Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14158 del 08/07/2015


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Civile Sent. Sez. L Num. 14158 Anno 2015
Presidente: VENUTI PIETRO
Relatore: BALESTRIERI FEDERICO

SENTENZA

sul ricorso 21672-2009 proposto da:
POSTE ITALIANE S.P.A. C.F. 97103880585, in persona
del legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in ROMA, PIAZZA G. MAZZINI 27, presso lo
STUDIO TRIFIRO’ & PARTNERS, rappresentata e difesa
dall’avvocato SALVATORE TRIFIRO I , giusta delega in
2015

atti;
– ricorrente –

1852
contro

GUALTIERO ENRICO;
– intimato –

Data pubblicazione: 08/07/2015

avverso la sentenza n. 222/2008 della CORTE D’APPELLO
di VENEZIA, depositata il 02/10/2008 R.G.N. 850/2005;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 23/04/2015 dal Consigliere Dott. FEDERICO
BALESTRIERI;

TRIFIROT SALVATORE;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. GIOVANNI GIACALONE che ha concluso per
il rigetto del ricorso.

udito l’Avvocato PONTESILLI FABIO per delega verbale

Svolgimento del processo
Il Tribunale di Vicenza, con sentenza del 26.8.04, dichiarava la
nullità della clausola appositiva del termine al contratto di lavoro
stipulato tra Enrico Gualtiero e la società Poste Italiane il 16.4.99
ex art. 8 del c.c.n.l. 1994 e successive integrazioni, l’esistenza tra
le parti di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato

retribuzioni dalla costituzione in mora (21.5.03).
La Corte d’appello di Venezia, con sentenza depositata il 2 ottobre
2008, respingeva il gravame proposto dalla società Poste.
Quest’ultima propone ricorso per cassazione, affidato a cinque
motivi, poi illustrati con memoria.
Il Gualtiero è rimasto intimato.
Motivi della decisione
Deve dapprima esaminarsi la questione della cessazione della
materia del contendere in ordine al ripristino del rapporto ed alla
condanna di Poste al pagamento delle retribuzioni, dedotta dalla
società ricorrente per avere il Gualtiero presentato le sue
dimissioni in data 2.10.04.
La questione è inammissibile per non essere stata sollevata in
grado di appello, nulla al riguardo risultando dalla sentenza
impugnata e neppure dedotto dalla società Poste.
In ogni caso deve considerarsi (cfr. Cass. n. 3693\15) che le
dimissioni del lavoratore, intervenute dopo la sentenza di primo
grado, non ne travolgono la portata concernente il ripristino del
rapporto e il pagamento delle retribuzioni maturate dal 21.5.03 in
ogni caso fino alla data delle dimissioni medesime. Lo stesso dicasi
per la sentenza d’appello.

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da tale data, condannando la società Poste al pagamento delle

Inoltre, è appena il caso di rammentare che non può dichiararsi
cessata la materia del contendere per sopravvenuta carenza di
interesse delle parti se non quando i contendenti si diano
reciprocamente atto dell’intervenuto mutamento della situazione e
sottopongano al giudice conclusioni conformi (espressamente in tal
senso v., ex aliis, Cass. 30.1.14 n. 2063; Cass. 8.11.2007 n.

Cass. S.U. 26.7.2004 n. 13969; Cass. 24.6.2000 n. 8607)..
Venendo pertanto al merito si osserva.
1.- Con il primo motivo la società denuncia la violazione e falsa
applicazione dell’art. 1372 c.c., oltre a vizio di motivazione, (art.
360, comma 1

,

nn.3 e 5 c.p.c.) per avere la Corte territoriale

escluso nella fattispecie la risoluzione del contratto per mutuo
consenso, a fronte del lasso di tempo intercorso dalla cessazione di
fatto del rapporto al primo atto di costituzione in mora acopiendi
(due anni), e dal reperimento di altre occupazioni da parte del
Gualtiero.
Il motivo è infondato.
Ed invero, secondo il consolidato orientamento di legittimità (cfr.
da ultimo Cass. 28.1.14 n. 1780, Cass. 11.3.11 n. 5887, Cass.
18.11.10 n. 23319, Cass. 15.11.10 n. 23057; Cass. 11.3.11 n.
5887, Cass. 4.8.11 n. 16932), ai fini della configurabilità della
risoluzione del rapporto di lavoro per mutuo consenso -costituente
una eccezione in senso stretto, Cass. 7 maggio 2009 n. 10526, il
cui onere della prova grava evidentemente sull’eccepiente, Cass.
1°febbraio 2010 n. 2279- non è di per sé sufficiente la mera
inerzia del lavoratore dopo l’impugnazione del licenziamento,
essendo piuttosto necessario che sia fornita la prova di altre

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23289; Cass. 22.12.2006 n. 27460; Cass. 22.5.2006 n. 11931;

significative circostanze denotanti una chiara e certa volontà delle
parti di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo.
Tali significative circostanze non possono rawisarsi né nella mera
percezione del t.f.r. (indennità di fine lavoro), trattandosi di
emolumento connesso alle esigenze alimentari del lavoratore, la
cui pur volontaria accettazione non può costituire indice di una

tout court, nel reperimento (nella specie peraltro solo dedotta) di
nuova occupazione, ciò rispondendo ad esigenze di sostentamento
quotidiano, non indicativa della volontà del lavoratore di rinunciare
ai propri diritti verso il precedente datore di lavoro, cfr. in tal senso
Cass. 9.10.14 n. 21310.
2.— Con i restanti quattro motivi la ricorrente denuncia la
contraddittorietà della motivazione della corte territoriale circa un
fatto controverso e decisivo per il giudizio, e cioè l’esistenza di un
limite temporale di validità alle pattuizioni delle parti sociali ex art.
23 della legge n. 56 del 1987, nonché violazione, per lo stesso
motivo, degli artt. 1 e 2 della legge n. 230 del 1962, oltre che
dell’art. 23 della legge n. 56 del 1987, nonché degli accordi
sindacali del 25 settembre 1997 e successive modifiche ed
integrazioni.
2. I motivi, che stante la loro connessione possono essere
congiuntamente trattati, sono infondati.
La Corte di merito non ha infatti dubitato della facoltà delle parti
sociali di prevedere liberamente nuove ipotesi di assunzione a
termine in base all’ampia delega contenuta nell’art. 23 L. n. 56 del
1987, ma ha tuttavia ritenuto, in linea con la giurisprudenza di
questa Corte e dell’autonomia negoziale collettiva, che tali
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pattuizioni contenessero un preciso limite
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4,141111 1n 02 :7 !e tzW in

di validità,

volontà di risoluzione del rapporto (cfr. Cass. ord. n. 2044\12), né,

da individuarsi nel 30 aprile 1998 (ex plurimis, Cass. 9 giugno 2006
n.13458, Cass.20 gennaio 2006 n.1074, Cass.3 febbraio 2006
n.2345, Cass. 2 marzo 2006 n.4603). In tali pronunce questa Corte
ha chiarito che negando che le parti collettive, con l’accordo del 25
settembre 1997, avessero inteso introdurre limiti temporali al
ricorso ai contratti a termine / si dovrebbe concludere che gli

neppure se considerati come meramente ricognitivi.
In particolare, se il contratto del 25 settembre 1997 non avesse
previsto alcun termine di efficacia per la facoltà conferita
all’Azienda di stipulare i contratti a termine – essendo questa
consentita al definitivo compimento della ristrutturazione – non
avrebbe avuto alcun senso stipulare gli accordi attuativi in cui
invece un termine risulta indicato; una diversa interpretazione
escluderebbe qualunque effetto sia all’accordo attuativo in pari
data, in cui si dava atto che l’azienda si trovava in stato di
ristrutturazione fino al 31 gennaio 1998, sia al successivo accordo
“attuativo” del 16 gennaio 1998, giacché nulla ci sarebbe stato da
“attuare” e nulla da “riconoscere” dal punto di vista temporale.
Ancora minore senso avrebbe avuto la pattuizione contenuta in
quest’ultimo accordo per cui ai contratti a termine poteva
procedersi fino al 30 aprile 1998, ovvero che la società sarebbe
stata specificamente legittimata a ricorrere ai contratti a termine
“oltre” la data fissata.
Come efficacemente chiarito da Cass. 9 aprile 2008 n. 9259 e
quindi da Cass. 28 ottobre 2010 n. 22015, l’art. 23 della legge n.
56 del 1987, nel consentire alla contrattazione collettiva di
individuare nuove ipotesi rispetto a quelle previste dalla legge n.
230 del 1962, non impone di fissare contrattualmente dei limiti
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accordi attuativi sopra indicati non avrebbero avuto alcun senso,

temporali alla facoltà di assumere lavoratori a tempo determinato,
ma, ove un limite sia stato invece previsto, la sua inosservanza
determina la illegittimità del termine apposto.
3.- Considerata l’assenza di censure inerenti le conseguenze
economiche della accertata nullità della clausola appositiva del
termine, risulta inammissibile la richiesta, contenuta nella memoria

dall’art. 32, commi 5,6 e 7, della L. n. 183 del 2010.
Ed invero va evidenziato che costituisce condizione necessaria per
poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che
abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del
rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo
pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in
ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è
limitato dagli specifici e rituali motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio
2006 n. 10547, Cass. 27 febbraio 2004 n. 4070).
Tale condizione non sussiste nella fattispecie.
4.- Il ricorso deve in definitiva respingersi.
Nulla per le spese essendo il Gualtiero rimasto intimato.
P.Q. M .
La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio dei 23 aprile 2015

IL CONSIGLIERE est.

IL PRESIDENTE

ex art. 378 c.p.c., di applicazione dello ius superveniens costituito

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