lavoro ENI s.p.a. in data 21 ottobre 2009.

2. Il licenziamento era stato intimato per la reiterata violazione di procedure aziendali interne, riferibile a ventuno operazioni poste in essere nell’arco temporale fra febbraio e giugno 2009: in particolare, era stato addebitato al C. di avere rettificato al ribasso la lettura del gas già acquisita su utenze private. Tali rettifiche erano state eseguite senza richiesta dell’utente e senza autorizzazione da parte dei superiori, necessaria in caso di intervento non su istanza della clientela. La lettura al ribasso dei dati del contatore, inserita nel sistema di contabilizzazione, non corrispondeva ai dati reali e dava titolo a richieste di rimborso da parte degli utenti.

3. Secondo la sentenza di primo grado, le operazioni contestate erano state realizzate con utilizzo delle credenziali del C. e dalla sua postazione di lavoro; tale elementi, in difetto di altre ragionevoli circostanze oggettive, avevano condotto il datore di lavoro ad individuarne il responsabile nella persona del ricorrente.

4. Avverso tale sentenza il C. aveva mosso i seguenti rilievi: a) l’astratta possibilità di accesso esterno da parte di terzi sia alle credenziali personali che al p.c. non consentiva di ritenere provata la sicura imputabilità delle operazioni contestate; l’insussistenza di un valido criterio inferenziale era tanto più avvalorato dalla circostanza che le tre operazioni poste in essere nei mesi di giugno e luglio corrispondevano ad un periodo di assenza dal lavoro per malattia; b) la sentenza impugnata aveva addebitato al ricorrente un comportamento negligente consistito nel non avere adempiuto all’obbligo di segretezza delle credenziali, ma tale inadempimento, da un lato, non poteva integrare la giusta causa del licenziamento e, dall’altro, costituiva una inammissibile modifica della contestazione disciplinare, da fatto doloso a fatto colposo, con violazione del principio di immutabilità; c) era stato violato il principio di immediatezza della contestazione disciplinare; d) non era stata debitamente applicata la regola della proporzionalità della sanzione disciplinare.

5. La Corte territoriale, nel disattendere tali obiezioni, ha osservato che: a) la circostanza, astrattamente considerata, che il C. potesse non avere posto in essere di persona le tre operazioni riferibili ad un periodo di assenza per malattia, nulla toglieva al fatto che le precedenti diciotto operazioni fossero state compiute in sua presenza e sulla sua postazione di lavoro; in ogni caso, il ricorrente avrebbe potuto accedere alla sua postazione nel periodo di assenza dal lavoro, in quanto l’ingresso dei dipendenti non era sottoposto a controllo; infine, anche per l’operazione compiuta il 3 luglio 2009, non poteva escludersi la possibilità che il C. si fosse recato in ufficio successivamente ad un controllo medico cui era stato sottoposto in ospedale, avuto riguardo alla compatibilità tra gli orari documentati e la distanza fra i due luoghi; b) il riferimento alla violazione degli obblighi di segretezza, di cui alla sentenza di primo grado, non riguardava il titolo della contestazione disciplinare, ma il ragionamento presuntivo seguito dal primo Giudice quale regola di giudizio per risalire all’autore della violazione: una volta applicata tale regola di giudizio, in base agli ordinari oneri probatori in materia di responsabilità, gravava sul lavoratore l’onere di dedurre e provare circostanze liberatorie e tale onere non era stato assolto nella specie; c) era eccezione nuova, e come tale inammissibile, quella vertente sulla violazione del principio di tempestività della contestazione disciplinare; d) la sanzione era proporzionata alla gravità dell’inadempimento, posto in essere da un dipendente addetto proprio alle rettifiche delle letture, che aveva direttamente violato la normativa che regola il settore, attraverso condotte ripetute nel tempo e connotate da dolosità (molteplici erano stati passaggi posti in essere in violazione della procedura aziendale di garanzia, con illecito intervento sulle letture già acquisite), oltre che potenzialmente idonee a provocare danni di tipo patrimoniale sotto forma di rimborso agli utenti o nuove fatturazioni.

6. Per la cassazione di tale sentenza il C. propone ricorso affidato a quattro motivi. ENI s.p.a. resiste con controricorso, seguito da memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 5 e dell’art. 2697 c.c. per indebita inversione dell’onere della prova, laddove la sentenza aveva addebitato al lavoratore l’onere di dimostrare che le operazioni poste in essere dal suo computer non fossero a lui ascrivibili, violando la regola secondo cui spetta al datore di lavoro che contesta l’addebito disciplinare dimostrare i fatti ascritti.

2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta violazione dell’art. 420 c.p.c., comma 5, artt. 112, 115 e 116 c.p.c. per non avere la sentenza impugnata chiarito i motivi per cui non aveva ritenuto di dare ingresso in appello alla prova documentale vertente sull’acquisizione processuale dei cartellini marcatempo.

3. Il terzo motivo addebita alla sentenza violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 2, comma 2, e art. 7 in relazione al principio di immutabilità della contestazione, nella parte in cui aveva addebitato al C., non già condotte dolose tese all’effettuazione di illecite rettifiche in bolletta, ma la violazione degli obblighi di segretezza e di custodia delle credenziali di accesso al sistema informatico.

4. Il quarto motivo verte sulla proporzionalità della sanzione disciplinare ex art. 2106 c.c. Si assume la violazione e falsa applicazione degli artt. 2119 c.c. e art. 55CCNL. Il motivo muove dall’assunto secondo cui la legittimità del licenziamento sarebbe stata confermata pur a fronte dell’accertamento giudiziale non più di una condotta dolosa, ripetuta nel tempo, ma di una mera negligenza, integrata in un’unica occasione, consistita nell’avere il ricorrente trascritto le credenziali sulla propria agenda, lasciata incustodita nel cassetto della scrivania dell’ufficio.

5. Il primo motivo è infondato. La Corte di appello non ha violato le regole sul riparto dell’onere della prova. La procedura prevedeva che da ogni tipologia di operazione eseguita al computer si potesse risalire all’autore mediante le credenziali ad esso fornite, personali e segrete, che non potevano essere trascritte (come da normativa interna) e per le quali il dipendente assegnatario aveva un obbligo di custodia. A seguito di controllo era emerso che le ventuno operazioni erano state eseguite dalla postazione di lavoro del C. e con l’utilizzo delle sue credenziali personali (password e nome utente). Tre di tali operazioni erano state realizzate nei mesi di giugno e luglio, quando il dipendente era in malattia.

5.1. Una volta accertato che le operazioni irregolari erano state eseguite dalla postazione lavorativa del C. e mediante l’uso delle sue credenziali di accesso e rilevato che vi era un obbligo di custodia e di segretezza di dette credenziali, rimasto inadempiuto, la sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione dei criteri della prova presuntiva, inferendo da tali circostanze la prova dell’imputabilità al ricorrente dei fatti addebitati, spettando a costui l’onere di fornire la prova liberatoria.

5.2. Il ragionamento inferenziale seguito dalla Corte di appello è logicamente corretto. Esso si fonda sulla considerazione che le procedure aziendali in vigore presso ENI prevedevano, per le credenziali personali, l’obbligo di segretezza, il divieto di scrittura, l’obbligo di modifica ogni due mesi (condizionante l’accesso al sistema da parte dell’utente), per cui si era in presenza di una presunzione (semplice) della riferibilità delle operazioni poste in essere da una determinata postazione al dipendente cui tale postazione e le relative credenziali erano riferibili. Secondo la giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 4241 del 2016, nonchè Cass. n. 13291 del 1999), qui ribadita, una volta che la presunzione semplice si sia formata e sia stata rilevata, essa ha la medesima efficacia che deve riconoscersi alla presunzione legale iuris tantum, quando viene rilevata, in quanto l’una e l’altra trasferiscono a colui, contro il quale esse depongono, l’onere della prova contraria, la cui omissione impone al giudice di ritenere provato il fatto previsto, senza consentirgli la valutazione ai sensi dell’art. 116 c.p.c..

5.3. Inoltre, gli elementi assunti a fonte di prova presuntiva non debbono essere necessariamente più d’uno, potendo il convincimento del giudice fondarsi anche su di un solo elemento purchè grave e preciso, dovendosi il requisito della “concordanza” ritenersi menzionato dalla legge solo in previsione di un eventuale ma non necessario concorso di più elementi presuntivi (Cass. n. 19088 del 2007, n.17574 del 2009, n. 656 del 2014). Inoltre, in tema di prova presuntiva, rientra nei compiti del giudice di merito il giudizio circa l’opportunità di fondare la decisione sulla prova per presunzioni e circa l’idoneità degli stessi elementi presuntivi a consentire illazioni che ne discendano secondo il principio dell’ id quod plerumque accidit, essendo il relativo apprezzamento sottratto al controllo in sede di legittimità se sorretto da motivazione adeguata, immune da vizi logici o giuridici (cfr. Cass. 16728 del 2006, n. 1216 del 2006, 3874 del 2002, 12422 del 2000; v. pure tra le più recenti, 4241 del 2016).

5.4. La presunzione che aveva condotto la Corte di appello a far risalire al ricorrente le operazioni ascritte non poteva essere vinta dalla allegazione che terzi estranei potessero avere avuto accesso al sistema utilizzando le credenziali personali del Carlino. Come implicitamente desumibile dalla sentenza impugnata, l’inosservanza degli specifici obblighi relativi alla custodia delle credenziali personali costituiva comportamento colpevole e, come tale, inidoneo a fondare la prova liberatoria, restando così l’imputabilità definitivamente accertata.

6. Il secondo motivo è inammissibile ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4. La sentenza ha evidenziato che i dipendenti potevano entrare nei locali aziendali anche al di fuori dell’orario lavorativo, senza essere controllati. La circostanza su cui verte la mancata ammissione della prova documentale, all’evidenza, attiene al controllo dell’orario di lavoro. Essa è del tutto irrilevante ai fini del decidere, in quanto priva di attinenza alla ratio decidendi.

7. Il terzo motivo è infondato. Innanzitutto, va richiamato quanto osservato con riferimento al primo motivo. Non vi è stata modificazione della contestazione, da fatto doloso a fatto colposo in relazione alla violazione degli obblighi di custodia. Secondo il ragionamento seguito dai giudici di merito dei due gradi di giudizio, il comportamento costituito dalla inosservanza dell’obbligo di custodia costituiva circostanza idonea a invalidare la tesi difensiva del ricorrente, non potendo costui far derivare da un inadempimento di obblighi lavorativi conseguenze a sè favorevoli. Il fatto ascritto restava quello, doloso, costituito dalla illecita rettifica delle letture dei consumi, in violazione della normativa di settore, realizzata ripetutamente.

8. Il quarto motivo è inammissibile, in quanto muove da una interpretazione del decisum contrastante con il tenore della sentenza, che – per tutte le ragioni già illustrate con riferimento ai precedenti motivi – ha ritenuto provata, a mezzo di prova presuntiva, secondo un ragionamento inferenziale del tutto corretto ed immune da vizi logici, l’ascrivibilità al ricorrente dei fatti dolosi di cui alla originaria contestazione.

9. In conclusione, il ricorso va rigettato, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi del D.M. 10 marzo 2014, n. 55, art. 5.

10. Sussistono i presupposti processuali (nella specie, rigetto del ricorso) per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge di stabilità 2013).

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 3.000,00 per compensi, oltre spese generali nella misura del 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il nella camera di consiglio, il 1 marzo 2017.

Depositato in Cancelleria il 7 giugno 2017

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