Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14143 del 24/05/2021

Cassazione civile sez. II, 24/05/2021, (ud. 27/01/2021, dep. 24/05/2021), n.14143

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonella – Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 7043-2019 proposto da:

SOCIETA’ COOPERATIVA PER LE CASE ECONOMICHE IN SANTA CROCE,

rappresentata e difesa dall’Avvocato GIORGIO CINTIO per procura

speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

V.V., rappresentato e difeso dall’Avvocato ROBERTO

AMODEO per procura speciale in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5044/2018 della CORTE D’APPELLO DI ROMA,

depositata il 19/7/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 27/1/2021 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE DONGIACOMO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Società Cooperativa per Case Economiche in Santa Croce a r.l. ha proposto appello nei confronti della sentenza con la quale il tribunale ha rigettato l’opposizione della stessa avverso il decreto che, nel 2010, le aveva ingiunto il pagamento del compenso per prestazioni professionali vantato dall’avv. V.V..

L’avv. V. ha resistito al gravarne proposto dalla società, chiedendone il rigetto.

2.1. La Corte d’appello, con la sentenza in epigrafe, ha respinto l’appello.

2.2. La Corte, in particolare, per quanto rileva, innanzitutto ha ritenuto l’infondatezza della censura con la quale l’appellante aveva dedotto la violazione del divieto di parcellizzazione del credito sul rilievo che si tratterebbe, in realtà, di un unico incarico professionale che la società opponente aveva affidato all’avv. V..

2.3. La Corte, sul punto, ha dichiaratamente condiviso il giudizio espresso dal tribunale, lì dove il primo giudice aveva ritenuto che l’attività professionale svolta dall’avv. V. nel corso degli anni in favore della società ingiunta, per la mancanza di una convenzione, per la revoca “degli incarichi” formulata dalla stessa società e per l’utilizzo da parte della stessa di altri professionisti, non potesse essere configurato come un unico rapporto di consulenza e di assistenza legale.

2.4. D’altra parte, ha aggiunto la Corte, in tema di incarichi legali, l’autonomia di ogni singolo mandato, conferito mediante il rilascio di procura speciale ad litem, fa sì che la pluralità dei rapporti sia la regola e che, dunque, l’unitarietà dell’incarico dev’essere specificamente provata mediante il deposito del contratto di patrocinio o con altro mezzo equivalente. Nel caso di specie, al contrario, la società appellante non ha dimostrato il fondamento della propria eccezione in ordine alla unicità dell’incarico affidato al professionista.

2.5. Del resto, ha proseguito la Corte, il creditore ha la

facoltà di chiedere, anche in via monitoria, l’adempimento parziale. Nel caso in esame, non è contestato che l’avv. V. avesse patrocinato nel corso degli anni un ingente numero di questioni nell’interesse della cooperativa (pari a centoquaranta incarichi giudiziali o stragiudiziali circa) ma non v’è alcun riferimento, da parte della società appellante, ad un accordo con lo stesso per la definizione unitaria delle spese e dei compensi.

2.6. La Corte, quindi, in assenza di qualsivoglia elemento utile a definire come unico l’incarico legale conferito all’avv. V., ha respinto il motivo d’appello.

2.7. La Corte, inoltre, ha disatteso le altre censure svolte dalla Cooperativa, a partire da quella con cui l’appellante aveva eccepito l’inidoneità delle “proposte di parcella”, sottoscritte dall’amministratore dell’epoca della cooperativa, a costituire la prova scritta del credito. La Corte, sul punto, ha evidenziato come, nel corso del giudizio di opposizione, tale prova documentale era stata integrata dalla testimonianza resa al riguardo dallo stesso ex amministratore, il quale aveva chiarito d’aver apposto la sottoscrizione “per accettazione” dopo aver verificato la reale rispondenza tra l’attività realmente svolta dal professionista e le voci indicate nella parcella, “con ciò riconoscendo l’attività professionale effettuata” (e non solo il credito), peraltro documentata anche attraverso la produzione versata in atti e non disconosciuta.

2.8. Ne consegue, ha proseguito la Corte, che mentre il creditore ha provato il proprio credito, mediante la parcella sottoscritta, le prove testimoniali e le copie degli atti redatti, ecc., l’opponente non ha dato la prova del fatto estintivo dell’obbligazione, avendo genericamente eccepito l’estinzione del credito senza alcuna prova del relativo pagamento: “difatti la produzione in atti da parte della società del versamento dell(a) somma di Euro 115.000,00 è stata superata dalla produzione dell’opposto di altrettante fatture relative ad altre procedure trattate diverse da quella in esame. Sicchè è mancata la prova che la richiesta di pagamento oggetto dell’odierno giudizio fosse ricompresa negli onorari precedentemente pagati dalla società all’avv. V. per altrettanti incarichi legali”.

3. La Società Cooperativa per Case Economiche in Santa Croce, con ricorso notificato il 19/2/2019, ha chiesto, per otto motivi, la cassazione della sentenza della Corte d’appello, dichiaratamente non notificata.

4. V.V. ha resistito con controricorso nel quale ha, tra l’altro, eccepito l’inammissibilità del ricorso ed, in ogni caso, l’inammissibilità, ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c., comma 5, dei motivi svolti a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

5. Le parti hanno depositato memorie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

6.1. Con il primo motivo, la società ricorrente, lamentando la violazione e la falsa applicazione dei principi regolatori della materia di cui agli artt. 2 e 111 Cost., degli artt. 1175 e 1375 c.c. nonchè dell’art. 115 c.p.c. e art. 2909 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la Corte d’appello ha escluso che la domanda proposta dall’opposto avesse violato il divieto di parcellizzazione del credito.

6.2. Così facendo, infatti, ha osservato la ricorrente, la Corte d’appello ha omesso di considerare che: – a fronte di un rapporto di mandato professionale unitario sul piano dell’interesse economico-sociale perseguito dalle parti, l’avv. V., anzichè azionare l’unico credito asseritamente vantato nello stesso giudizio, aveva provveduto a frazionarlo in trentotto ricorsi per decreto ingiuntivo, fondati, peraltro, non già su crediti dei quali accertare l’an e il quantum, ma su altrettanti ed identici atti di riconoscimento di debito, tutti liquidi ed esigibili già al momento della proposizione del primo dei trentotto ricorsi monitori, così aggravando ingiustificatamente, in ragione dei compensi giudiziali liquidati dai rispettivi giudici, la posizione debitoria della società cooperativa; – le attività difensive esplicate nei giudizi di opposizione erano state, in effetti, identiche in termini di domande, eccezioni ed attività istruttorie tant’è che l’arch. B. era stato sentito nei predetti giudizi sui medesimi capitoli di prova, così come, del resto, l’opponente aveva utilizzato trentotto atti di ricognizioni di debito aventi un’identica conformazione documentale e contenutistica, senza dedurre nè provare un suo interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata.

6.3. L’improponibilità delle trentotto domande proposte dall’avv. V. per indebito frazionamento dell’unico credito formato dalla somma di tutti e trentotto titoli (e cioè gli atti di riconoscimento di debito), ha aggiunto la ricorrente, consegue, come dedotto dalla stessa nel corso del giudizio di secondo grado, al passaggio in giudicato della sentenza con la quale, in data 13/9/2017, il tribunale di Roma, dopo aver accertato l’esistenza di un unico rapporto professionale tra l’opponente e l’avv. V. pur a fronte di distinte procure difensive, aveva, appunto, dichiarato l’improponibilità di una delle azioni recuperatorie proposte da quest’ultimo proprio in quanto frutto di un non consentito frazionamento dell’unico credito ad esso riconducibile.

6.4. Infine, ha concluso la ricorrente, l’unitarietà del mandato di assistenza legale intercorso tra la cooperativa e l’avv. V. risulta con certezza da numerosi documenti che la Corte d’appello ha omesso di esaminare, come le quietanze che, a fronte del percepimento dell’importo complessivo di Euro. 115.503,74, lo stesso ha rilasciato mediante imputazioni genericamente riferite al complessivo rapporto, e la comparsa di costituzione e risposta depositata nel giudizio di primo grado, nella quale l’avv. V. ha esplicitamente ammesso l’esistenza di un unico rapporto obbligatorio.

7. Con il secondo motivo, la società ricorrente, lamentando la violazione e la falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 2704 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 e n. 5, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la Corte d’appello non si è pronunciata sull’eccezione con la quale la cooperativa opponente aveva dedotto, sin dal giudizio di primo grado, la mancanza di data certa con riguardo al preavviso di parcella, alla redazione della frase “per presa visione ed accettazione” ed all’epoca della sottoscrizione apposta dall’arch. B. in qualità di presidente della cooperativa.

8. Con il terzo motivo, la società ricorrente, lamentando la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 1988 c.c. e art. 2704 c.c., a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 3, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la Corte d’appello non ha considerato che, a fronte della mancata prova da parte dell’avv. V. circa la creazione del preavviso di parcella in data precedente al suo deposito in cancelleria (21/1/2010), l’arch. B., revocato dalla carica di presidente della cooperativa in data 14/6/2008, non aveva più, in quel momento, alcun potere rappresentativo della società.

9. Con il quarto motivo, la società ricorrente, lamentando la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2380 bis, 2381 e 2384 c.c., richiamati dall’art. 2519 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la Corte d’appello ha ritenuto che fossero irrilevanti le deduzioni svolte dalla società in tema di carenza di poteri dell’amministratore.

10. Con il quinto motivo, la società ricorrente, lamentando, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e la falsa applicazione dell’art. 636 c.p.c., in relazione all’art. 1988 c.c., ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la Corte d’appello ha ritenuto che fosse irrilevante la mancata allegazione del parere del consiglio dell’ordine degli avvocati a corredo della prova scritta del credito in sede monitoria.

11. Con il sesto motivo, la società ricorrente, lamentando, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e la falsa applicazione degli artt. 132,115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 2697 c.c., ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la Corte d’appello, senza illustrarne le ragioni, ha ritenuto che l’avv. V. avesse fornito, nel corso del giudizio di opposizione, la prova del suo credito mediante la parcella sottoscritta, le prove testimoniali e le copie degli atti redatti, ecc.

12. Con il settimo motivo, la società ricorrente, lamentando, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e la falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione agli artt. 1218,1195,2697 e 2702 c.c., ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la Corte d’appello ha ritenuto che la società opponente avesse genericamente eccepito l’estinzione del credito senza aver dato la prova del fatto estintivo dell’obbligazione, sul rilievo che la produzione in atti da parte della società del versamento della somma di Euro 115.000,00 era stata superata dalla produzione da parte dell’opposto di altrettante fatture relative ad altre procedure trattate e diverse da quella in esame, e che era, dunque, mancata la prova che la richiesta di pagamento oggetto dell’odierno giudizio fosse ricompresa negli onorari precedentemente pagati dalla società all’avv. V. per altrettanti incarichi legali. La Corte d’appello, però, ha osservato la società ricorrente, così facendo, non ha considerato che, come emerge dalle ricevute depositate in giudizio dalla opponente, l’avv. V., nel periodo che va dall’1/4/2004 al 4/5/2007, ha ricevuto la somma complessiva di Euro 115.503,74, e che lo stesso, come si evince dalle formule utilizzate, ha genericamente imputato tale somma al complessivo rapporto di assistenza legale allora in essere con la cooperativa, con diciture generiche come “per ricevuta”, “fondo spese in acconto in relazione ai giudizi in corso”, “acconto spese”, “a titolo di fondo spese legali”, ecc.. Peraltro, ha aggiunto la ricorrente, la società opponente ha immediatamente contestato l’errata imputazione che l’avv. V. aveva operato, con la conseguenza che era onere dello stesso provare la fondatezza della contestata imputazione di pagamento mediante l’allegazione degli altri crediti ai quali il pagamento effettuato dal debitore dovrebbe essere riferito. Tale prova, però, non può essere certo fornita mediante la produzione di fatture prive di data certa, trattandosi di documenti generati dallo stesso creditore, e riferite, peraltro, ad incarichi dei quali la società aveva contestato sia l’attribuzione che l’esecuzione.

13. Con l’ottavo motivo, la società ricorrente, lamentando la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. n. 231 del 2002, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la Corte d’appello ha ritenuto che fosse infondata la censura concernente gli interessi moratori.

14.1. Il primo motivo, nei limiti che seguono, è fondato.

14.2. La Corte d’appello, in effetti, ha ritenuto che, ad onta di quanto affermato sul punto dall’appellante, il credito azionato dall’avv. V. con il ricorso per decreto ingiuntivo non derivava, rispetto alle pretese fatte valere con gli altri ricorsi monitori, da un unico rapporto obbligatorio, vale a dire da un unico incarico professionale che la società opponente aveva affidato all’avv. V.. La Corte, in particolare, dichiaratamente condividendo il giudizio espresso sul punto dal tribunale, ha ritenuto che l’attività professionale svolta dall’avv. V. nel corso degli anni in favore della società ingiunta, a fronte della mancanza di una convenzione, della revoca “degli incarichi” formulata dalla stessa società e dell’utilizzo da parte della stessa di altri professionisti, non potesse essere configurato come un unico rapporto contrattuale di consulenza e di assistenza legale ed, in forza di tale apprezzamento, ha escluso che il tribunale avesse violato il divieto di parcellizzazione del credito.

14.3. Tale conclusione, tuttavia, non è giuridicamente corretta.

Le Sezioni Unite di questa Corte, com’è noto, hanno affermato il principio per cui non è consentito al creditore di una determinata somma di denaro, dovuta in forza di un “unico rapporto obbligatorio”, di proporre plurime richieste giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel tempo, in quanto la scissione del contenuto dell’obbligazione, così operata dal creditore per sua esclusiva utilità con unilaterale modificazione aggravativa della posizione del debitore, si pone in contrasto sia con il principio di correttezza e buona fede, che deve improntare il rapporto tra le parti non solo durante l’esecuzione del contratto ma anche nell’eventuale fase dell’azione giudiziale per ottenere l’adempimento, sia con il principio costituzionale del giusto processo, traducendosi la parcellizzazione della domanda giudiziale diretta alla soddisfazione della pretesa creditoria in un abuso degli strumenti processuali che l’ordinamento offre alla parte, nei limiti di una corretta tutela del suo interesse sostanziale (Cass. SU n. 23726 del 2007). E così, sulla scorta di tale intervento nomofilattico delle Sezioni Unite è stato, di recente, affermato che “… non è consentito al creditore di una determinata somma di denaro, dovuta in forza di un unico rapporto obbligatorio, di frazionare il credito in plurime richieste giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel tempo, in quanto tale scissione del contenuto dell’obbligazione, operata dal creditore per sua esclusiva utilità con unilaterale modificazione peggiorativa della posizione del debitore, si pone in contrasto sia con il principio di correttezza e buona fede, che deve improntare il rapporto tra le parti non solo durante l’esecuzione del contratto ma anche nell’eventuale fase dell’azione giudiziale per ottenere l’adempimento, sia con il principio costituzionale del giusto processo, traducendosi la parcellizzazione della domanda giudiziale diretta alla soddisfazione della pretesa creditoria in un abuso degli strumenti processuali che l’ordinamento offre alla parte, nei limiti di una corretta tutela del suo interesse sostanziale” (Cass. n. 19898 del 2018; conf., Cass. n. 15398 del 2019; Cass. n. 26089 del 2019; Cass. n. 9398 del 2017 e Cass. n. 17019 del 2018).

14.4. Si è posto, tuttavia, il problema se il principio così affermato, secondo il quale è vietato l’indebito frazionamento di pretese dovute in forza di un “unico rapporto obbligatorio”, debba, o meno, trovare applicazione (ed, eventualmente, in quali limiti) nella diversa ipotesi in cui siano state proposte distinte domande per far valere pretese creditorie diverse ma derivanti da un medesimo rapporto contrattuale, quale fonte unitaria di obblighi e doveri per le parti e produttivo di crediti collegabili unitariamente alla loro genesi, e cioè la volontà delle parti di stipulare un contratto, specie quando si tratta di controversie (recuperatorie di crediti) promosse a rapporto concluso, quando, cioè, il complesso di obbligazioni derivanti dal contratto è ormai noto e consolidato.

Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 4090 del 2017, si sono pronunciate sul punto ed hanno affermato che, in linea di principio, le domande aventi ad oggetto diversi e distinti diritti di credito, anche se relativi ad un medesimo rapporto di durata tra le parti, possono essere proposte in separati processi: tuttavia, ove le suddette pretese creditorie, oltre a far capo ad un medesimo rapporto tra le stesse parti, siano anche, in proiezione, inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato o, comunque, fondate sullo stesso fatto costitutivo, sì da non poter essere accertate separatamente se non a costo di una duplicazione di attività istruttoria e di una conseguente dispersione della conoscenza dell’identica vicenda sostanziale, le relative domande possono essere formulate in autonomi giudizi solo se risulti in capo al creditore un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata (conf., in seguito, Cass. n. 17893 del 2018; Cass. n. 6591 del 2019).

La sentenza, in particolare, ha evidenziato che il principio dell’infrazionabilità del singolo diritto di credito affermato dalla sentenza n. 23726 del 2007 (“decisamente condivisibile, nella considerazione che la parte può disporre della situazione sostanziale ma non dell’oggetto del processo, da relazionarsi al diritto soggettivo del quale si lamenta la lesione, in tutta l’estensione considerata dall’ordinamento”) non comporta inevitabilmente che il creditore debba agire nello stesso processo per far valere “diritti di credito diversi, distinti ed autonomi, anche se riferibili ad un medesimo rapporto complesso” intercorrente tra le medesime parti. D’altra parte, hanno ulteriormente osservato le Sezioni Unite del 2017, il creditore può, finanche in relazione ad un singolo, unico credito, agire con ricorso monitorio per la somma provata documentalmente e con il procedimento sommario di cognizione per la parte residua senza per questo incorrere in un abuso dello strumento processuale per frazionamento del credito. In effetti, “l’onere di agire contestualmente per crediti distinti, che potrebbero essere maturati in tempi diversi, avere diversa natura (ad esempio come frequentemente accade in relazione ad un rapporto di lavoro – retributiva e risarcitoria), essere basati su presupposti in fatto e in diritto diversi e soggetti a diversi regimi in tema di prescrizione o di onere probatorio, oggettivamente complica e ritarda di molto la possibilità di soddisfazione del creditore, traducendosi quasi sempre – non in un alleggerimento bensì – in un allungamento dei tempi del processo, dovendo l’istruttoria svilupparsi contemporaneamente in relazione a numerosi fatti, ontologicamente diversi ed eventualmente tra loro distanti nel tempo. E’ verosimile che per questa via il processo (lungi dal costituire un agile strumento di realizzazione del credito) finisca per divenire un contenitore eterogeneo smarrendo ogni duttilità, in violazione del principio di economia processuale, inteso come principio di proporzionalità nell’uso della giurisdizione”. Del resto, “l’affermazione di un principio generale di necessaria azione congiunta per tutti i diversi crediti nascenti da un medesimo rapporto di durata, a pena di improponibilità delle domande proposte successivamente alla prima, sarebbe suscettibile di arrecare pregiudizievoli conseguenze per l’economia. Se, infatti, si ha riguardo in prospettiva non solo ai crediti derivanti dai rapporti di lavoro, ma a tutti i crediti riferibili a rapporti di durata, anche tra imprese (consulenza, assicurazione, locazione, finanziamento, leasing), l’idea che essi debbano ineluttabilmente essere tutti veicolati – pena la perdita della possibilità di farli valere in giudizio – in un unico processo monstre (meno “spedito” dei processi adeguati per i singoli, differenti crediti) risulta incompatibile con un sistema inteso a garantire l’agile soddisfazione del credito, quindi a favorire la circolazione del danaro e ad incentivare gli scambi e gli investimenti”.

14.5. Tuttavia, hanno aggiunto le Sezioni Unite del 2017, “se è vero… che la citata disciplina ipotizza la proponibilità delle pretese creditorie suddette in processi (e tempi) diversi, è anche vero che essa è univocamente intesa a consentire, ove possibile, la trattazione unitaria dei suddetti processi e comunque ad attenuare o elidere gli inconvenienti della proposizione e trattazione separata dei medesimi”… “nella consapevolezza che la trattazione dinanzi a giudici diversi, in contrasto con il principio di economia processuale, di una medesima vicenda “esistenziale”, sia pure connotata da aspetti in parte dissimili, incide negativamente sulla “giustizia” sostanziale della decisione (che può essere meglio assicurata veicolando nello stesso processo tutti i diversi aspetti e le possibili ricadute della stessa vicenda, evitando di fornire al giudice la conoscenza parziale di una realtà artificiosamente frammentata), sulla durata ragionevole dei processi (in relazione alla possibile duplicazione di attività istruttoria e decisionale) nonchè, infine, sulla stabilità dei rapporti (in relazione al rischio di giudicati contrastanti)”.

14.6. Le Sezioni Unite, quindi, hanno affermato che, se sono proponibili separatamente le domande relative a singoli crediti distinti pur riferibili al medesimo rapporto di durata, le pretese inscrivibili nel medesimo ambito di altro processo precedentemente instaurato così da potersi ritenere già in esso deducibili o rilevabili, nonchè, ed in ogni caso, le pretese creditorie fondate sul medesimo fatto costitutivo, possono anch’esse ritenersi proponibili separatamente ma solo se risulta in capo al creditore agente un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata, la cui carenza, ove non sia stata dedotta dal convenuto, può essere rilevata d’ufficio dal giudice, il quale, però, è tenuto ad indicare alle parti la relativa questione ai sensi dell’art. 183 c.p.c. e, se del caso, assegnare alle stesse il termine previsto dall’art. 101 c.p.c., comma 2, (per l’applicazione di tali principi, cfr., in seguito, Cass. n. 31012 del 2017 e n. 17893 del 2018; viceversa, per l’applicazione del principio del divieto di frazionamento in caso di unico rapporto contrattuale senza ulteriori distinzioni, v. Cass. n. 4016 del 2016, la quale ha sostenuto che sussiste indebito frazionamento di pretese, dovute in forza di un unico rapporto obbligatorio, anche nel caso di unico rapporto di lavoro, fonte di crediti di natura contrattuale e legale, specie se i giudizi siano promossi quando le obbligazioni sono note e consolidate per essersi il suddetto rapporto già concluso, con conseguente necessità di evitare l’aggravamento della posizione del debitore nel rispetto degli obblighi di correttezza e buona fede contrattuali e in coerenza con il principio anche sovranazionale del giusto processo, volto alla razionalizzazione del sistema giudiziario, che non tollera frammentazioni del contenzioso con pericolo di giudicati contrastanti).

14.7. Le Sezioni Unite del 2017, quindi, dopo aver ribadito il divieto di tutela frazionata del singolo diritto di credito in plurime richieste giudiziali di adempimento (contestuali o scaglionate nel tempo), hanno affermato il principio generale per il quale, al contrario, le domande aventi ad oggetto diversi e distinti diritti di credito, pur se relativi ad un medesimo rapporto di durata tra le parti, possono essere proposte in separati processi. Ed è, naturalmente, una questione di diritto sostanziale la verifica se la pretesa creditoria azionata sia da considerare come un unico diritto di credito (non suscettibile di tutela processuale frazionata), come nel caso del diritto al risarcimento del danno (cfr., sul punto, Cass. n. 15523 del 2019) ovvero se si tratti della sommatoria delle prestazioni dovute in conseguenza di crediti distinti (che, in quanto tali, pur se relativi allo stesso rapporto di durata tra le parti, sono in linea di principio, suscettibili di tutela processuale separata, come nel caso, deciso dalle Sezioni Unite, del credito al premio al premio di fedeltà aziendale e di quello al trattamento di fine rapporto afferente al medesimo rapporto di lavoro subordinato).

14.8. Il principio della proponibilità in separati processi di domande aventi ad oggetto diversi e distinti diritti di credito, però, soffre di due possibili eccezioni, tra loro alternative, che operano nel caso in cui i suddetti diritti di credito, oltre a far capo ad un medesimo rapporto tra le stesse parti, siano anche riconducibili al “medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato” ovvero siano “fondati sul medesimo fatto costitutivo”. Nell’una e nell’altra ipotesi, infatti, poichè le distinte pretese creditorie non possono essere accertate in altrettanti distinti giudizi se non a costo di una duplicazione dell’attività istruttoria e di una conseguente dispersione di conoscenza dell’identica “vicenda sostanziale” che (“sia pure connotata da aspetti in parte dissimili”) è stata dedotta, in ragione dei differenti diritti di crediti azionati, nell’uno e nell’altro giudizio, le domande giudiziali ad esse relative non possono essere proposte separatamente, a meno che – ed è questo un dato imprescindibile – risulti dagli atti di causa che il creditore abbia un interesse oggettivamente valutabile alla loro tutela processuale separata.

14.9. La prima ipotesi (che la sentenza delle Sezioni Unite tratta espressamente) si configura, come detto, nel caso in cui le distinte pretese creditorie conseguenti al medesimo rapporto contrattuale tra le parti “sono in proiezione inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato” perchè hanno in comune le questioni relative all’esistenza del rapporto stesso ovvero alla validità o all’efficacia del relativo titolo.

La giurisprudenza di questa Corte, in effetti, ritiene che, in caso di rapporti contrattuali complessi, il giudicato – che pure ha per oggetto esclusivo la singola situazione giuridica soggettiva azionata (che segna, quindi, i suoi limiti oggettivi) e non produce quindi alcun effetto preclusivo in ordine agli altri diritti derivanti dal medesimo rapporto nè ai diritti maturati in relazione a differenti segmenti o frazioni dello stesso, copre, tuttavia, in quanto necessariamente compreso nell’ambito oggettivo della prima domanda, anche l’accertamento già compiuto in ordine alle questioni di fatto e di diritto comuni ad entrambe le domande (come l’esistenza del rapporto stesso dal quale lo stesso trae origine oppure la validità e l’efficacia del relativo titolo), quale necessario presupposto logico-giuridico del diritto fatto valere (cfr., in tal senso, Cass. SU n. 15896 del 2006; Cass. SU n. 13916 del 2006; di recente, Cass. n. 5486 del 2019; Cass. n. 13152 del 2019; Cass. n. 28318 del 2017; in materia di lavoro, in particolare, Cass. n. 9317 del 2013, in motiv., Cass. n. 4282 del 2012, in motiv.).

In tali situazioni, quindi, secondo le Sezioni Unite, onde evitare il rischio di giudicati contrastanti e la duplicazione dell’attività istruttoria ma anche per favorire la giustizia sostanziale delle decisioni e la rapida definizione della controversia tra le parti, la domanda che abbia ad oggetto una delle pretese scaturenti dal rapporto contrattuale non può essere proposta separatamente da quella che abbia ad oggetto una distinta pretesa derivante dal medesimo rapporto contrattuale quando, sia pur soltanto nei limiti delle questioni di fatto e di diritto comune ad entrambe le domande (quali l’esistenza, la validità e l’efficacia del rapporto stesso), la seconda è già compresa nell’ambito oggettivo del primo giudizio (“l’ordinamento guarda con particolare attenzione alle domande connesse che, pur legittimamente, siano state proposte separatamente, e, con riguardo alle domande inscrivibili nel medesimo “ambito” oggettivo di un ipotizzabile giudicato, pur non escludendone la separata proponibilità, prevede, tuttavia, un meccanismo di “preclusione” dopo il passaggio in cosa giudicata della sentenza che chiude uno dei giudizi, e comunque uno specifico rimedio impugnatorio per la sentenza contraria a precedente giudicato tra le stesse parti, con una disciplina dettata dall’esigenza di evitare, ove possibile, la “duplicazione” di attività istruttoria e decisoria, il rischio di giudicati contrastanti, la dispersione dinanzi a giudici diversi della conoscenza di una medesima vicenda sostanziale”), con salvezza, naturalmente, del caso in cui il creditore sia portatore di un interesse oggettivamente valutabile alla tutela frazionata delle pretese.

14.10. L’altra ipotesi (che non è specificamente trattata dalle Sezioni Unite se non in sede di decisione sul ricorso, che ha rigettato sul rilievo che, essendo stati azionati crediti non solo tra loro distinti ma anche fondati su una differente fonte, una contrattuale ed una legale, non si poneva alcuna necessità di verificare la sussistenza di un apprezzabile interesse del creditore per giustificare la tutela frazionata) si riferisce al caso in cui le pretese creditorie, oltre a far capo ad un medesimo rapporto tra le stesse parti, siano anche fondate sul “medesimo fatto costitutivo”: dovendosi, evidentemente, ritenere come tale, onde evitare la contraddizione che non lo consente, non già il medesimo fatto storico costitutivo del diritto ai sensi dell’art. 1173 c.c., poichè in tal caso si configurerebbe in realtà l’ipotesi del “medesimo diritto” di credito (per il quale, come detto, il divieto di tutela giudiziale frazionata è stato già sancito dalle SU con la sentenza n. 23726 del 2007: si pensi, ad esempio, al credito relativo al prezzo dovuto per una singola fornitura o al compenso spettante per un singolo incarico professionale), ma come fatto (sia pur storicamente diverso ma) della stessa natura di quello che, nell’ambito del medesimo rapporto tra le parti, è stato già dedotto in giudizio: l’uno e l’altro, quindi, costitutivi di più crediti ontologicamente distinti (pur se riconducibili allo stesso rapporto tra le parti) ma tra loro giuridicamente simili (come, ad esempio, ai corrispettivi dovuti in conseguenza di distinte forniture rese in esecuzione del medesimo contratto quadro, ai compensi dovuti per l’esecuzione di differenti incarichi resi nell’ambito del medesimo contratto di consulenza professionale, ecc.). In siffatte situazioni, quindi, il creditore, che ha maturato pretese tra loro distinte (per i differenti fatti storici da cui hanno avuto origine), e, come tali, insuscettibili di essere coperte, salvo che per le questioni comuni, dal giudicato formatosi sul diritto relative ad un diverso periodo dello stesso rapporto di durata tra le parti (Cass. n. 4282 del 2012, in motiv., in cui è ripetuto che nei rapporti di durata i singoli periodi individuano titoli differenti pertanto insuscettibili, comunque, di essere “forzosamente” coperti dal giudicato unitario; conf. Cass. n. 9317 del 2013, in motiv.) – ma (oltre che riconducibili al medesimo rapporto, anche) fondate su fatti costitutivi (che, pur se storicamente distinti, sono) tra loro simili o analoghi, non può agire per la loro tutela processuale proponendo distinte domande giudiziali (a meno che non abbia un interesse apprezzabile alla separazione dei relativi processi).

14.11. Il Collegio ritiene che tale soluzione debba trovare necessariamente applicazione, per l’evidente comunanza di ratio, non soltanto al caso (del quale le Sezioni Unite si sono occupate) del creditore (asseritamente) titolare di distinte pretese creditorie ma riconducibili a distinti (ma simili) fatti costitutivi che si sono verificati nell’ambito del medesimo rapporto contrattuale, come quello di lavoro subordinato, che ne abbia disciplinato il compimento (le prestazioni lavorative) e gli effetti (il credito alle conseguenti retribuzioni), ma anche al caso in cui le pretese creditorie separatamente azionate siano riconducibili a fatti costitutivi storicamente distinti che si sono verificati nel contesto di un rapporto di durata tra le parti che non ha avuto origine nella stipulazione di un contratto che ne regolasse gli effetti: (quanto meno) tutte le volte in cui si tratti di fatti che, seppur distinti, sono tra loro simili (come l’esecuzione di distinti incarichi professionali ovvero di distinte forniture: che è, a bene vedere, proprio il caso deciso dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 23726 del 2007, relativa, appunto, ad una vicenda in cui una società aveva chiesto e ottenuto “un distinto decreto ingiuntivo per ogni fattura (o gruppo di fatture) non pagata”) ed, in quanto tali, idonei a costituire, tra le stesse parti, diritti di credito giuridicamente eguali, come i crediti ai corrispettivi dovuti per le distinte forniture ovvero dei compensi dovuti per l’esecuzione di differenti incarichi professionali (cfr., in tal senso, in motivazione Cass. n. 31308 del 2019, relativa a credito professionale e Cass. n. 24130 del 2020).

14.12. In tali (e in altre simili) ipotesi, infatti, la contemporanea sussistenza tra le stesse parti di crediti giuridicamente eguali, che, pur se non conseguenti allo stesso contratto, siano nondimeno riconducibili (come pretendono le Sezioni Unite) al medesimo “rapporto” che, nel corso del tempo, si sia venuto a determinare (anche se in via di mero fatto) tra loro, ne impone la deduzione (ove esigibili) nello stesso giudizio. E ciò in ragione dei doveri inderogabili di correttezza e buona fede che derivano dal più ampio “contatto sociale” tra esse così formatosi e che devono improntare, in termini di salvaguardia e di protezione dell’altrui interesse (art. 2 Cost.), i comportamenti delle parti, oltre che durante l’esecuzione dei singoli contratti, anche nella fase della tutela giudiziale dei relativi diritti di credito (cfr. Cass. SU n. 23726 del 2007; Cass. n. 9317 del 2013, in motiv.), evitando di aggravare (si pensi, ad esempio, alla moltiplicazione degli oneri conseguenti alle spese processuali), con plurime iniziative giudiziarie, la posizione della controparte.

14.13. In tali situazioni, in effetti, l’interesse sostanziale del creditore (salvo, naturalmente, che non sia dedotto e provato il contrario) può essere adeguatamente tutelato anche con una domanda unitaria, trattandosi, a ben vedere, di pretese sì distinte sul piano giuridico ma, in definitiva, concernenti pur sempre la “medesima vicenda esistenziale” e “sostanziale” (sia pure connotata da aspetti in parte dissimili): la cui trattazione dinanzi a giudici diversi, come le Sezioni Unite hanno espressamente evidenziato, incide negativamente non solo sulla “giustizia” sostanziale della decisione, che può essere meglio assicurata veicolando nello stesso processo tutti i diversi aspetti e le possibili ricadute della stessa vicenda, evitando di fornire al giudice la conoscenza parziale di una realtà artificiosamente frammentata, ma anche sulla durata ragionevole dei relativi processi, in relazione alla possibile duplicazione di attività istruttoria e decisionale su vicende fattualmente distinte ma tra loro simili e, spesso, connotate dall’esecuzione di prestazioni analoghe in contesti temporali ristretti (si pensi alle diverse consegne dei beni forniti all’acquirente ad opera dello stesso vettore che sia chiamato a rendere le relative testimonianze) nonchè, infine, sulla stabilità dei rapporti, in relazione al rischio di giudicati contrastanti. Si pensi, in particolare, all’eccezione (sollevata proprio dalla società ricorrente) di imputazione dei pagamenti eseguiti nel corso del tempo, la quale, evidentemente, può essere senz’altro meglio apprezzata dal giudice di merito proprio se tutte le domande relative ai crediti eventualmente residui siano state proposte nello stesso giudizio a prescindere dalla loro riconducibilità allo stesso o a distinti contratti, onde evitare il rischio (che in caso di proposizione separata delle relative domande può riverberarsi tanto ai danni del creditore che agisce per il loro pagamento, quanto ai danni del debitore che eccepisce di averne eseguito il pagamento) che i pagamenti eseguiti siano ritenuti, da alcuni giudici, estintivi del singolo credito azionato, pur essendo imputabili a crediti che hanno costituito l’oggetto di domande proposte in distinti processi, e, da altri giudici, invece, imputati ai crediti azionati con altre domande (o, addirittura, a crediti non azionati) pur avendo, in realtà, estinto proprio il credito vantato in quel giudizio.

14.14. Di tale esigenze, del resto, si è fatta carico la giurisprudenza delle Sezioni Unite anche in altre decisioni, come è accaduto, in particolare, con la sentenza n. 12310 del 2015 in materia di modificabilità della domanda ai sensi dell’art. 183 c.p.c.. Tale sentenza, in effetti, ha ribadito l’esigenza “di realizzare, al fine di una maggiore economia processuale ed una migliore giustizia sostanziale, la concentrazione nello stesso processo e dinanzi allo stesso giudice delle controversie aventi ad oggetto la medesima vicenda sostanziale (basti pensare alle disposizioni codicistiche in tema di connessione o di riunione di procedimenti)”, e, quindi, di evitare che, una volta proposta una domanda innanzi ad un giudice, sia, poi, proposta una nuova domanda (con indubbio spreco di attività e risorse) dinanzi ad un altro giudice che sia chiamato a conoscere della medesima vicenda, sia pure sotto aspetti in parte dissimili, con effetti incidenti negativamente tanto sulla “giustizia” sostanziale della decisione (che può essere meglio assicurata proprio se sono veicolati nel medesimo processo tutti i vari aspetti e le possibili ricadute della medesima vicenda sostanziale ed “esistenziale”, evitando di fornire al giudice la conoscenza di una realtà sostanziale artificiosamente frammentata con l’effetto di determinarne una visione parziale), quanto sulla ragionevole durata dei processi (valore costituzionale da perseguire anche nell’attività di interpretazione delle norme processuali da parte del giudice che sia idonea “a favorire una soluzione della complessiva vicenda sostanziale ed esistenziale portata dinanzi al giudice in un unico contesto invece di determinare la potenziale proliferazione dei processi, essendo appena il caso di aggiungere che sulla irragionevole durata di un processo non incide (sol)tanto ciò che rileva all’interno di quel processo quanto il numero complessivo dei processi contemporaneamente pendenti che ne condiziona la gestione”; in quest’ultimo senso, del resto, si erano già pronunciate le Sezioni Unite nella citata sentenza n. 23726 del 2007, rilevando “… l’evidente antinomia che esiste tra la moltiplicazione dei processi e la possibilità di contenimento della correlativa durata”).

14.15. Le Sezioni Unite di questa Corte, d’altra parte, in tema di responsabilità disciplinare a carico degli avvocati, hanno affermato che costituisce violazione dell’art. 49 del codice deontologico forense l’intraprendere contro la stessa parte assistita iniziative giudiziarie plurime e non giustificate da un effettivo e necessitato sviluppo processuale, a tutela delle proprie ragioni economiche relative ad un rapporto professionale svoltosi continuativamente per un lungo periodo di tempo, così da aggravare la posizione della controparte, costretta a sostenere il cumulo delle spese giudiziali, invece di procedere ad un accorpamento delle posizioni in contestazione (Cass. SU n. 14374 del 2012, che si è pronunciata, riconoscendo la responsabilità disciplinare dell’avvocato, in una vicenda nella quale l’incolpato era stato accusato di avere promosso contro il suo cliente “una pluralità di azioni giudiziarie per recuperare i crediti… per compensi professionali, così aggravando la posizione della debitrice, senza che ciò corrispondesse ad effettive ragioni di tutela dei crediti…”). Le Sezioni Unite, in particolare, hanno evidenziato che: – “il rapporto professionale, svoltosi continuativamente per un lungo periodo temporale fra le parti, avrebbe dovuto, anche sul piano della richiesta dei compensi, sfociare, quantomeno, in un accorpamento delle posizioni in contestazione, per un loro esame globale e complessivo. L’avere, viceversa, con iniziative plurime, e non giustificate da un effettivo e necessitato sviluppo processuale, aggravato la posizione della controparte, costretta a sostenere il cumulo delle spese giudiziali a suo carico, conduce, quindi, a ritenere sussistere la violazione deontologica contestata”; – “i principi di buona fede oggettiva e di correttezza, per la loro ormai acquisita costituzionalizzazione in rapporto all’inderogabile dovere di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., costituiscono un autonomo dovere giuridico ed una clausola generale, che non attiene soltanto al rapporto obbligatorio e contrattuale, ma che si pone come limite all’agire processuale nei suoi diversi profili; e che impone di mantenere, nei rapporti della vita di relazione, un comportamento leale, volto anche alla salvaguardia dell’utilità altrui, nei limiti dell’apprezzabile sacrificio (v. anche S.U. 23.12.2009, n. 27214; Cass. 22.12.2011, n. 28286). Principio, questo ripreso anche dall’art. 88 c.p.c. per il quale le parti e i loro difensori devono comportarsi in giudizio con lealtà e probità; applicabile, quindi, anche con riferimento ai doveri deontologici”.

14.16. In definitiva, il principio enunciato nella sentenza delle Sezioni Unite n. 4090 del 2017 – alla cui stregua i diritti i quali, oltre a far capo ad un medesimo rapporto di durata tra le stesse parti, sono anche, in proiezione, inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato o comunque “fondati” sul medesimo fatto costitutivo non possono essere azionati in separati giudizi, a meno che il creditore non risulti titolare di un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata – va inteso con la duplice specificazione che: a) l’espressione “medesimo rapporto di durata” deve essere letta in senso storico/fenomenologico: alla parola “rapporto” va, cioè, assegnato non il significato tecnico-giuridico di coppia diritto/obbligazione derivante da una della cause elencate nell’art. 1173 c.c., bensì il significato di relazione di fatto realizzatasi tra le parti nella concreta vicenda da cui deriva la controversia; b) nell’espressione “medesimo fatto costitutivo”, l’aggettivo “medesimo” va letto con riferimento non all’identità ma alla qualità, e quindi non come sinonimo di “identico” ma come sinonimo di “analogo”.

15. Alla stregua delle precisazione che precedono, la Corte enuncia il seguente principio di diritto: “le domande relative a diritti di credito analoghi per oggetto e per titolo, in quanto fondati su analoghi, seppur diversi, fatti costitutivi, non possono essere proposte in giudizi diversi quando i relativi fatti costitutivi si inscrivano nell’ambito di una relazione unitaria tra le parti, anche di mero fatto, caratterizzante la concreta vicenda da cui deriva la controversia. Tale divieto processuale non opera quando l’attore abbia un interesse oggettivo, il cui accertamento compete al giudice di merito, ad azionare in giudizio solo uno, o solo alcuni, dei crediti sorti nell’ambito della suddetta relazione unitaria le parti. La violazione dell’enunciato divieto processuale è sanzionata con l’improponibilità della domanda, ferma restando la possibilità di riproporre in giudizio la domanda medesima, in cumulo oggettivo, ai sensi dell’art. 104 c.p.c., con tutte le altre domande relative agli analoghi crediti sorti nell’ambito della menzionata relazione unitaria tra le parti”.

16. La sentenza impugnata, avendo dato esclusivo rilievo alla riscontrata inesistenza, in punto di fatto, di un unico incarico professionale che la società opponente aveva affidato all’avv. V., non si è, evidentemente, attenuta al principio esposto: e dev’essere, quindi, in parte qua, cassata, con assorbimento di tutti gli altri motivi.

17. Il principio di diritto in precedenza affermato induce, peraltro, ad escludere ogni rilievo alla sentenza n. 17156/2017, passata in giudicato, con la quale, in data 13/9/2017, il tribunale di Roma ha accertato l’esistenza di un unico rapporto professionale tra l’opponente e l’avv. V. pur a fronte di distinte procure difensive ed ha, quindi, dichiarato l’improponibilità di una delle azioni recuperatorie proposte da quest’ultimo proprio in quanto frutto dell’indebito frazionamento dell’unico credito ad esso riconducibile. La natura meramente processuale del vizio conseguente alla violazione del divieto di indebito frazionamento del credito, vale a dire l’improponibilità della domanda, esclude, invero, che la statuizione che ne abbia affermato la sussistenza, contenuta in una sentenza pronunciata in altro giudizio tra le stesse parti e passata in giudicato, possa esplicare efficacia preclusiva di una sua differente soluzione in altro giudizio, pendente tra le stesse parti, in cui, come quello in esame, la medesima questione sia stata dedotta o comunque rilevata. La statuizione su una questione processuale dà luogo, in effetti, ad un giudicato meramente formale ed ha, come tale, un’efficacia preclusiva limitatamente al giudizio in cui è stata pronunciata (cfr. Cass. n. 23130 del 2020; n. 10641 del 2019; Cass. n. 7303 del 2012; Cass. n. 22212 del 2004; Cass. n. 17248 del 2003)/ ma non impedisce nè che la medesima questione sia riproposta in un successivo giudizio tra le stesse parti, nè, a fortiori, che, in quest’ultimo giudizio, la predetta questione sia, com’è accaduto nel caso in esame, diversamente risolta, dichiarando, cioè, la proponibilità della domanda.

18. Deve, infine, escludersi ogni rilievo al fatto che la sentenza sia stata resa con la partecipazione al collegio di un giudice ausiliario, trattandosi di questione che non è stata fatta valere nel presente giudizio secondo le regole proprie dei mezzi di impugnazione (cfr. Cass. n. 27923 del 2018). Il Collegio, peraltro, non ignora che questa Corte, con due distinte ordinanze del 9/12/2019, ha sollevato le questioni di legittimità costituzionale del D.L. n. 69 del 2013, art. 62, comma 1, art. 65, commi 1 e 4, art. 66, art. 67, commi 1 e 2, art. 68, comma 1, e art. 72, comma 1, conv. con modif. nella L. n. 98 del 2013, nella parte in cui conferiscono al giudice ausiliario di appello lo status di componente dei collegi delle sezioni della Corte d’appello. Senonchè, con la recente sentenza n. 41 del 2021, la Corte costituzionale, pur dichiarando incostituzionali le predette norme che hanno previsto, come magistrati onorari, i giudici ausiliari presso le Corti d’appello, ha stabilito che esse potranno, tuttavia, continuare ad avvalersi legittimamente dei giudici ausiliari per ridurre l’arretrato fino a quando, entro la data del 31/10/2025, si perverrà ad una riforma complessiva della magistratura onoraria, nel rispetto dei principi costituzionali. Fino ad allora, la “temporanea tollerabilità costituzionale” dell’attuale assetto è volta ad evitare l’annullamento delle decisioni pronunciate con la partecipazione dei giudici ausiliari e a non privare immediatamente le Corti d’appello dell’apporto di questi giudici onorari per la riduzione dell’arretrato nelle cause civili.

19. Il ricorso dev’essere, pertanto, accolto e la sentenza impugnata, per l’effetto, cassata con rinvio, per un nuovo esame, alla Corte d’appello di Roma che, in differente composizione, si atterrà al principio di diritto enunciato e provvederà anche sulle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte così provvede: accoglie il primo motivo di ricorso, assorbiti gli altri; cassa, in relazione al motivo accolto, la sentenza impugnata con rinvio, per un nuovo esame, alla Corte d’appello di Roma che, in differente composizione, provvederà anche sulle spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Seconda Sezione Civile, il 27 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 24 maggio 2021

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