Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14158 del 27/06/2011

Cassazione civile sez. lav., 27/06/2011, (ud. 16/03/2011, dep. 27/06/2011), n.14158

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente –

Dott. STILE Paolo – Consigliere –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 11668-2007 proposto da:

RAI S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MONTEZEBIO 32, presso lo

studio dell’avvocato TAMBURRO LUCIANO, che la rappresenta e difende

unitamente agli avvocati BARRA CARACCIOLO FRANCESCO, RUBENS ESPOSITO,

giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

B.R.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 1666/2006 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 14/04/2006 r.g.n. 3419/04 + 1;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

16/03/2011 dal Consigliere Dott. BERRINO Umberto;

udito l’Avvocato TAMBURRO LUCIANO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GAETA Pietro, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza n. 6829/04 del 12/3/04 il giudice del lavoro del Tribunale di Napoli riconobbe a B.R., scenografo di 2^ livello presso il Centro di Produzione di Napoli, ad essere inquadrato nel profilo professionale di scenografo – Classe A -, 1^ livello e, per l’effetto, condannò la RAI – Radiotelevisione spa a corrispondergli le conseguenti differenze retributive a decorrere dal luglio del 1997.

Con la sentenza n. 23268 del 19/11/04 lo stesso giudice condannò l’azienda radiotelevisiva a risarcire al B. il danno da dequalificazione professionale e quello biologico nella misura equitativa di Euro 25.000,00, comprensiva degli accessori di legge.

Con separati atti d’appello la Rai spa impugnò entrambe le sentenze, mentre il B. propose appello incidentale avverso la sentenza che gli aveva accolto parzialmente la domanda di risarcimento dei danni.

I giudizi furono riuniti e all’esito della loro trattazione la Corte d’appello di Napoli accolse l’impugnazione avverso la sentenza con la quale era stata riconosciuta la qualifica superiore e rigettò, di conseguenza, la domanda, mentre rigettò sia l’appello principale della Rai spa che quello incidentale del lavoratore avverso la sentenza che si era pronunziata sui danni.

La Corte territoriale pervenne a tale decisione dopo aver rilevato che l’inquadramento del lavoratore nel 2^ livello previsto dalla declaratoria contrattuale, per effetto del quale egli curava gli allestimenti scenografici di minore complessità, era consono ai compiti dal medesimo svolti, mentre era stata provata la lamentata dequalificazione professionale riconducibile al fatto che egli era stato privato per circa due anni della sua attività di scenografo, per la qual cosa aveva diritto al relativo ristoro del danno, ma non a quello biologico, del quale era mancata la prova.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso la Rai s.p.a che affida l’impugnazione a tre motivi di censura.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo la RAI – Radiotelevisione italiana s.p.a denunzia l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c, in relazione agli artt. 115, 414, 420 e 436 c.p.c. e art. 2697 c.c..

In pratica, la ricorrente assume che la decisione è viziata per le seguenti ragioni: la stessa è basata su una sola prova testimoniale a fronte delle quattro raccolte; la testimonianza del G. è stata valutata solo in parte; è stato omesso ogni riferimento alle dichiarazioni del teste T. ed infine non si è tenuto conto delle incontestate allegazioni contenute nella memoria difensiva. Il quesito è inammissibile, sia perchè manca, a conclusione dello stesso, un momento di sintesi omologo al quesito di diritto come richiesto dall’art. 366-bis c.p.c., sia perchè viene sostanzialmente proposta una rivisitazione del materiale probatorio inammissibile in questa sede.

Invero, non va dimenticato che “in tema di giudizio di cassazione, la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge).

Conseguentemente, per potersi configurare il vizio di motivazione su un asserito punto decisivo della controversia, è necessario un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla controversia, tale da far ritenere che quella circostanza, se fosse stata considerata, avrebbe portato ad una diversa soluzione della vertenza. Pertanto, il mancato esame di elementi probatori, contrastanti con quelli posti a fondamento della pronunzia, costituisce vizio di omesso esame di un punto decisivo solo se le risultanze processuali non esaminate siano tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia probatoria delle altre risultanze sulle quali il convincimento è fondato, onde la “ratio decidendi” venga a trovarsi priva di base. (Nella specie la S.C. ha ritenuto inammissibile il motivo di ricorso in quanto che la ricorrente si era limitata a riproporre le proprie tesi sulla valutazione delle prove acquisite senza addurre argomentazioni idonee ad inficiare la motivazione della sentenza impugnata, peraltro esente da lacune o vizi logici determinanti).” (Cass. Sez. 3 n. 9368 del 21/4/2006; in senso conf. v. anche Cass. sez. lav. n. 15355 del 9/8/04).

Orbene, nel caso in esame la sentenza è sufficientemente ed articolatamente motivata sul demansionamento e tiene conto delle testimonianze raccolte in prime cure, per cui la stessa si sottrae alle censure che le sono state mosse nella presente sede di legittimità.

2. Col secondo motivo si denunzia la violazione e falsa applicazione delle norme di diritto e dei principi in tema di allegazione del danno professionale e prova dello stesso, nonchè l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso decisivo per il giudizio (art. 360 nn. 3 e 5 in relazione all’art. 2103 c.c. e artt. 1223, 1226 e 2697 c.c., artt. 115, 116, 414, 420, 432 e 436 c.p.c.). In concreto, si sostiene che la sentenza va censurata per aver ritenuto sussistente il danno professionale senza alcuna allegazione del ricorrente e senza alcuna prova sul danno stesso, per cui vi sarebbe una motivazione solo apparente e resa “ultra petita partium”.

Si chiede, perciò, di accertare che il danno professionale da demansionamento non può prescindere da una specifica allegazione nel ricorso introduttivo del giudizio sulla natura e sulla caratteristica del pregiudizio medesimo e che le allegazioni devono essere provate con specifico riferimento all’impoverimento delle qualità professionali, oltre che della mancata acquisizione di una maggiore capacità ovvero della perdita di chances. Il motivo è fondato.

Invero, come questa Corte ha già avuto modo di chiarire (Cass. sez. lav. n. 26666 del 6/12/2005), ” il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno (anche nella sua eventuale componente del danno alla vita di relazione o di cosiddetto danno biologico) subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita – lesione che, per l’appunto, si profila idonea a determinare una dequalificazione del dipendente stesso – è tenuto ad indicare in maniera specifica il tipo di danno che assume di aver subito ed a fornire la prova dei pregiudizi da tale tipo di danno in concreto scaturiti e del nesso di causalità con l’inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una sua valutazione, anche eventualmente equitativa.

Tale prova può essere data, ai sensi dell’art. 2729 cod. civ., anche attraverso l’allegazione di presunzioni gravi, precise e concordanti, sicchè, a tal fine, possono essere valutate nel caso di dedotto danno da demansionamento, quali elementi presuntivi, la qualità e quantità dell’attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione. Rimane, naturalmente, affidato al giudice di merito – le cui valutazioni, se corrette da congrua motivazione, sono incensurabili in sede di legittimità – il compito di verificare, di volta in volta, se, in concreto, il suddetto danno sussista, individuandone la specie e determinandone l’ammontare, anche, se del caso, con liquidazione fondata sull’equità”.

Invece, nel caso in esame, il giudice d’appello, una volta ritenuto provato, attraverso le deposizioni testimoniali, il demansionamento, riconducibile alla privazione delle mansioni di scenografo sofferta dal B. per circa due anni unitamente alla mancata assegnazione di mansioni equivalenti, ha ritenuto che ciò rappresentasse automaticamente una fonte oggettiva di danno alla professionalità del dipendente, come tale risarcibile.

Al contrario, in caso di accertato demansionamento professionale, la liquidazione del danno alla professionalità del lavoratore non può prescindere dalla prova del danno e del relativo nesso causale con l’asserito demansionamento, accertamento, questo, omesso dal giudice d’appello.

Pertanto, la sentenza va cassata in relazione a tale specifico motivo con rinvio del procedimento ad altro giudice che si individua nella Corte d’appello di Napoli in diversa composizione che, nel decidere conformemente al principio di diritto appena illustrato, provvedere anche per le spese del presente giudizio.

3. Col terzo ed ultimo motivo la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione delle norme di diritto, dei principi in tema di liquidazione equitativa del danno professionale; l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso decisivo per il giudizio (art. 360, nn. 3 e 5 in relazione all’artt. 2103 c.c. e artt. 1223, 1226 e 2697 c.c., artt. 115, 116, 414, 420, 432 e 436 c.p.c.).

Si deduce, in pratica, che la Corte d’appello non avrebbe potuto tener ferma la condanna nello stesso importo liquidato dal primo giudice, una volta giunta alla conclusione che era stato provato solo il danno alla professionalità e non anche quello biologico, per cui avrebbe dovuto giustificare la conferma dello stesso importo già liquidato in primo grado per entrambe le voci di danno.

Rileva la Corte che tale motivo rimane assorbito dall’accoglimento del precedente, atteso che la determinazione del danno compete in ogni caso al giudice del rinvio nell’ipotesi in cui lo ritenga provato.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il primo motivo; accoglie il secondo e cassa in relazione allo stesso l’impugnata sentenza con rinvio alla Corte d’appello di Napoli in diversa composizione anche per le spese;

dichiara assorbito il terzo motivo.

Così deciso in Roma, il 16 marzo 2011.

Depositato in Cancelleria il 27 giugno 2011

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