Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14192 del 12/07/2016


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Cassazione civile sez. lav., 12/07/2016, (ud. 16/03/2016, dep. 12/07/2016), n.14192

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VENUTI Pietro – Presidente –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – rel. Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 29625/2014 proposto da:

D.R., C.F. (OMISSIS), elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA ALBA 12/A, presso lo studio dell’avvocato

CARLO ALESSANDRINI, rappresentato e difeso dall’avvocato LOREDANA

DI FOLCO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

AUTOSTRADE PER L’ITALIA S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA L.G. FARAVELLI 22, presso lo studio dell’avvocato ENZO

MORRICO, che la rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 7770/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 08/10/2014 R.G.N. 2763/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

16/03/2016 dal Consigliere Dott. UMBERTO BERRINO;

udito l’Avvocato DI FALCO LOREDANA;

udito l’Avvocato GOZZI CARLA per delega verbale MORRICO ENZO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SERVELLO Gianfranco, che ha concluso per l’inammissibilità o in

subordine il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Si controverte del licenziamento per giusta causa intimato il 9/1/2013 dalla società Autostrade per l’Italia s.p.a. a D. R. per essersi appropriato illecitamente dell’importo di pedaggi autostradali in data 28.11.2012.

Con sentenza del 2 – 8/10/2014, la Corte d’appello di Roma, nel rigettare il reclamo del lavoratore e nel confermare la legittimità del licenziamento, ha evidenziato che era pacifico che il D., in data 28/11/2012, in corrispondenza del passaggio di utenti dell’autostrada in uscita dal casello, che avevano pagato con denaro contante, aveva fatto risultare sulle apparecchiature della stazione di transito il pagamento come effettuato con alcune tessere a scalare “viacard” che erano nella sua disponibilità in ragione delle mansioni espletate, trattenendo, quindi, il corrispondente importo versato per Euro 128,50 ed eseguendo tali operazioni presso la pista n. (OMISSIS) attraverso l’azzeramento delle predette tessere. Ha aggiunto la Corte che in sede di audizione il D. si era difeso asserendo di aver agito secondo una prassi esistente, sbagliando solo nel non aver comunicato l’operazione di scarico sopra descritta; infine, in data 20/12/2012, all’atto del passaggio delle consegne al subentrante Z., non era stata rinvenuta la suddetta somma, nè nell’armadio, nè nella cassaforte in uso al D., per cui a nulla poteva rilevare il successivo rinvenimento della stessa somma di denaro in data 28/12/2012 a seguito dell’accesso sollecitato dal medesimo lavoratore, solo dopo che questi aveva ricevuto la contestazione dell’addebito disciplinare.

Per la cassazione della sentenza ricorre D.R. con tre motivi.

Resiste con controricorso la società Autostrade per l’Italia s.p.a., che deposita anche memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo il ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, in quanto ritiene che dalla lettura della lettera di contestazione del 20/12/2012 emergeva che l’addebito era stato circoscritto all’appropriazione di denaro appartenente alla società e che solo in seguito, ma prima della comminazione del licenziamento, interveniva un fatto del tutto nuovo, vale a dire l’apertura della cassaforte in data 28/12/2012 con il rinvenimento al suo interno di somme delle quali gli veniva addebitata la sottrazione. Ne conseguiva, secondo il ricorrente, che la società si determinava a recedere dal rapporto di lavoro sul presupposto, mai esplicitato, che egli si era impossessato del denaro di cui trattasi con modalità ed in un momento imprecisati, per compiere poi degli atti diretti a farlo ritrovare in cassaforte. Tale fatto era solo sottinteso, secondo il lavoratore, nella lettera di licenziamento, ma non poteva dubitarsi che fosse stato decisivo per il recesso, poichè diversamente ragionando, una volta rinvenuto il denaro, la vicenda disciplinare avrebbe dovuto considerarsi conclusa.

Nè, a suo giudizio, il giudicante avrebbe potuto condurre al riguardo del fatto sopravvenuto un’indagine, pena la violazione del principio della immutabilità della contestazione.

2. Col secondo motivo il ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione dell’art. 421 c.p.c.. In relazione agli artt. 115, 414 e 416 c.p.c., in quanto, fermo restando che l’oggetto della contestazione era costituito dall’appropriazione di una somma di denaro, nella fase giudiziale la società, pur gravata dell’onere della prova, aveva omesso qualsiasi allegazione in ordine al fatto del ritrovamento del denaro in data 28/12/2012, per cui nemmeno il giudice di merito avrebbe potuto esercitare al riguardo i suoi poteri istruttori d’ufficio. Tuttavia, conclude il ricorrente, la Corte di merito finiva per dimostrare, attraverso la motivazione, di aver preso a riferimento come indizi di colpevolezza quelli riferiti non all’appropriazione del denaro ma al suo reinserimento nella cassaforte in un momento successivo alla contestazione che non era stato fatto oggetto di allegazione e di addebito.

3. Col terzo motivo, dedotto per violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e della L. n. 604 del 1966, art. 5, il ricorrente sostiene che le precedenti violazioni sopra riassunte avevano comportato come ulteriore conseguenza lo stravolgimento del principio del riparto degli oneri probatori. In sostanza la società resistente, che mai aveva allegato e contestato l’alterazione del contenuto della cassaforte ad opera di esso ricorrente, si era poi trovata sottratta all’onere di provare la sussistenza di tutti i fatti disciplinarmente rilevanti, mentre il lavoratore era stato onerato di dimostrare una circostanza negativa, ossia il non aver introdotto il denaro in cassaforte in un momento successivo alla prima apertura del 20/12/2012. In definitiva, secondo tale assunto difensivo, la società avrebbe dovuto provare l’elemento soggettivo del dolo concernente l’addebito disciplinare che avrebbe consentito di discernere il possesso lecito da quello illecito del denaro in capo al lavoratore, mentre era accaduto che tale aspetto della vicenda era stato desunto unicamente dalla circostanza – non detta e non allegata – del riposizionamento del denaro in cassaforte.

Osserva la Corte che i tre motivi del ricorso possono essere esaminati congiuntamente per ragioni di connessione.

Tali motivi sono infondati.

Anzitutto, si rileva che il ricorrente tenta di spostare gli esatti termini della questione sulla circostanza successiva del rinvenimento all’interno della cassaforte dell’ufficio della somma oggetto di addebito, senza che tale circostanza avesse fatto parte della contestazione disciplinare presa in esame dalla Corte di merito.

Invero, quest’ultima ha richiamato il contenuto della contestazione con la quale si era addebitato al ricorrente di essersi recato il giorno 28.11.2012 presso la pista n. (OMISSIS), gestita dal P., e di aver chiesto a quest’ultimo, nella qualità di coordinatore esazione della Direzione del sesto Tronco, di poter effettuare delle operazioni sulla sua postazione, dichiarando di dover azzerare gli importi contenuti nelle tessere a scalare in giacenza nel suo armadietto; di aver eseguito di persona tutte le operazioni elencate nella contestazione indirizzata al P.; di aver emesso degli scontrini di pedaggio, poi utilizzati per calcolare l’importo scaricato dalle tessere, prelevando infine dal cassetto l’importo dei pedaggi, di cui si era illecitamente appropriato. Inoltre, la Corte territoriale ha evidenziato che il D., pur non negando di aver compiuto le suddette operazioni, aveva asserito di non essersi mai impossessato di alcunchè e che la somma oggetto di addebito era custodita all’interno della cassaforte posta nell’ufficio, chiedendone la verifica in contraddittorio, per cui la società aveva accolto il suo invito procedendo all’apertura della stessa e rinvenendovi effettivamente la somma in questione. Da ciò la Corte territoriale ha tratto il convincimento, adeguatamente motivato, della legittimità del licenziamento sulla base della contestata illecita appropriazione della somma di Euro 125,80, corrispondente a quanto complessivamente versato in contanti da utenti in uscita dalla pista n. 50/7, i cui pagamenti il D. aveva fatto risultare come effettuati con le tessere a scalare “viacard” che erano nella sua disponibilità. La Corte ha poi precisato che l’indagine svolta dal giudice della fase sommaria non era stata diretta ad accertare fatti estranei alla contestazione disciplinare, atteso che il passaggio di consegne del 20.12.2012, le relative modalità e gli esiti, la permanenza del D. nella struttura aziendale dopo l’avvenuta contestazione degli addebiti e gli esiti della successiva verifica del 28.12.2012 erano fatti il cui accertamento era servito a verificare la sussistenza dell’appropriazione contestata a fronte delle possibili alternative ricostruzioni della vicenda.

Non coglie, pertanto, nel segno la censura riflettente l’asserito abuso dei poteri ufficiosi dei giudici di merito, posto che gli accertamenti istruttori si erano resi necessari proprio in ragione delle giustificazioni del lavoratore incolpato al fine di verificarne la fondatezza o meno. Egualmente infondata è la doglianza concernente l’asserita violazione del principio di immutabilità della contestazione, posto che la Corte di merito si è attenuta esattamente all’oggetto della contestazione disciplinare. Nè, tantomeno, è fondata la censura sull’asserito malgoverno degli oneri probatori in quanto una volta dimostrata, da parte della datrice di lavoro, la sussistenza degli elementi di fatto della contestazione disciplinare incombeva sul lavoratore l’onere di provare l’esistenza di cause escludenti la sua responsabilità.

D’altra parte, la stessa articolazione dei motivi del presente ricorso contiene in diversi passaggi un tentativo di riesame degli aspetti della vicenda di merito oggetto di causa, operazione, questa, non consentita nel giudizio di legittimità laddove, come nella fattispecie, la Corte d’appello, nel pervenire al convincimento della legittimità del licenziamento, ha offerto una motivazione congrua ed esente da rilievi di ordine logico-giuridico, non scalfita minimamente dalle odierne censure.

Pertanto, il ricorso va rigettato.

Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza del ricorrente e vanno liquidate a suo carico come da dispositivo unitamente al contributo unificato di cui del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio nella misura di Euro 3000,00 per compensi professionali e di Euro 100,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 16 marzo 2016.

Depositato in Cancelleria il 12 luglio 2016

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