Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14151 del 08/07/2020

Cassazione civile sez. VI, 08/07/2020, (ud. 13/02/2020, dep. 08/07/2020), n.14151

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. GORGONI Marilena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 32806-2018 proposto da:

INVESTIGATIVA LIGURE DI A.C. & C. SAS, in persona del

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA DEGLI SCIPIONI 153, presso lo studio dell’avvocato FABIO

BLASI, rappresentata e difesa dall’avvocato ANDREA ARGENTA;

– ricorrente –

contro

TIM SPA, in persona del Procuratore pro tempore, elettivamente

domiciliata in ROMA, CORSO VITTORIO EMANUELE II 18, presso lo STUDIO

LEGALE GREZ E ASSOCIATI, rappresentata e difesa dall’avvocato

RICCARDO SPAGLIARDI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1269/2018 della CORTE D’APPELLO di GENOVA,

depositata il 30/07/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 13/02/2020 dal Consigliere Relatore Dott. MARILENA

GORGONI.

Fatto

RILEVATO

che:

Investigativa Ligure di A.C. & c. S.a.S. ricorre per la cassazione della sentenza n. 1269/2018 della Corte d’Appello di Genova, pubblicata il 30 luglio 2018, articolando due motivi, illustrati con memoria.

Resiste con controricorso Telecom Italia S.p.A.

La ricorrente espone in fatto di avere convenuto in giudizio Telecom Italia S.p.A., con atto del 9 settembre 2009, dinanzi al Tribunale di Savona, per ottenerne la condanna al risarcimento dei danni subiti in conseguenza dell’accertato inadempimento e fino alla concorrenza della somma massima di Euro 26.000,00, oltre alla rivalutazione monetaria ed agli interessi.

In particolare, lamenta l’illegittima interruzione della fornitura del servizio telefonico e della connessione internet per rilevanti periodi, tutti documentati, che le avevano impedito di svolgere proficuamente la propria attività imprenditoriale.

Il Tribunale di Savona, con sentenza n. 642/2013, riconosceva l’inadempimento di Telecom Italia in relazione alle sospensioni del servizio di telefonia e di (OMISSIS), respingeva, tuttavia, la domanda di risarcimento, perchè reputava non provato il danno, compensava integralmente le spese di lite.

La Corte d’Appello di Genova, con la sentenza oggetto dell’odierna impugnazione, investita del gravame da Investigativa Ligure, che lamentava l’omessa pronuncia sull’eccepita mancata comparizione a rendere l’interrogatorio formale da parte del rappresentante legale della Telecom, la non corretta applicazione della distribuzione dell’onere della prova circa i distacchi di linea ed i disservizi lamentati e la loro imputabilità a Telecom, la mancata liquidazione del danno pur avendo il Giudice ritenuto Telecom inadempiente, in violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., il mancato ricorso a criteri equitativi di liquidazione del danno, rigettava l’appello, confermava la decisione di prime cure e condannava l’appellante alla rifusione delle spese di lite a favore dell’appellata.

Avendo ritenuto sussistenti le condizioni per la trattazione ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., il relatore designato ha redatto proposta, che è stata ritualmente notificata, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza della Corte.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., degli artt. 1218 e 2697 c.c., là dove, pur trattandosi di inadempimento contrattuale, comportante l’inversione dell’onere della prova circa l’inesistenza o la non imputabilità, in capo alla Telecom Italia, dei distacchi di linea e dei disservizi lamentati da parte attrice, il giudice ha invece posto detto onere probatorio a carico del cliente.

Il mezzo pretende di denunciare la violazione dell’art. 115, (applicabile nel testo emergente dalla L. n. 69 del 2009), e di risulta dell’art. 2697 c.c., sulla base di un preteso atteggiamento di non contestazione, riguardo al quale omette l’indicazione specifica sia della localizzazione di quanto allegato e asseritamente oggetto di non contestazione all’interno dell’atto di citazione (che evoca genericamente nelle pagine da 2 a 11), sia – e soprattutto – di quanto nella comparsa di costituzione avversaria e nel corso dello svolgimento processuale avrebbe espresso tale atteggiamento di non contestazione.

Di conseguenza, risulta inammissibile, in quanto non rispetta le prescrizioni dell’art. 366 c.p.c., n. 6.

Costituisce ius receptum che il motivo è inammisssibile ove la sua illustrazione si fondi su documenti e/o atti processuali, ma non osservi i contenuti prescrittivi dell’art. 366 c.p.c., n. 6, in quanto: a) non ne trascrive direttamente il contenuto per la parte che dovrebbe sorreggere la censura, nè, come sarebbe stato possibile in alternativa, lo riproduce indirettamente indicando la parte del documento o dell’atto, in cui troverebbe rispondenza l’indiretta riproduzione; b) non indica la sede del giudizio di merito in cui il documento venne prodotto o l’atto ebbe a formarsi; c) non indica la sede in cui in questo giudizio di legittimità il documento, in quanto prodotto (ai diversi effetti dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), se nella disponibilità, sarebbe esaminabile dalla Corte, ovvero, sempre in quanto prodotto, se esaminabile in copia, se trattisi di documento della controparte; d) non indica la sede in cui l’atto processuale sarebbe esaminabile in questo giudizio di legittimità, in quanto non precisa di averlo prodotto in originale (ove possibile) o in copia (ove trattisi di atto della controparte o del fascicolo d’ufficio, come i verbali di causa) e nemmeno fa riferimento alla presenza nel fascicolo d’ufficio (Cass., Sez. Un., 02/12/2008/ 28547; Cass., Sez. Un., 29/04/2009, n. 9941; Cass. 13/11/2009, n. 24178Cass. 20/11/2017, n. 27475; Cass. 07/03/20185, n. 478; Cass., Sez. Un., 27/12/2019, n. 34469).

2. Con il secondo motivo la ricorrente censura la sentenza gravata per violazione e/o falsa applicazione degli artt. 115,116 e 324 c.p.c., e dell’art. 1226 c.c., là dove la Corte d’Appello ha omesso di liquidare, ancorchè in via equitativa, il danno subito dall’attrice quantomeno con riferimento al periodo (OMISSIS), pacificamente accertato in primo e in secondo grado, e nonostante la sentenza di primo grado fosse passata in giudicato in ordine all’accertamento giudiziale dei fastidi e dei disagi generati in capo alla società attrice nell’esercizio della propria attività imprenditoriale, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Secondo la ricorrente, essendosi formato il giudicato sull’inadempimento di Telecom dal (OMISSIS), ove la Corte d’Appello avesse tenuto conto delle dichiarazioni rese dalla teste F., dalle quali risultava che l’attività si svolgeva prevalentemente tramite Internet con un ritmo di venti visure al giorno e con un introito medio unitario compreso tra i 22 ed i 47 Euro per le visure catastali negative e superiore per quelle positive, ne sarebbe risultato dimostrato che l’introito giornaliero mancato era stato pari ad Euro 680 al giorno per 91 giorni, quindi una somma di gran lunga inferiore ai 26.000,00 Euro richiesti con l’atto di citazione. La Corte d’Appello avrebbe perciò dovuto liquidare almeno equitativamente, sulla base dell’id quid plerumque accidit, il danno da perdita di chance risentito.

Perchè si configuri la violazione dell’art. 115 c.p.c., è necessario che venga denunciato che il giudice non ha posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè che abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che, per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (fermo restando il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio, previsti dallo stesso art. 115 c.p.c.), mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell’art. 116 c.p.c., che non a caso è rubricato alla “valutazione delle prove” (Cass. 10/06/2016, n. 11892). La violazione di tale ultima norma, la quale prescrive come regola di valutazione delle prove quella secondo cui il giudice deve valutarle secondo prudente apprezzamento, a meno che la legge non disponga altrimenti, è concepibile solo: a) se il giudice di merito valuta una determinata prova ed in genere una risultanza probatoria, per la quale l’ordinamento non prevede uno specifico criterio di valutazione diverso dal suo prudente apprezzamento, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore ovvero il valore che il legislatore attribuisce ad una diversa risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale); b) se il giudice di merito dichiara di valutare secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza soggetta ad altra regola, così falsamente applicando e, quindi, violando la norma in discorso (oltre che quelle che presiedono alla valutazione secondo diverso criterio della prova di cui trattasi) (per tutte cfr. Cass. 10/06/2016, n. 11892).

La dedotta violazione degli art. 115 e 116 c.p.c., senza che ne ricorressero i presupposti è indice che l’ubi consistam del ricorso si risolve in una sollecitazione a riesaminare la valutazione della quaestio facti al di là dei limiti consentiti dal nuovo art. 360 c.p.c., n. 5.

Nè può pervenirsi ad altra conclusione quanto alla dedotta violazione dell’art. 1226 c.c., la quale è motivata solo come risultante dell’esito di tale sollecitazione; e la asserita violazione dell’art. 324 c.p.c., è solo indicata nell’epigrafe del mezzo impugnatorio, ma non risulta supportata da alcuna motivazione nè dall’indicazione dei termini in cui sarebbe stata compiuta.

3. Non essendo emersa dalla memoria di parte ricorrente alcun elemento utile a mutare tale conclusione, visto che con essa il ricorrente insiste nel riproporre un diverso esito degli accertamenti di fatto rispetto a quelli fatti propri dal Giudice di merito, il ricorso deve dichiararsi inammissibile.

4. Le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza, dandosi atto della sussistenza dei presupposti processuali di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese in favore della controricorrente, liquidandole in Euro 3.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agii accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della società ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis.

Depositato in Cancelleria il 8 luglio 2020

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