Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1416 del 23/01/2014


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Civile Sent. Sez. L Num. 1416 Anno 2014
Presidente: MIANI CANEVARI FABRIZIO
Relatore: BUFFA FRANCESCO

SENTENZA

sul ricorso 724-2009 proposto da:
POSTE ITALIANE S.P.A. C.F. 97103880585, in persona del
legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIALE EUROPA 190, presso L’AREA
LEGALE TERRITORIALE CENTRO DI POSTE ITALIANE,
rappresentata e difesa dagli avvocati URSINO ANNA
2013
3503

MARIA, HYERACI LUCIO AGOSTINO MARIO, giusta delega in
atti;
– ricorrente contro

GRASSO AGOSTINO C.F. GRSGTN52S03A4551, elettivamente

Data pubblicazione: 23/01/2014

domiciliato in ROMA, VIA CIPRO 77, presso lo studio
dell’avvocato RUSSILLO GERARDO, che lo rappresenta e
difende, giusta delega in atti;
– controricorrente

avverso la sentenza n. 3961/2007 della CORTE D’APPELLO

udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 04/12/2013 dal Consigliere Dott. FRANCESCO
BUFFA;
udito l’Avvocato CLAVELLI ROSSANA per delega URSINO
ANNA MARIAk05^R IA .
l

udito l’Avvocato RUSSILLO GERARDO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. MARCELLO MATERA che ha concluso per
l’inammissibilità, in subordine rigetto del ricorso.

di ROMA, depositata il 05/01/2008 R.G.N. 1307/2005;

1. Con sentenza del 5.1.2008 la Corte d’appello di Roma ha respinto l’appello
avverso la sentenza del tribunale di Roma del 1.6.2004, che, accogliendo la
domanda di Grasso Agostino (dipendente di Poste, inquadrato nella ex V
categoria, già assegnato al gruppo Esercizio tecnico manutenzione, con
mansioni tecniche ed autonomia nel campo dell’elettronica, e
successivamente adibito al reparto posta aerea presso il centro di
meccanizzazione postale, con mansioni esecutive e manuali, pur rientranti
nella medesima area), aveva accertato la dequalificazione subita dal
lavoratore, ed aveva ordinato la riassegnazione delle precedenti mansioni e
condannato il datore di lavoro al risarcimento del danno alla professionalità,
liquidato in via equitativa in misura pari alla metà della retribuzione per ogni
mese di dequalificazione.
2.Ha affermato la corte d’appello che al lavoratore erano state assegnate
mansioni inferiori, in violazione dell’art. 2103 cod. civ., applicabile anche tra
mansioni appartenenti alla medesima qualifica prevista dalla contrattazione
collettiva, senza che il datore avesse dimostrato l’impossibilità di
assegnazione di mansioni professionalmente equivalenti a quelle da ultimo
espletate e non derivando dal mero processo di privatizzazione delle poste
in sé considerato le condizioni per l’operatività della deroga all’art. 2013
predetto prevista, in materia di mobilità, solo per i casi di accordi collettivi
di riassorbimento degli esuberi; ha ritenuto inoltre la corte territoriale
l’equità dell’apprezzamento del tribunale in ordine al danno alla
professionalità subito dal lavoratore, in considerazione sia dell’inerenza del
bene protetto dalla norma alla personalità del lavoratore, sia della durata
della deteriore assegnazione.
3. Ricorre contro questa sentenza il datore di lavoro, con cinque motivi. Resiste
il lavoratore con controricorso, illustrato da memoria.
4.Con i primi tre motivi di ricorso, enumerati distintamente ma illustrati
congiuntamente, si deduce: violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e
1363 cod.civ. in relazione agli artt. 2103 e 2082 cod. civ.; violazione e falsa
applicazione delle norme predette in relazione agli artt. 46,47 e 53 del
c.c.n.l. 26.11.1994 nonché all’accordo integrativo al c.c.n.l. del 23.5.1995;
omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo
della controversia prospettato dal ricorrente. La società ricorrente deduce
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Pres. Miani Canevari, est. Buffa

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che l’adibizione del lavoratore alle nuove mansioni era da ritenersi legittima,
in quanto motivata da esigenze tecnico-produttive volte ad evitare riduzioni
di personale (che nel caso sarebbero altrimenti derivate in ragione della
“inesistenza di posizioni lavorative di natura tecnica riconducibili alla
pregressa ed obsoleta figura del perito TLC presso il CMP”, quale era il
dipendente) e, dall’altro lato, conforme al contratto collettivo, che aveva
realizzato l’accorpamento delle categorie di classificazione del personale già
previste in nuove aree, all’interno delle quali opera il principio
dell’equivalenza professionale, dell’omogeneità funzionale e fungibilità delle
mansioni, tutte egualmente esigibili dal datore nell’esercizio dei suoi poteri
discrezionali di direzione dell’impresa. Si chiede quindi a questa Corte di
affermare che “è professionalmente equivalente una mansione ricompresa nella
declaratoria funionale dell’area di inquadramento contrattuale, laddove a legittimare la
esplicnione dello jus vatiandi siano state esigenze di riallocnione del personale a seguito
di soppressione di strutture e connessa tipologia di mansioni espletate”.
5. Con ulteriori due motivi di ricorso (recanti numerazione erronea 7 ed 8, ed
illustrati congiuntamente), la società ricorrente deduce violazione e falsa
applicazione dell’art. 2697 cod. civ. in relazione all’art. 2059 cod. civ.,
nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto
decisivo per il giudizio, per avere la sentenza impugnata ritenuto un danno
in realtà non sussistente, atteso da un lato che il mutamento di mansione
non aveva comportato alcuna diminuzione della retribuzione, e, dall’altro
lato, che nessun danno era stato dimostrato. La ricorrente chiede quindi di
affermare che “il risarcimento del danno da demansionamento presuppone un
accertamento di fatto rigoroso in ordine alla qualità delle mansioni svolte precedentemente
al dedotto demansionamento, mediante imprescindibili indagini ed accurate indagini
istruttorie che indaghino al di là di quanto dedotto dal dipendente, sull’esperiemza
lavorativa pregressa, nonché sulla equivalena professionale delle nuove mansioni
assegnate”.
6.11 controricorrente ha dedotto l’inammissibilità di ciascuno dei cinque motivi
di ricorso (in quanto recanti unica illustrazione ed unico quesito, peraltro
illogico e non parametrato alla sentenza impugnata, e una commistione di
censure aventi ad oggetto violazioni di legge e vizio di motivazione, senza
per queste ultime l’indicazione del fatto controverso in relazione al quale
sussisterebbe il preteso vizio di motivazione della sentenza),

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l’inammissibilità della doglianza -in assenza di una specifica censura alla
decisione- circa il riconoscimento di un danno non patrimoniale sulla base
di presunzioni, e comunque l’infondatezza dei motivi (rilevando
l’inderogabilità dell’art. 2013 cod. civ. da parte della contrattazione
collettiva, la non ricorrenza dell’ipotesti di accordi gestionali di cui all’art. 4,
co. 11, della legge n. 223 del 1991, e l’assenza di richiesta di prova e di
prova in ordine alla assenza di mansioni tecniche o anche amministrative
gestionali, confacenti alla professionalità del lavoratore).
7.11 ricorso è inammissibile sia in ragione della commistione di censure aventi
ad oggetto violazioni di legge e vizio di motivazione recanti unica
illustrazione ed unico quesito, sia in relazione alla formulazione concreta dei
quesiti, non parametrati alla sentenza impugnata, non coerenti con i motivi
di ricorso, senza indicazione di una diversa e congrua regula juris da applicare
nella specie, e senza l’indicazione del fatto controverso in relazione al quale
sussisterebbe il preteso vizio di motivazione della sentenza.
8. Sotto il primo profilo, il ricorso reca due quesiti, ciascuno dei quali si riferisce
a motivi di ricorso, congiuntamente illustrati, relativi -nello stesso tempo ed
indifferenziatamente- sia ad asserite violazioni di legge sia a pretesi vizi
motivazionali della sentenza.
9. In proposito, la giurisprudenza di questa Corte ha affermato (Sez. 3,
Sentenza n. 12248 del 20/05/2013) che, nel ricorso per cassazione, è
inammissibile la congiunta proposizione di doglianze ai sensi dei numeri 3)
e 5) dell’art. 360 cod. proc. civ., salvo che non sia accompagnata dalla
formulazione, per il primo vizio, del quesito di diritto, nonché, per il
secondo, dal momento di sintesi o riepilogo, in forza della duplice
previsione di cui all’art. 366-bis cod. proc. civ. (applicabile “ratione
temporis” alla fattispecie, sebbene abrogato dall’art. 47 della legge 18 giugno
2009, n. 69). Secondo Sez. 5, Sentenza n. 24253 del 18/11/2011, inoltre, è
inammissibile ai sensi dell’art. 366 bis cod. proc. civ. il ricorso per
cassazione nel quale il quesito di diritto, pur prospettando il vizio di
violazione di legge, non sia pertinente rispetto al motivo di censura in
concreto rivolto alla sentenza, concernente invece doglianze riferite alla
motivazione ed al valore probatorio attribuito agli elementi posti a base

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della decisione, in quanto non è consentito confondere i profili del vizio
logico della motivazione e dell’errore di diritto.
10. Quanto all’inammissibilità in ragione della concreta formulazione dei quesiti
di diritto da parte della ricorrente, si rileva che il primo quesito ricollega
equivalenza di mansioni a soppressione di strutture, confondendo due piani
diversi, senza rapportarsi ai diversi motivi di ricorso, peraltro
congiuntamente sviluppati, né alla decisione impugnata. Il secondo quesito
ricollega il risarcimento alla prova officiosa sull’equivalenza delle mansioni,
anche qui con incongrua sovrapposizione di piani distinti, in modo non
coerente con i motivi del ricorso (che attengono invece alla non
presumibilità del pregiudizio), e senza riferimento ai criteri di valutazione
del danno seguiti dalla sentenza.
11. In ordine alla redazione del quesito di diritto, occorre premettere (con Sez.
L, Sentenza n. 8463 del 07/04/2009) che la funzione propria del quesito di
diritto, da formularsi a pena di inammissibilità del motivo proposto, è di far
comprendere alla Corte di legittimità, dalla lettura del solo quesito, inteso
come sintesi logico-giuridica della questione, l’errore di diritto asseritamente
compiuto dal giudice di merito e quale sia, secondo la prospettazione del
ricorrente, la regola da applicare. Si è poi aggiunto (Sez. 1, Ordinanza n.
20409 del 24/07/2008) che il quesito di diritto non può essere desunto dal
contenuto del motivo, poiché in un sistema processuale, che già prevedeva
la redazione del motivo con l’indicazione della violazione denunciata, la
peculiarità del disposto di cui all’art. 366-bis cod. proc. civ., introdotto
dall’art. 6 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, consiste proprio nell’imposizione,
al patrocinante che redige il motivo, di una sintesi originale ed
autosufficiente della violazione stessa, funzionalizzata alla formazione
immediata e diretta del principio di diritto e, quindi, al miglior esercizio
della funzione nomofilattica della Corte di legittimità.
Ciò posto in linea generale, va evidenziato (con Sez. 3, Sentenza n. 24339
del 30/09/2008) che il quesito di diritto di cui all’art. 366 bis cod. proc. civ.
deve comprendere l’indicazione sia della “regula iuris” adottata nel
provvedimento impugnato, sia del diverso principio che il ricorrente
assume corretto e che si sarebbe dovuto applicare in sostituzione del primo,
e che la mancanza anche di una sola delle due suddette indicazioni rende il
ricorso inammissibile. Il quesito di diritto deve essere dunque formulato, ai

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sensi dell’art. 366 bis cod. proc. civ., in termini tali da costituire una sintesi
logico-giuridica della questione, così da consentire al giudice di legittimità di
enunciare una regula imis suscettibile di ricevere applicazione anche in casi
ulteriori rispetto a quello deciso dalla sentenza impugnata.
E’ quindi inammissibile il quesito che non sia congruo in relazione al caso
di specie (Sez. U, Sentenza n. 28536 del 02/12/2008) e la risposta al quale
non consenta di risolvere il caso “sub iudice”, così come è inammissibile il
motivo di ricorso sorretto da quesito la cui formulazione sia del tutto
inidonea ad assumere rilevanza ai fini della decisione del motivo e a chiarire
l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in relazione alla concreta
controversia (Sez. L, Sentenza n. 7197 del 25/03/2009).
12. Ne deriva l’inammissibilità del ricorso. Le spese e competenze di lite
seguono la soccombenza, con distrazione in favore del procuratore del
controricorrente che ha dichiarato di aver anticipato le prime e non riscosso
le seconde.
p.q.m.
la Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente al
pagamento delle spese di lite, che si liquidano in euro tremila, di cui curo
duemilanovecento per compenso, oltre accessori di legge, con distrazione.
Roma, 4 dicembre 2013.

Il Presidente

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