Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14177 del 12/07/2016


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Cassazione civile sez. I, 12/07/2016, (ud. 11/01/2016, dep. 12/07/2016), n.14177

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SALVAGO Salvatore – Presidente –

Dott. BERNABAI Renato – Consigliere –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna – Consigliere –

Dott. CAMPANILE Pietro – rel. Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio P. – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

P.F.P., C.E.I.S. S.R.L., elettivamente

domiciliati in Roma, Viale Parioli, n. 60, nello studio dell’avv.

Francesco Marullo, che li rappresenta e difende, giusta procura

speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

ASSESSORATO AI BENI CULTURALI E AMBIENTALI DELLA REGIONE SICILIANA,

rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i

cui Uffici in Roma, Via dei Portoghesi, n. 12, è domiciliato;

– controricorrente –

Avverso la sentenza della Corte di appello di Messina, n. 666,

depositata in data 19 dicembre 2008;

sentita la relazione svolta all’udienza pubblica dell’11 gennaio 2016

dal Consigliere Dott. Pietro Campanile;

Sentito per il ricorrenti l’avv. Politi, munito di delega;

Udite le richieste del Procuratore Generale, in persona del Sostituto

Dott. SOLDI Anna Maria, la quale ha concluso per il rigetto del

ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1 – Nel corso dell’esecuzione di opere di urbanizzazione primaria, sulla base di una variante regolarmente approvata dal Comune di Tusa a una convenzione stipulata con il signor P.F.P., in proprio e quale legale rappresentante della C.E.I.S. S.r.l., venivano rinvenute tombe di rilevante interesse archeologico, ragion per cui veniva disposta l’immediata sospensione dei lavori. Le ditte proprietarie del terreno, dopo aver in un primo momento consentito in via bonaria l’occupazione delle aree, chiedevano, dopo un certo periodo, di poter proseguire i lavori e realizzare gli edifici previsti dal piano di lottizzazione.

La Sovraintendenza autorizzava una parziale realizzazione dei muri di contenimento, ma non la costruzione di fabbricati a ridosso dello sbancamento, ragion per cui il P. e la società convenivano in giudizio l’Assessorato ai Beni Culturali e Ambientali della Regione Siciliana, chiedendone la condanna al pagamento di un’indennità per l’occupazione illegittima, in quanto protrattasi, al di là del periodo consentito dalle parti, senza l’emanazione di alcun provvedimento, nonchè il risarcimento del danno correlato all’imposizione del vincolo di tutela su tutta l’area, da individuarsi nella mancato sfruttamento della stessa a fini edificatori e nelle spese sostenute per la realizzazione delle opere di urbanizzazione.

1-1 – L’ente convenuto, costituitosi, eccepiva che dopo il 24 maggio 1993 il fondo era rientrato nella disponibilità della parte proprietaria e che non era previsto alcun indennizzo per il vincolo di tutela.

1.2 – Il Tribunale adito, all’esito dell’espletata consulenza tecnica d’ufficio, rigettava la domanda attorea, con compensazione delle spese processuali.

1.3 – Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di appello di Messina, pronunciando sul gravame proposto dai proprietari, che invocavano il ricorso quanto meno a criteri indennitari, richiamato l’orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità, ha osservato che, pur non essendo predicabile una responsabilità risarcitoria in presenza di un’attività, non espropriativa, e per di più legittima, il pregiudizio arrecato alla proprietà degli appellanti dovesse essere ristorato, sia pure ricorrendo a criteri equitativi.

Con riferimento al caso di specie, considerato che per un certo periodo i proprietari avevano prestato il consenso all’occupazione, che la facoltà di costruire non era stata del tutto inibita e che il vincolo non aveva riguardato l’intero fondo, appariva congruo determinare, a titolo di indennità, la somma di Euro 50.000,00, con riferimento ai valori monetari al momento della decisione.

1.4 – Per la cassazione di tale decisione il P. e la S.r.l.

C.E.I.S. propongono ricorso, affidato a quattro motivi, cui l’assessorato resiste con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

2 – Con il primo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 c.c., L. n. 1089 del 1939, art. 43 e del D.Lgs. n. 42, art. 88, nonchè delle norme in materia di espropriazione ed occupazione per pubblica utilità, i ricorrenti sostengono, con indicazione di idoneo quesito di diritto, che l’occupazione del bene, da considerarsi illegittima, avrebbe dovuto ottenere un ristoro integrale, secondo i principi che regolano il risarcimento del danno per fatto illecito della pubblica amministrazione.

2.1 – La censura è infondata.

Vale bene premettere che nel caso di specie, non vi fu emissione del decreto di occupazione, anche se, come risulta dalla sentenza impugnata, “per un buon tratto di tempo l’occupazione fu consentita dagli interessati”.

Indipendentemente da tale aspetto, vale bene richiamare i principi, che il Collegio condivide ed ai quali intende, anzi, dare continuità, ribaditi in una recente pronuncia di questa Corte (Cass., 10 febbraio 2014, n. 2962).

2.2 – Nel superiore interesse della cultura, quale valore cui tende l’ordinamento costituzionale (art. 9 Cost.), la proprietà su cui insistano beni d’interesse storico-artistico nasce conformata, nel senso che la natura stessa del bene giustifica le limitazioni al diritto dominicale, a differenza dei vincoli, di natura discrezionale, apposti in virtù di provvedimenti dell’amministrazione, che per non intaccare il nucleo essenziale della proprietà, devono essere temporanei, o comunque indennizzati.

Il vincolo di interesse storico ed artistico si collega alle caratteristiche intrinseche dei beni; pertanto, il decreto dichiarativo della particolare importanza ai fini pubblici non concreta l’imposizione di un vincolo espropriativo ai sensi dell’art. 42 Cost., comma 3, e non comporta la necessità di indennizzo (Cass. 19.7.2002, n. 10542). La limitazione alla proprietà per le superiori ragioni della cultura è stata ricondotta dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo alle ragioni d’interesse generale che ai sensi dell’art. 1, prot. 1, seconda parte, giustificano l’apposizione del vincolo senza indennizzo (sentenze 26.6.2007, in cause Perinelli/Italia e Longobardi/Italia). Principio che a maggior ragione va applicato ad una misura a carattere provvisorio e temporaneo, quale la sospensione prevista dalla L. n. 1089 del 1939, art. 20. Per il tempo in cui il bene, per ragioni d’interesse culturale, abbia subito restrizioni al suo utilizzo, prima, in via provvisoria, per il tempo limitato in cui per salvaguardarne l’integrità materiale, è stata interdetta un’attività potenzialmente dannosa in atto, poi, per il periodo successivo, in virtù del riconosciuto dell’interesse pubblico alla conservazione, sono state limitate le facoltà di trasformazione e disposizione del bene, non è dovuta alcuna reintegrazione patrimoniale. Le conclusioni non cambiano ove, al primo periodo di sospensione, non sia seguita, come nella specie, l’imposizione del vincolo.

Non può condividersi il richiamo alla disciplina dell’espropriazione per pubblica utilità, in quanto, come già affermato da questa Corte, va escluso che nell’occupazione a fini archeologici, sia ravvisabile un fatto illecito dell’amministrazione, posto che il carattere demaniale degli immobili d’interesse archeologico rinvenuti comporta che la presenza sul luogo del personale soprintendentizio, lungi dal configurare un’indebita ingerenza in “alienum”, è esercizio della facoltà inerente al diritto dominicale, anche pubblico (Cass., 29 agosto 2002, n. 12462). In altri termini, indipendentemente da eventuali profili di illegittimità della condotta, per altro elisi dal richiamato consenso dei proprietari all’occupazione, l’illiceità, che fonda la responsabilità aquiliana, è esclusa nella specie dal carattere conformativo insito nella natura stessa del bene, pervaso dal superiore interesse alla tutela dei beni culturali e sottratta alla facoltà di trasformazione da parte del proprietario per il solo fatto di possedere i connotati oggettivi del bene di interesse storico-artistico.

3 – Con il secondo mezzo, deducendosi violazione della L. n. 1089 del 1939, art. 43 e del D.Lgs. n. 42, art. 88, nonchè delle norme in materia di espropriazione ed occupazione per pubblica utilità, si sostiene che l’esplicito richiamo alle disposizioni generali in materia di espropriazione di pubblica utilità, contenuto nelle norme sopra indicate, escluderebbe il ricorso a criteri meramente equitativi.

3.1 – Con il terzo motivo si denuncia violazione degli artt. 1226 e 2056 c.c., nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, per essersi disattesi i criteri legali di determinazione dell’indennità.

3.2 – La terza censura prospetta le medesime violazioni di cui al precedente mezzo, sotto lo specifico profilo dell’omessa considerazione, da parte della corte distrettuale, delle conclusioni della consulenza tecnica d’ufficio all’uopo espletata.

4 – Preliminarmente va rilevata l’inammissibilità delle suddette doglianze, nella parti inerenti ai dedotti vizi motivazionali, in quanto non risulta formulato il c.d. “momento di sintesi”, omologo del quesito di diritto, richiesto dall’art. 366-bis c.p.c., per come costantemente interpretato da questa Corte (cfr. ex multis: Cass. Sez. Un. n. 20603 del 2007; Cass., n. 16002 del 2007; Cass., n. 8897 del 2008), e nella specie assolutamente carente.

5 – I suddetti motivi, che possono essere congiuntamente esaminati, sono infondati.

Soccorre in proposito il principio, già affermato da questa Corte, secondo cui la riparazione del pregiudizio arrecato alla proprietà privata dall’ occupazione ai fini di ricerca archeologica ha natura di obbligazione indennitaria che, in quanto riferita alla lesione dell’altrui interesse a prescindere dal contegno illecito e dalla colpa, si risolve nell’obbligo di versare un compenso per lo più limitato alla perdita della disponibilità del bene nell’ipotesi di occupazione temporanea, che assume i caratteri della valutazione equitativa (Cass., 22 novembre 2012, n. 20679).

Ancora più recentemente è stato ribadito che l’occupazione a fini di ricerca archeologica è diretta a realizzare l’interesse pubblico alla conservazione del patrimonio storico-artistico e la promozione della cultura e della ricerca (art. 9 Cost.), onde costituisce attività lecita della P.A., nascendo la proprietà del bene che riveste interesse storico, artistico ed archeologico già vincolata ed incidendo la connotazione culturale sul valore del bene stesso. Ne deriva che, ai sensi della L. 1 giugno 1939, n. 1089, art. 23, la riparazione del pregiudizio arrecato alla proprietà privata non è ispirato al criterio dell’integralità del risarcimento, ma costituisce un’obbligazione indennitaria, secondo i parametri fissati dalla L. 22 ottobre 1865, n. 2359, art. 68, i quali assumono i caratteri della valutazione equitativa (cfr. la già richiamata Cass. n. 2962 del 2014).

5.1 – Per quanto attiene alla determinazione dell’indennità da parte della Corte di appello, va osservato che, considerata anche l’inammissibilità dei profili di censura attinenti ai vizi motivazionali, il criterio equitativo adottato dal giudice del merito ai fini della determinazione dell’indennità, nei limiti in cui è consentita la verifica di legittimità nel giudizio equitativo, particolarmente in sede di liquidazione indennitaria (Cfr. Cass., 19 luglio 2002, n. 10571), appare conforme al carattere solo parzialmente ristorativo del pregiudizio (tale da escludere il recepimento delle risultanze peritali fondate sul risarcimento integrale di ogni pregiudizio), nei termini sopra precisati, e immune da vizi logici e giuridici.

La sentenza impugnata ha, infatti, congruamente specificato i criteri adottati, facendo riferimento, oltre al consenso degli interessati per un periodo significativo, alla circostanza che ad essi “non venne del tutto inibita la facoltà di costruire”, precisando che il vincolo “non riguardò tutto il fondo”.

6 – Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato. Le spese processuali relative al presente giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

PQM

La Corte rigetta il ricorso, e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali relative al presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 6.000,00, oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 11 gennaio 2016.

Depositato in Cancelleria il 12 luglio 2016

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