Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14142 del 11/07/2016

Cassazione civile sez. VI, 11/07/2016, (ud. 12/05/2016, dep. 11/07/2016), n.14142

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – rel. Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 1560/2015 proposto da:

C.S., + ALTRI OMESSI

elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA ENNIO QUIRINO VISCONTI 103, presso lo

studio dell’avvocato LUISA GOBBI, rappresentati e difesi

dall’avvocato FRANCESCO CATALDO giusta procura a margine del

ricorso;

– ricorrenti –

contro

AMT – AZIENDA MUNICIPALE TRASPORTI DI CATANIA, in persona del

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA ENNIO QUIRINO VISCONTI 20, presso lo studio dell’avvocato

MARIO ANTONINI, rappresentata e difesa dall’avvocato FRANCESCO

ANDRONICO gisuta procura speciale in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1380/2013 della CORTE D’APPELLO di CATANIA,

depositata l’08/01/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

12/05/2016 dal Consigliere Relatore Dott. ROSA ARIENZO;

udito l’Avvocato Francesco Cataldo difensore dei ricorrenti che ha

chiesto l’accoglimento del ricorso.

Fatto

FATTO E DIRITTO

La causa è stata chiamata all’adunanza in camera di consiglio del 12.5.2016, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., sulla base della seguente relazione, redatta a norma dell’art. 380 bis c.p.c.:

“Con la sentenza impugnata, la Corte di appello di Catania confermava la decisione del Tribunale in sede di rigetto della domanda proposta, tra gli altri, dagli attuali ricorrenti nei confronti dell’ATM –

Azienda Municipale Trasporti di Catania – ed intesa ad ottenere il computo nella retribuzione parametro utile alla determinazione della maggiorazione del 10% per compenso del lavoro straordinario dell’indennità giornaliera di Lire 1000, dell’indennità domenicale di Lire 11.250 di cui al n. 5 lett. a) e b) dell’accordo nazionale 21.5.1981 e del premio di produttività di Lire 7.500 fino al 31.7.1994 e di Lire 17.500 per il periodo successivo.

Riteneva la Corte, in conformità ad altre precedenti statuizioni della Corte di legittimità, che, fermo il principio di omnicomprensività della retribuzione assunto dall’art. 2108 c.c., in relazione al R.D. n. 692 del 1923, art. 5, ai fini del calcolo del compenso per lavoro straordinario, dovevano ritenersi nulle le clausole della contrattazione collettiva applicabile che adottassero una più ristretta base di calcolo, salva l’ipotesi che il diverso sistema di computo adottato dalla contrattazione collettiva assicurasse al lavoratore un trattamento economico pari o superiore a quello derivantegli dall’applicazione dei criteri legali. Osservava che nel caso in esame sussisteva un limite normativo all’autonomia contrattuale laddove il combinato disposto dell’art. 2108 c.c. e del cit. R.D. n. 692 del 1923, art. 5, prevedeva che il compenso per straordinario andava computato a parte e remunerato con un aumento di paga su quella del lavoro ordinario non inferiore al 10%, ma che non fossero computabili nella base di calcolo i compensi da ritenere straordinari o per loro natura o per patto espresso.

Premesso che le indennità di cui all’accordo nazionale 21.5.1981 e quella per lavoro domenicale erano espressamente previste come non facenti parte della retribuzione normale e che l’accordo aziendale 23.12.1991 aveva ugualmente previsto l’esclusione dell’indennità giornaliera di presenza dalla retribuzione normale, stabilendo che la stessa fosse legata ad effettive e particolari prestazioni, doveva ritenersi non in contrasto con l’art. 2108 c.c. e con il R.D. n. 692 del 1923, art. 5, la previsione contrattuale che escludeva tali voci dalla normale retribuzione, al di là della continuità della relativa erogazione, in ragione della funzione compensativa attribuita a tali indennità per il particolare disagio del lavoro in turni, o per la penosità del lavoro domenicale, ovvero per la funzione attribuita al premio di produttività (indennità di presenza) di disincentivo dell’assenteismo.

Per la cassazione di tale decisione propongono ricorso i lavoratori affidato a quattro motivi.

L’AMT resiste con controricorso.

Con il primo motivo di ricorso, si deduce violazione degli artt. 112 e 277 c.p.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c. , n. 4) per avere la Corte di Appello omesso di pronunciarsi sul secondo motivo di gravame con il quale era stata censurata la decisione del Tribunale nella parte in cui aveva dichiarato prescritte le pretese anteriori al quinquennio dalla data di notifica del ricorso. Ed infatti, nell’appello si evidenziava che il primo giudice non aveva tenuto conto della documentazione ritualmente prodotta in giudizio, in particolare dei ricorsi gerarchici presentati dai ricorrenti che avevano interrotto il decorso del detto termine prescrizionale.

Con il secondo motivo, viene denunziata la violazione degli artt. 112 e 277 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, sul rilievo che il giudice d’appello ha sostituito l’azione proposta con una diversa causa petendi, con l’introduzione di un diverso titolo e di un nuovo tema di indagine sulla base di fatti diversi da quelli posti dalle parti. Ed invero, i lavoratori avevano osservato che la normativa applicata dall’azienda fissava nella misura del 10% la maggiorazione per il lavoro ordinario (art. 11 ccnl 12.3.1980) sì che la identità di misura della maggiorazione legale e di quella convenzionale determinava che la esclusione degli elementi retributivi indicati dalla base di calcolo incideva nel senso che la misura del compenso per il lavoro straordinario fosse inferiore a quella voluta dalle citate disposizioni di legge, non essendovi nessun dubbio sulla natura retributiva degli emolumenti indicati dai ricorrenti, dovendo la retribuzione base essere intesa come la esatta quota oraria di tutto quel complesso di voci ed indennità a carattere fisso, continuativo ed obbligatoriamente gravanti sul datore di lavoro per legge o per contratto. Osservano i ricorrenti che, non avendo l’azienda convenuta contestato i fatti esplicitati ed indicati in ricorso, era incontroversa tra le parti la natura retributiva delle indennità di cui era stato chiesto il conglobamento nella base di computo ai fini del calcolo della maggiorazione contrattuale del 10% per lavoro straordinario, ragion per cui l’oggetto del giudizio era limitato unicamente allo stabilire se le predette indennità entrassero o meno nella retribuzione-

parametro per il calcolo della maggiorazione del 10% stabilita per lo straordinario. Pertanto, erano del tutto estranee al thema decidendum le statuizioni del giudice di appello circa: la distinzione tra “lavoro straordinario contrattuale” e “lavoro straordinario legale” (distinzione mai inserita nella domanda); il riconoscimento del diritto alla maggiorazione del 10% (negato con riferimento al “lavoro straordinario contrattuale”); la determinazione della misura dello “straordinario contrattuale”, ritenuta interamente rimessa alla contrattazione collettiva; la verifica, con riferimento allo “straordinario legale”, della natura retributiva o meno delle indennità di cui era stata chiesta l’inclusione nella retribuzione-

parametro.

Con il terzo motivo, viene dedotta, in via subordinata, la violazione e falsa applicazione dell’art. 2108 c.c., commi 1 e 3 degli artt. 1362, 1363 e 1366 c.c., in relazione: al testo unico ccnl 23.7.1976 art. 6 lett. c); al ccnl 12.3.1980 artt. 1, 9 e art. 11, commi 1 e 5;

all’accordo nazionale 21 maggio 1981 art. 5 lett. a) e b);

all’accordo 17 giugno 1982 sub 1984 punto 2, lett. a) e b);

all’accordo aziendale 23.12.1991, punto 2 e all’accordo aziendale 20.7.1994, punto 1 e 3 (ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), osservandosi che il giudice di appello ha disapplicato i consolidati principi giurisprudenziali secondo i quali all’autonomia contrattuale è inibito escludere uno o più elementi dalla retribuzione, da assumere a base del calcolo per la determinazione di un emolumento, nel caso in cui è la stessa legge a fissare gli inderogabili criteri per la determinazione della retribuzione da porre a base del calcolo dello stesso.

Si sostiene che, alla stregua di tali principi, nella retribuzione normale, da prendere a base del calcolo per la determinazione del compenso del lavoro straordinario, vada incluso ogni elemento retributivo continuativo, obbligatorio, predeterminato o predeterminabile, che sia ordinario e normale e che vanno pacificamente esclusi compensi non continuativi, ma anche compensi straordinari anche se di fatto continuativi, che sono, per loro natura, o per espressa volontà delle parti, predeterminati nella durata o che risultino collegati ad elementi sempre revocabili o costituiscano modalità accidentali o straordinarie del rapporto lavorativo, evidenziandosi che tali consolidati principi giurisprudenziali sono stati puntualmente disapplicati in base al rilievo che l’autonomia contrattuale non incontri limite alcuno.

Quest’ultima, secondo i ricorrenti, trova, invece, pur sempre, nel vigente ordinamento, un insuperabile limite nella legge, posto che, quando è necessario determinare la retribuzione ai fini del compenso di un emolumento istituito direttamente dal legislatore, come è per lo straordinario, devono necessariamente concorrere a formarne la base tutti quegli emolumenti che possiedono ontologicamente carattere retributivo, con la conseguente nullità di qualsiasi pattuizione più ristretta. Aggiungono che la base di computo dello straordinario, come nell’ipotesi regolata dagli artt. 2120 e 2121 c.c., è inderogabilmente preordinata e che l’autonomia contrattuale può esplicarsi nei regolamenti individuali e collettivi soltanto sulla determinazione percentuale dell’aumento, oltre la misura minima del 10%.

Con il quarto motivo si deduce violazione dell’art. 91 c.p.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3) in quanto “stante la fondatezza della domanda è illegittima la statuita compensazione delle spese e dei compensi di giudizio”.

Il primo motivo è infondato (oltre che inammissibile per difetto di interesse) stante il rigetto, per le ragioni di seguito esposte, degli altri motivi di ricorso.

Ed infatti, la Code di Appello, dopo aver rigettato il primo motivo di gravame ed avere, quindi, ritenuto inesistente il diritto degli appellanti alle invocate differenze retributive ha, evidentemente, considerato inutile stabilire se lo stesso si fosse o meno prescritto e, dunque, non ha proceduto alla disamina del secondo motivo di gravame. In altri termini, non si è in presenza di una omessa pronuncia (se non in senso solo formale), in quanto, il rigetto del primo motivo di appello comportava, logicamente, l’assorbimento del secondo.

Il secondo motivo è infondato.

Dalla complessiva lettura della sentenza impugnata emerge che la Corte di Appello ha ben inquadrato l’oggetto del decidere, ovvero l’individuazione della retribuzione parametro sulla quale calcolare la percentuale di aumento del 10% della paga oraria stabilita dalla disposizione di legge.

Ed infatti, con il richiamo alla pronuncia di questa Corte n. 3932/2001, il giudice dell’appello ha evidenziato la necessità della operazione interpretativa per individuare quale sia la “paga del lavoro ordinario”, che è la base del calcolo dello straordinario, con conseguente rilevanza dei contratti collettivi e cioè degli strumenti tipici per la determinazione di detta “paga”, sia ordinaria, come compenso del lavoro, che straordinaria per compensare prestazioni particolari, rischi, disagi specifici e tutte le situazioni meritevoli di tutela individuate dalle parti sociali, senza che sia possibile individuare un criterio astratto di ordinarietà del lavoro ed onnicomprensività dei compensi – purchè continui, obbligatori e determinabili – che giustifichi la declaratoria di nullità di tutte le clausole (cfr. Cass. 3932/2001 cit.).

Proprio alla stregua di tale principio, la Corte del merito ha affermato che, se non è consentito alla contrattazione collettiva escludere dalla paga ordinaria voci che abbiano effettivamente la natura di retribuzione, è anche vero che per valutare in concreto quando tale situazione ricorra non può prescindersi da una interpretazione del contratto, sicchè, qualora la voce retributiva abbia la funzione di compensare prestazioni particolari e disagi specifici o situazioni particolari meritevoli di tutela, l’esclusione della stessa dalla retribuzione normale al fine della determinazione del compenso per lavoro straordinario non può considerarsi in contrasto con l’art. 2108 c.c. e R.D. n. 692 del 1923, art. 5.

Atteso il concetto di onnicomprensività della retribuzione assunto dall’art. 2108 c.c., in relazione del R.D.L. 15 marzo 1923, n. 692, art. 5, ai fini del calcolo del compenso per lavoro straordinario, la retribuzione da assumere a base del calcolo deve includere le quote delle mensilità aggiuntive ed ogni altro elemento retributivo (normale ed ordinario) continuativo, obbligatorio e predeterminato o predeterminabile, eccettuati i compensi straordinari per loro natura o per patto espresso, anche se di fatto continuativamente corrisposti. Le clausole della contrattazione collettiva applicabile, che adottino una più ristretta base di calcolo, sono, pertanto, nulle – per contrarietà alle norme imperative degli articoli citati – e sostituite di diritto, ai sensi dell’art. 1419 c.c., comma 2, salva l’ipotesi che il diverso sistema di computo adottato dalla contrattazione collettiva assicuri al lavoratore un trattamento economico pari o superiore a quello derivantegli dall’applicazione dei criteri legali (cfr. Cass. 3932/2001, Cass. 27312/2008).

Orbene, la ricostruzione interpretativa adottata nella sentenza impugnata è tale da condurre alla conclusione, sfavorevole per i lavoratori, che dalla stessa applicazione dei criteri legali derivava l’esclusione dalla base di computo dello straordinario richiesto di compensi straordinari per loro natura legati a particolari disagi o peculiarità della prestazione. Quindi la parificazione della percentuale del 10% prevista in sede contrattuale a quella legale non incideva nel senso di determinare un trattamento economico necessariamente deteriore rispetto a quello legale.

Nè il richiamo al principio di non contestazione della natura retributiva delle indennità in questione è idonea a dimostrare l’erroneità del percorso argomentativo e decisionale della pronuncia impugnata, posto che il carattere retributivo delle indennità de quibus non sta ad indicare che i relativi compensi rientrino nella retribuzione per il lavoro ordinario, ove le indennità medesime, per la relativa funzione e caratteristiche, siano rivolte a compensare particolari prestazioni e disagi specifici ovvero situazioni particolari, come evidenziato dalla Corte, meritevoli di tutela, sì che la loro esclusione dalla retribuzione normale al fine della determinazione del compenso per lavoro straordinario correttamente è stata ritenuta non in contrasto con l’art. 2108 c.c. e R.D. n. 692 del 1923, art. 5.

Va, inoltre, precisato che il richiamo contenuto nella impugnata sentenza alla distinzione tra cd. “lavoro straordinario convenzionale” e “lavoro straordinario legale” rientrava nell’ambito della ricostruzione del panorama giurisprudenziale sulla retribuzione dello straordinario ma non ha comportato affatto, come invece si assume nel motivo, che il giudice dell’appello abbia inserito inammissibilmente una distinzione all’interno della originaria domanda tra i due predetti tipi di “lavoro straordinario” e, quindi, abbia rigettato la domanda concernente lo “straordinario contrattuale” affermando che quest’ultimo ben poteva essere retribuito con una maggiorazione inferiore al 10% e in una misura interamente demandata alla contrattazione collettiva.

Peraltro, deve, in maniera assorbente, rilevarsi che l’onere di specifica contestazione, nelle controversie di lavoro, dei fatti allegati dall’attore, previsto dall’art. 416 c.p.c., comma 3, al cui mancato adempimento consegue l’effetto dell’inopponibilità della contestazione nelle successive fasi del processo e, sul piano probatorio, quello dell’acquisizione del fatto non contestato ove il giudice non sia in grado di escluderne l’esistenza in base alle risultanze ritualmente assunte nel processo, si riferisce ai fatti affermati dall’attore a fondamento della domanda, ovvero ai fatti materiali che integrano la pretesa sostanziale dedotta in giudizio, e non si estende, perciò, alle circostanze che implicano un’attività di giudizio (Cfr. Cass. 15.5.2007 n. 11108). Pertanto erroneamente nella censura si conferisce rilievo alla circostanza della non contestazione da parte dell’AMT della natura retributiva delle indennità in questione, trattandosi di delineare, attraverso una attività interpretativa e valutativa, il concetto di retribuzione dovuta per il lavoro ordinario, utile ai fini della individuazione della retribuzione parametro per lo straordinario e per il controllo del rispetto della percentuale del 10% prevista dal R.D. n. 692 del 1923, art. 5.

Infondato è anche il terzo motivo di ricorso.

Come sopra esposto, proprio in applicazione di principi giurisprudenziali nuovamente richiamati nel motivo, la Corte di merito ha verificato se le indennità di cui era stato chiesto il conglobamento nella retribuzione-parametro per il calcolo della maggiorazione del 10% per il lavoro straordinario fossero incluse nella “retribuzione normale” o, piuttosto, non fossero compensi straordinari anche se di fatto continuativi che sono, per loro natura, o per espressa volontà delle parti, predeterminati nella durata o che risultino collegati ad elementi sempre revocabili o costituiscano modalità accidentali o straordinarie del rapporto lavorativo. Così operando ha escluso – sulla scorta delle chiare ed inequivoche disposizioni contrattuali, escludenti qualsiasi altro tipo di interpretazione se non quella letterale – che: le indennità previste dall’art. 5, lett. a) e b) del accordo nazionale del 1981 erano escluse espressamente dalla “retribuzione normale” e non avevano una applicazione generale essendo riconosciute al personale viaggiante e al rimanente personale che presta servizio in turni avvicendati e per la prestazione del lavoro la domenica e sempre che non coincidano con il mancato riposo e per ogni effettiva giornata lavorativa; l’indennità giornaliera di presenza – introdotta dall’accorso del 23.12.1981 e, poi, rideterminata nell’importo dall’accordo del 1994 – parimenti era espressamente esclusa dalla “retribuzione normale” ed era un premio di produttività subordinato ad un comportamento del lavoratore (la presenza in servizio) e volto a disincentivare l’assenteismo e, dunque, era perfettamente legittima l’esclusione di tale voce dalla retribuzione normale in quanto avente una funzione premiale e non volta a compensare il lavoro.

Peraltro, vale ricordare che ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti, il primo e principale strumento è rappresentato senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate nel contratto, con la conseguente preclusione del ricorso ad altri criteri interpretativi, quando la comune volontà delle parti emerga in modo certo ed immediato dalle espressioni adoperate e sia talmente chiara da precludere la ricerca di una volontà diversa (cfr, ex plurimis, Cass., 22 dicembre 2005, n. 28479; Cass., 22 febbraio 2007, n 4176; Cass., 4 gennaio 2013, n. 110).

Infine, infondato (oltre che incomprensibile) risulta in quarto motivo in quanto la domanda era stata rigettata perchè infondata e, dunque, la Corte di merito ha ritenuto di non applicare il principio della soccombenza – che avrebbe comportato la condanna alle spese degli attuali ricorrenti – bensì, di procedere alla compensazione delle spese di lite.

Alla luce di quanto esposto di propone il rigetto del ricorso, con ordinanza ex art. 375 c.p.c., n. 5″.

Sono seguite le rituali comunicazioni e notifica della suddetta relazione, unitamente al decreto di fissazione della presente udienza in Camera di consiglio.

Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 380 bis c.p.c., comma 2, ciascuna sostanzialmente ribadendo le ragioni già esposte, rispettivamente, nel ricorso e nel controricorso.

Osserva il Collegio che il contenuto della sopra riportata relazione è pienamente condivisibile in quanto in linea con i precedenti di questa Corte e, in particolare, con la pronuncia n. 3932/2001 (relativa ad un caso assimilabile al presente in cui dipendenti dell’AMT di Catania chiedevano l’inclusione nella base di calcolo dello straordinario di emolumenti accessori aventi carattere fisso e continuativo, caso poi conclusosi definitivamente con il rigetto della domanda dei lavoratori giusta Cass., 17 novembre 2008, n. 27312).

In effetti, per ritenere illegittimamente escluse indennità, emolumenti ed altre voci non è rilevante la continuità della relativa corresponsione, che, secondo i ricorrenti ne imporrebbe la considerazione tra gli elementi della normale retribuzione, quanto piuttosto occorre verificare se gli stessi siano inclusi nella retribuzione “normale” secondo quanto stabilito dal contratto collettivo, dovendo dalla stessa rimanere escluse quelle voci che, per la relativa funzione e caratteristiche, siano rivolte a compensare particolari prestazioni e disagi specifici ovvero situazioni particolari meritevoli di tutela, anche se di fatto corrisposte con continuità (v. Cass. n. 27312/2008 cit.). E tale indagine, come esposto nella relazione, risulta essere stata correttamente condotta dalla Corte di merito attraverso l’interpretazione della normativa contrattuale.

Alla luce di quanto esposto il ricorso va rigettato.

Le spese del presente giudizio, per il principio della soccombenza, sono poste a carico dei ricorrenti e vengono liquidate come da dispositivo.

Sussistono i presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto del D.P.R. 30 maggio, art. 13, comma 1 quater, introdotto della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge di stabilità 2013).

Tale disposizione trova applicazione ai procedimenti iniziati in data successiva al 30 gennaio 2013, quale quello in esame, avuto riguardo al momento in cui la notifica del ricorso si è perfezionata, con la ricezione dell’atto da parte del destinatario (Sezioni Unite, sent.

n. 3774 del 18 febbraio 2014). Inoltre, il presupposto di insorgenza dell’obbligo del versamento, per i ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, del gravame (Cass. n. 10306 del 13 maggio 2014).


La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti a pagare all’AMT le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 100,00 per esborsi, Euro 3.600,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, nonchè al rimborso delle spese forfetarie nella misura del 15%. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 12 maggio 2016.

Depositato in Cancelleria il 11 luglio 2016

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