Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14124 del 11/07/2016


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Cassazione civile sez. VI, 11/07/2016, (ud. 12/05/2016, dep. 11/07/2016), n.14124

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21416/2014 proposto da:

ENTE AUTONOMO VOLTURNO S.R.L., (C.F. (OMISSIS)), quale società

incorporante la CIRCUMVESUVIANA, FERROVIA AUTOLINEE E FUNIVIA

S.R.L., in persona del Presidente e legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, V.LE MAZZINI 134,

presso lo studio dell’avvocato LUIGI FIORILLO, rappresentata e

difesa dall’avvocato MARCELLO D’APONTE giusta procura in calce al

ricorso;

– ricorrente –

contro

A.A.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 1667/2014 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI del

25/2/2014, depositata l’11/3/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

12/5/2016 dal Consigliere Relatore Dott. CATERINA MAROTTA.

Fatto

FATTO E DIRITTO

1 – Il Consigliere relatore, designato ai sensi dell’art. 377 c.p.c., ha depositato in cancelleria la seguente relazione ex artt. 380 bis e 375 c.p.c., ritualmente comunicata:

“Il lavoratore attualmente intimato, dipendente della s.r.l.

Circumvesuviana, Ferrovia, Autolinee e Funivia, azienda concessionaria del servizio di trasporto regionale, con mansioni di conducente di autobus addetto sia alla guida che al rilascio dei biglietti con incasso (agente unico), agiva per il riconoscimento del diritto alle differenze economiche per il mancato adeguamento della predetta indennità nel tempo e per avere svolto, nella medesima giornata lavorativa, il doppio turno di servizio nelle mansioni di agente unico. Il giudice di primo grado respingeva la domanda. La Corte territoriale, per quanto qui rileva, accoglieva parzialmente il gravame svolto dal lavoratore riconoscendo il diritto al preteso adeguamento (per ogni giornata di prestazione e non per ogni turno).

La controversia riguarda esclusivamente i criteri di calcolo di tale indennità: il datore di lavoro sostiene la correttezza del proprio comportamento alla stregua degli accordi in materia e della contrattazione collettiva nazionale che ne ha sancito il congelamento.

La tesi del lavoratore (fatta propria dalla Corte territoriale) ravvisa nelle fonti regionali, normative e deliberative, che hanno proposto il sistema dell’agente unico, il riferimento normativo dal quale evincere il sistema di contabilizzazione dell’emolumento del quale, con accordo aziendale del 18.11.1988, le OO.SS. e la Circumvesuviana avevano espressamente stabilito l’adeguamento a quanto previsto dalla normativa regionale secondo le date dalla stessa previste.

Avverso tale sentenza l’Ente Autonomo Volturno (E.A.V.) s.r.l.

(società incorporante la s.r.l. Circumvesuviana, Ferrovia, Autolinee e Funivia), ha proposto ricorso per Cassazione, affidato ad un motivo.

Il lavoratore non ha svolto attività difensiva.

Occorre premettere, quanto alle censure che investono il capo della sentenza impugnata relativo all’adeguamento dell’indennità di agente unico, che l’articolato mezzo di impugnazione devolve, alla Corte, la denuncia di non corretta interpretazione delle norme di diritto applicabili alla fattispecie ed insufficiente e inadeguata motivazione su un punto decisivo della controversia.

Le censure, al di là dell’erroneo riferimento al thema decidendum che si assume costituito dall’accertamento del diritto alla sussistenza del diritto al riconoscimento dell’indennità relativa al doppio turno di servizio (invero esclusa dalla Corte partenopea che ha riconosciuto il diritto all’indennità in questione solo per ogni giornata di effettiva presenza e dunque non per ogni turno di lavoro), nella sostanza, attengono alla pretesa violazione ovvero falsa applicazione dei contratti o accordi collettivi di lavoro che, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, come modificato del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 2, è parificata, sul piano processuale, a quella delle norme di diritto.

Ciò comporta, in questa sede di legittimità, l’interpretazione delle relative clausole in base alle norme codicistiche di ermeneutica negoziale (artt. 1362 c.c. e segg.) come criterio interpretativo diretto e non come canone esterno di commisurazione dell’esattezza e della congruità della motivazione, senza più necessità, a pena di inammissibilità della doglianza, di una specifica indicazione delle norme asseritamente violate e dei principi in esse contenuti, nè del discostamento, da parte del giudice di merito, dai canoni legali assunti come violati o di una loro applicazione sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti. In tali termini si è, recentemente, espressa questa Corte, con la sentenza del 19 marzo 2014, n. 6335, il cui orientamento va condiviso e ribadito, in evidente discontinuità con il precedente insegnamento giurisprudenziale secondo cui l’interpretazione dei contratti collettivi di lavoro, in sede di legittimità, integrerebbe un’indagine di fatto riservata al giudice di merito, censurabile dinanzi alla Corte di cassazione nella sola ipotesi di motivazione inadeguata, ovvero di violazione dei canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 c.c. e segg., sicchè, per una corretta denuncia dei due profili, il ricorrente per cassazione dovrebbe fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, precisando altresì in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti (Cass. 15 aprile 2013, n. 9054; Cass. 15 aprile 2013, n. 9070; Cass. 9 ottobre 2012, n. 17168).

Deve dunque ritenersi che, nel regime processuale speciale introdotto dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, applicabile ratione temporis, la denuncia di violazione o falsa applicazione dei contratti ed accordi collettivi nazionali accomuni questi alle fonti di diritto oggettivo, limitatamente al sindacato esperibile in sede di legittimità.

Il riferimento, nella norma del codice di rito, ai soli contratti ed accordi collettivi “nazionali”, esclude, dalla predetta assimilazione, gli atti di autonomia collettiva che non presentino tale requisito (Cass. n. 15923 del 2004, n. 19367 del 2007, n. 2625, n. 2742 e n. 3459 del 2010).

Tanto premesso, nel ricorso all’esame della Corte, richiamati, per relationem, i passaggi salienti della sentenza impugnata, vengono genericamente devoluti, dalla parte ricorrente, mezzi d’impugnazione affidati, in rubrica, a mera clausola di stile, evocative della generica “non corretta interpretazione delle norme di diritto applicabili alla fattispecie” (così in ricorso) senza che al compendio delle generiche censure facciano seguito le previsioni, negoziali collettive e normative, che si reputano disattese dalla Corte territoriale.

In altre parole, nella pur ampia illustrazione della complessa vicenda, non viene enunciato e chiarito il fondamento normativo e negoziale collettivo, nazionale o aziendale, disatteso dalla Corte territoriale nell’accogliere la domanda del lavoratore e che avrebbe, altresì, determinato il conseguente vizio motivazionale.

Ebbene, pur aderendo all’orientamento giurisprudenziale (Cass. n. 26091/2005) secondo cui l’indicazione delle norme che si assumono violate non si pone come requisito autonomo ed imprescindibile ai fini dell’ammissibilità della censura, occorre comunque tener presente che si tratta di un elemento richiesto al fine di identificare i limiti dell’impugnazione, ragion per cui la mancata indicazione delle disposizioni di legge o delle fonti negoziali collettive può comportare l’inammissibilità della doglianza qualora gli argomenti addotti, così come avviene nel caso di specie, operando una irrituale ed equivoca commistione tra fonti giuridiche diverse, non consentano di individuare quali siano, ad avviso della parte ricorrente, le norme, legali o pattizie, che si assumono violate.

Inoltre, è appena il caso di osservare che, come ha già avuto modo di statuire questa Corte, essendo il giudizio di cassazione un giudizio a critica vincolata, la tassatività e la specificità del motivo di censura esigono una precisa formulazione, di modo che il vizio denunciato rientri nelle categorie logiche di censura enucleate dal codice di rito (cfr., Cass. n. 18202/ 2008).

Secondo il condiviso orientamento di questa Corte, peraltro ribadito in precedenti specifici con riferimento a ricorsi proposti dalla medesima società (v., fra le altre, Cass. n. 21051/2014; Cass. n. 17360/2015; Cass. n. 17419/2015; Cass. n. 17946/2015; Cass. n. 18049/2015; Cass. n. 71/2016), il motivo d’impugnazione è rappresentato dall’enunciazione, secondo lo schema normativo con cui il mezzo è regolato dal legislatore, della o delle ragioni per le quali, secondo chi esercita il diritto d’impugnazione, la decisione è erronea, con la conseguenza che, in quanto per denunciare un errore bisogna identificarlo e, quindi, fornirne la rappresentazione, l’esercizio del diritto di impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicato si concretino in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere, dovendosi, dunque, il motivo che non rispetti tale requisito considerarsi nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo.

In riferimento al ricorso per Cassazione tale nullità, risolvendosi nella proposizione di un “non motivo”, è espressamente sanzionata con l’inammissibilità ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 4 (cfr., ex plurimis, Cass. n. 359/2005 e successive conformi).

Alla luce delle considerazioni che precedono si propone la declaratoria di inammissibilità del ricorso, con ordinanza, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., n. 5″.

2 – Non sono state depositate memorie ex art. 380 bis c.p.c., comma 2.

3 – Questa Corte ritiene che le osservazioni in fatto e le considerazioni e conclusioni in diritto svolte dal relatore siano del tutto condivisibili, siccome coerenti alla giurisprudenza di legittimità in materia e che ricorra con ogni evidenza il presupposto dell’art. 375 c.p.c., n. 5, per la definizione camerale del processo.

4 – In conclusione il ricorso va dichiarato inammissibile.

5 – Nulla va disposto per le spese processuali non avendo l’intimato svolto attività difensiva.

6 – La circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

Invero, in base al tenore letterale della disposizione, il rilevamento della sussistenza o meno dei presupposti per l’applicazione dell’ulteriore contributo unificato costituisce un atto dovuto, poichè l’obbligo di tale pagamento aggiuntivo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo – ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione –

del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, dell’impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell’ottica di un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione (così Cass. Sez. un. n. 22035/2014).

PQM

La Corte dichiara il ricorso inammissibile; nulla per le spese.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 12 maggio 2016.

Depositato in Cancelleria il 11 luglio 2016

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