Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14125 del 24/05/2021

Cassazione civile sez. II, 24/05/2021, (ud. 08/01/2021, dep. 24/05/2021), n.14125

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – rel. Presidente –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 21386/2019 proposto da:

S.Y., rappresentato e difeso dall’avv. LIVIO NERI;

– ricorrente –

e contro

MINISTERO DELL’INTERNO, COMMISSIONE TERRITORIALE RI CONOSCIMENTO

PROTEZIONE INTERNAZIONALE, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

DEI PORTOGHESI 12, presso AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo

rappresenta e difende;

– resistente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di BRESCIA, depositata il

05/06/2019;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

08/01/2021 dal Consigliere e Presidente Dott. FELICE MANNA.

 

Fatto

RITENUTO IN FATTO

S.Y., cittadino (OMISSIS), proponeva ricorso innanzi al Tribunale di Brescia avverso la decisione della locale Commissione territoriale, che aveva respinto la sua richiesta di protezione internazionale o umanitaria. A sostegno della domanda deduceva di essere fuggito dal suo Paese in seguito ad un’aggressione collegata alla volontà di terzi di appropriarsi degli immobili relitti dal padre.

Il Tribunale con Decreto 5 giugno 2019, n. 3144, rigettava la domanda.

In particolare, e per quanto ancora rileva in questa sede di legittimità, respinta la domanda di protezione internazionale, riteneva non sussistenti le condizioni della protezione umanitaria (applicabile ratione temporis), per mancata allegazione di fattori diversi da quelli esaminati per la protezione internazionale, per i quali aveva espresso un giudizio d’infondatezza per l’inattendibilità del racconto del richiedente. Osservava che, in ogni caso, operando una valutazione comparativa tra l’attuale situazione del richiedente in Italia e quella vissuta da lui nel Paese d’origine, non poteva prevedersi una menomazione dei diritti umani fondamentali al di sotto dello statuto della dignità umana. Il richiedente, infatti, non manifestava problemi di salute, aveva piena capacità lavorativa ed era, altresì, scolarizzato, mentre nel Paese d’accoglienza aveva quale unico supporto la struttura ospitante. Nè poteva ritenersi idonea ad accordare la protezione umanitaria la sola fattiva volontà d’inserimento nel contesto sociale del Paese ospitante, consistente in un contratto di lavoro a tempo determinato scadente il 15.11.2019.

Avverso tale pronuncia il richiedente propone ricorso, affidato a due motivi.

Il Ministero dell’Interno ha depositato un “atto di costituzione”, in vista della partecipazione alla discussione orale.

Avviato alla trattazione camerale ex art. 380-bis.1 c.p.c., il ricorso è stato poi rimesso alla pubblica udienza.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. – Il primo motivo lamenta, in relazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, l’omesso esame di fatti decisivi, ai fini della domanda di protezione umanitaria, e oggetto di discussione tra le parti, consistenti nella: a) disponibilità di un reddito da lavoro di 1.660,00 Euro medie mensili, superiore alla misura dell’assegno sociale richiesto per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi di lavoro; h) elevata conoscenza della lingua italiana; c) integrazione nella comunità locale. Inoltre, nell’operare il giudizio di comparazione il Tribunale non avrebbe considerato la difficile situazione economica della Costa d’Avorio, l’assenza ivi di riferimenti affettivi o familiari per il richiedente, le seriali violazioni dei diritti umani commesse in quel Paese e le sofferenze patite nel percorso migratorio tramite la Libia.

2. – Il secondo motivo allega, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3 e art. 32, comma 3, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19, art. 10 Cost., comma 3 e art. 8 CEDU. Il Tribunale, si sostiene, non avrebbe verificato, a stregua del giudizio di comparazione richiesto da Cass. n. 4455/18, se il rimpatrio esporrebbe il richiedente alla privazione, al di sotto del nucleo costitutivo ineliminabile dello statuto della dignità personale, dell’esercizio dei diritti umani, creando un’incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita nel Paese d’accoglienza e in quello d’origine.

3. – Entrambi i motivi, da esaminare congiuntamente per il loro carattere complementare, sono infondati.

Con l’ordinanza n. 4455/18 questa Corte ha affermato che, in materia di protezione umanitaria, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza. (In applicazione del principio, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che, in assenza di comparazione, aveva riconosciuto ad un cittadino gambiano presente in Italia da oltre tre anni il diritto al rilascio del permesso di soggiorno in ragione della raggiunta integrazione sociale e lavorativa in Italia allegando genericamente la violazione dei diritti umani nel Paese d’origine).

A tal fine, il giudice è chiamato a verificare l’esistenza di seri motivi che impongano di offrire tutela a situazioni di vulnerabilità individuale, anche esercitando i poteri istruttori ufficiosi a lui conferiti, ma è necessario che il richiedente indichi i fatti costitutivi del diritto azionato e cioè fornisca elementi idonei a far desumere che il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani al di sotto del nucleo ineliminabile, costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza (v. n. 13573/20).

Fatti costitutivi che, a loro volta, devono essere irrelati o alle situazioni di vulnerabilità di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 2, comma 1, lett. h-bis), o ad un effettivo e già attuato radicamento del richiedente nella realtà socio-economica del Paese d’accoglienza, per il quale non è sufficiente il solo svolgimento di attività lavorativa.

Situazioni tutte di cui, nella fattispecie, il Tribunale ha motivatamente escluso la ricorrenza, osservando che il richiedente non ha problemi di salute, possiede piena capacità lavorativa, è scolarizzato, mentre nel nostro Paese ha quale unico supporto la struttura ospitante. I giudici di merito hanno, altresì, osservato che la fattiva volontà d’inserimento del richiedente nel contesto sociale del Paese ospitante effettuato nei mesi compresi tra la richiesta di protezione internazionale e il suo rigetto (consistente nel caso di specie di un contratto di lavoro a tempo determinato scadente il 15.11.2019), non potendo detto elemento essere da solo idoneo a giustificare il rilascio del permesso in oggetto, proprio in applicazione dei principi espressi nella citata pronuncia n. 4455/18 di questa Corte.

Trattasi di apprezzamento di merito insindacabile nel suo complesso, rispetto al quale le doglianze del ricorrente, nessuna delle quali decisiva nel fatto allegato (in particolare, non è specificato di qual tipo di rapporto di lavoro il richiedente avrebbe la disponibilità: v. pag. 9 del ricorso), rinviano ad un’ipotetica diversa valutazione che non è possibile operare in questa sede.

Nè, infine, assume rilievo l’allegazione, del tutto generica, delle sofferenze patite e del rischio di morte affrontato durante il lungo percorso migratorio, specialmente quando il richiedente si sarebbe “trovato nel contesto della grave crisi (umanitaria) libica” (così a pag. 10 del ricorso).

Infatti, il permesso di soggiorno per motivi umanitari non può essere accordato automaticamente per il solo fatto che il richiedente abbia subito violenze o maltrattamenti nel paese di transito, ma solo se tali violenze per la loro gravità o per la durevolezza dei loro effetti abbiano reso il richiedente “vulnerabile” ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5; ne consegue che è onere del richiedente allegare e provare come e perchè le vicende avvenute nel paese di transito lo abbiano reso vulnerabile, non essendo sufficiente che in quell’area siano state commesse violazioni dei diritti umani (n. 28781/20).

4. – Il ricorso va, dunque, respinto.

5. – Le spese, liquidate come in dispositivo (limitatamente alle voci di studio della controversia e partecipazione alla discussione), seguono la soccombenza del ricorrente.

6. – Ricorrono i presupposti processuali per il raddoppio, a carico del ricorrente, del contributo unificato, se dovuto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese, che liquida in Euro 1.800,00, oltre spese prenotate e prenotande a debito.

Sussistono a carico del ricorrente i presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 8 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 24 maggio 2021

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