Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14096 del 11/06/2010

Cassazione civile sez. trib., 11/06/2010, (ud. 03/03/2010, dep. 11/06/2010), n.14096

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PLENTEDA Donato – Presidente –

Dott. MARIGLIANO Eugenia – Consigliere –

Dott. CAMPANILE Pietro – Consigliere –

Dott. DI IASI Camilla – rel. Consigliere –

Dott. BERTUZZI Mario – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 11183/2005 proposto da:

COMUNE DI BARI, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente

domiciliato in ROMA VIA FLAMINIA 79 presso lo studio dell’avvocato

CIOCIOLA ROBERTO, rappresentato e difeso dagli avvocati LANZA

ROSSANA, BALDI ALESSANDRA, giusta delega in calce;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI CELLAMMARE, in persona del Sindaco pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA V.LE DELLE MILIZIE 106 presso lo

studio dell’avvocato GAGLIANO EUGENIO, rappresentato e difeso

dall’avvocato GAGLIARDI LA GALA FRANCO, giusta delega a margine;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 14/2004 della COMM.TRIB.REG. di BARI,

depositata il 28/10/2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

03/03/2010 dal Consigliere Dott. DI IASI Camilla;

udito per il ricorrente l’Avvocato BALDI ALESSANDRI (anche in

delega), che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SEPE Ennio Attilio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

IN FATTO E IN DIRITTO

Il Comune di Bari propone ricorso per cassazione (successivamente illustrato da memoria) nei confronti del Comune di Cellammare (che resiste con controricorso) e avverso la sentenza con la quale, in controversia concernente impugnazione di avviso di accertamento per omessa denuncia e omesso versamento dell’ICI per l’anno 1998 relativo ad immobile di edilizia residenziale pubblica appartenente al Comune di Bari e insistente sul territorio del Comune di Cellammare, la C.T.R. confermava la sentenza di primo grado (che aveva respinto il ricorso del Comune di Bari), rilevando che nella specie non sussisteva il difetto di motivazione dell’avviso opposto in quanto gli elementi in fatto contenuti in detto avviso avevano comunque consentito al Comune di Bari di esercitare in pieno il proprio diritto di difesa e, nel merito, che, ai fini dell’esenzione di cui al D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 7, comma 1, lett. a), era necessario che l’immobile fosse destinato in via esclusiva e diretta alla realizzazione dei fini istituzionali dell’ente, mentre nella specie l’immobile era stato locato a terzi.

Col primo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 11, comma 2 bis e comma 4, D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42 e L. n. 241 del 1990, art. 3, oltre che vizio di motivazione, il ricorrente rileva che l’avviso opposto doveva ritenersi nullo per difetto di motivazione in ordine ai presupposti di fatto, non risultando negli stessi indicato il provvedimento della Giunta comunale di conferimento dei poteri in capo al funzionario sottoscrittore dell’avviso di accertamento. La censura è infondata, dovendo in proposito rilevarsi che nessuna disposizione prevede espressamente che la delibera della Giunta comunale di preventiva designazione del funzionario esercente l’attività organizzativa e gestionale dell’imposta ICI sia menzionata ed individuata negli avvisi concernenti la suddetta imposta e che pertanto nella specie deve ritenersi operante (in mancanza, come sopra rilevato, di espressa disposizione in contrario) la presunzione (iuris tantum) che l’esercizio della potestà impositiva sia avvenuto nel rispetto dei presupposti di legge, restando così a carico del destinatario del provvedimento l’onere di dedurre e provare, in sede di opposizione, l’insussistenza delle condizioni previste per il legittimo esercizio della potestà impositiva – e, pertanto, non la mancata menzione ed indicazione della delibera nell’avviso opposto, bensì l’insussistenza o illegittimità della delibera medesima – (v. sul principio, benchè con riferimento a fattispecie diversa, cass. n. 10605 del 1998), essendo peraltro appena il caso di rilevare che le delibere e i regolamenti comunali devono in ogni caso ritenersi giuridicamente noti per effetto ed in conseguenza dell’avvenuto espletamento delle formalità di legge relative alla loro pubblicazione.

Col secondo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 11 comma 2 bis e art. 10, D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42 e L. n. 241 del 1990, art. 3, oltre che vizi di motivazione, la ricorrente sostiene che erroneamente i giudici d’appello avevano ritenuto motivati gli avvisi opposti benchè negli stessi mancasse l’esposizione delle ragioni giuridiche che avevano indotto alla esclusione della esenzione prevista dalla legge, essendo in proposito da evidenziare che il D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 10 esclude dall’obbligo di dichiarazione i soggetti esenti ai sensi del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 7 e che l’esenzione de qua opera ex lege e non richiede pertanto istanza di parte. Secondo il ricorrente, inoltre, la motivazione della sentenza impugnata sarebbe viziata con riguardo alla mancata considerazione della documentazione prodotta in giudizio dal Comune di Bari e attestante la ricorrenza dei presupposti di legge ai fini della esenzione de qua.

La censura è in parte infondata e in parte inammissibile.

Se vero che l’ente impositore deve procedere ad una preventiva istruttoria (nei limiti e nei termini in cui essa si renda necessaria) per accertarsi della sussistenza di tutti i relativi presupposti (positivi e negativi) prima di emettere un atto impositivo, non è altrettanto vero che sempre e necessariamente di tutti i passaggi – talora impliciti – di tale preventiva attività si debba dare conto nella motivazione dell’atto medesimo, atteso che le due attività predette (istruttoria e motivazionale) rispondono a finalità affatto differenti, non implicanti una necessaria coincidenza tra i relativi contenuti. In particolare, il D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 11, comma 2 bis, imponendo che gli avvisi di liquidazione e di accertamento in tema di ICI devono essere motivati in relazione ai presupposti di fatto ed alle ragioni giuridiche che li hanno determinati, non comporta necessariamente che la motivazione dei suddetti avvisi debba, sempre e in ogni caso, prevedere l’esposizione delle ragioni giuridiche anche in relazione al mancato riconoscimento di ogni possibile esenzione prevista dalla legge ed astrattamente applicabile, posto che, in assenza di situazioni specifiche richiedenti una motivazione espressa (ad es.: una apposita – ancorchè non richiesta – segnalazione della sussistenza dei requisiti per il riconoscimento di una precisa esenzione da parte dell’interessato, ovvero la particolare evidenza dei suddetti requisiti, come nell’ipotesi di immobile di proprietà di un Comune destinato ad uffici pubblici), nella maggior parte dei casi non è necessaria la specifica esposizione delle ragioni dell’implicito disconoscimento di operatività di possibili esenzioni, e che, diversamente opinando, si finirebbe per espandere in misura irragionevole l’obbligo di motivazione gravante sull’Amministrazione, estendendolo alla dimostrazione negativa di situazioni eventuali ed astratte e così esorbitando dalle finalità proprie di esso, in contrasto con elementari criteri di economicità ai quali (anche) deve essere improntata l’attività della P.A..

Tanto premesso, è appena il caso di aggiungere che nella specie il ricorrente deduce l’omessa esplicitazione delle ragioni giuridiche di esclusione dell’esenzione, non anche la necessità di una espressa motivazione in proposito; in ogni caso, la censura sarebbe, in tali termini, inammissibile per difetto di autosufficienza, posto che essa implicherebbe la valutazione complessiva dell’atto impositivo della cui motivazione si discute, il cui testo non risulta riportato in ricorso.

Resta infine da aggiungere che anche con riguardo al dedotto vizio di motivazione per mancata considerazione della produzione documentale del Comune di Bari, la censura difetta di autosufficienza, alla luce della giurisprudenza di questo giudice di legittimità, secondo la quale il controllo della congruità e Logicità della motivazione, al fine del sindacato di legittimità, postula la specificazione da parte del ricorrente – se necessario, attraverso la trascrizione integrale nel ricorso – della risultanza che egli assume decisiva e non valutata o insufficientemente valutata dal giudice, perchè solo tale specificazione consente al giudice di legittimità – cui è precluso, salva la denuncia di “error in procedendo”, l’esame diretto dei fatti di causa – di deliberare la decisività della risultanza non valutata (v. tra le altre cass. n. 6679 del 2006), avendo nella specie il ricorrente affermato che i giudici di merito avevano omesso di considerare la documentazione esibita dal Comune di Bari, senza neppure indicare i documenti che la componevano, e, a fortiori, senza riportare in ricorso (nel rispetto del citato principio di autosufficienza) il testo di tali documenti, così impedendo a questo giudice di valutarne la decisività. Col terzo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 7, comma 1, lett. a), delle disposizioni delle L. n. 25 del 1980, L. n. 118 del 1985 e L. n. 899 del 1986, nonchè delle disposizioni della L.R. Puglia n. 54 del 1984, oltre che vizi di motivazione, il ricorrente censura la sentenza impugnata per non avere i giudici d’appello ritenuto che nella specie ricorresse l’ipotesi della esenzione di cui al D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 7, comma 1, lett. a), rilevando tra l’altro che gli immobili acquistati dal Comune di Bari erano destinati direttamente a edilizia residenziale pubblica e perciò in concreto all’adempimento dei compiti istituzionali del Comune, non rilevando in contrario che il rapporto con gli assegnatari degli alloggi fosse disciplinato dalle norme sulla locazione.

Col terzo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 7, comma 1, lett. a), delle disposizioni delle L. n. 25 del 1980, L. n. 118 del 1985 e L. n. 899 del 1986, nonchè delle disposizioni della L.R. Puglia n. 54 del 1984, oltre che vizi di motivazione, il ricorrente censura la sentenza impugnata per non avere i giudici d’appello ritenuto che nella specie ricorresse l’ipotesi della esenzione di cui. al D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 7, comma 1, lett. a), rilevando tra l’altro che gli immobili acquistati dal Comune di Bari erano destinati direttamente a edilizia residenziale pubblica e perciò in concreto all’adempimento dei compiti istituzionali del Comune, non rilevando in contrario che il rapporto con gli assegnatari degli alloggi fosse disciplinato dalle norme sulla locazione.

La censura è infondata alla luce della giurisprudenza di questo giudice di legittimità (alla quale il collegio intende dare continuità in assenza di valide ragioni per discostarsene), secondo la quale l’esenzione dall’imposta che il D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, art. 7, comma 1, lett. a), prevede per gli immobili posseduti – fra l’altro – dai comuni (al di fuori del loro territorio), purchè “destinati esclusivamente ai compiti istituzionali”, presuppone la destinazione diretta ed immediata dell’immobile allo svolgimento dei compiti istituzionali dell’ente locale, ipotesi che non si configura quando il bene venga utilizzato per attività di carattere privato, come avviene, in linea di massima, in tutti i casi in cui il godimento del bene stesso sia concesso a terzi dietro pagamento di un canone, essendo in particolare configurabile una semplice utilizzazione indiretta nel caso (nella specie ricorrente) di alloggi di edilizia residenziale pubblica concessi in locazione a privati cittadini, senza che in contrario rilevi la circostanza che l’attività di locazione di detti alloggi, avente connotati di economicità, sia assistita da una finalità di pubblico interesse (v. cass. n. 20577 del 2005 e n. 14? del 2004).

Quanto al dedotto vizio di motivazione, è poi appena il caso di aggiungere che esso è configurabile solo con riguardo alla motivazione in fatto, posto che l’eventuale omissione, contraddittorietà, insufficienza o non correttezza della motivazione in diritto risulta irrilevante, se la decisione è conforme a diritto, mentre, in caso contrario, la suddetta decisione deve essere censurata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3.

Col quarto motivo, deducendo violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 7, comma 1, lett. a) e della circolare del Ministero delle Finanze n. 14/93, oltre che vizio di motivazione, il ricorrente rileva di avere denunciato, quale motivo di impugnazione in appello, l’elusione della circolare 14/93 da parte dei primi giudici, senza che i giudici d’appello trattassero in alcun modo la questione, e senza che di tale circolare essi tenessero conto ai fini della valutazione della sussistenza della esenzione di cui all’art. 7 cit., comma 1, lett. a).

La censura è inammissibile.

Giova innanzitutto precisare che l’omessa trattazione di una questione posta in un motivo di impugnazione integra omessa pronuncia e non vizio di motivazione, in quanto, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, se vero che non basta ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia la mancanza di una espressa statuizione del giudice, essendo necessaria la totale pretermissione del provvedimento che sì palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto e dovendo pertanto escludersi il suddetto vizio quando la decisione, adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte, ne comporti il rigetto o la non esaminabilità pur in assenza di una specifica argomentazione (v. cass. n. 10636 del 2007), è anche vero che l’omessa pronuncia su un motivo d’appello integra un difetto di attività del giudice di secondo grado, che deve essere fatto valere dal ricorrente non con la denuncia della violazione di una norma di diritto sostanziale o del vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5 – siffatte censure presupponendo che il giudice del merito abbia preso in esame la questione oggetto di doglianza e l’abbia risolta in modo giuridicamente non corretto ovvero senza giustificare (o non giustificando adeguatamente) la decisione al riguardo resa – ma attraverso la specifica deduzione del relativo “error in procedendo” per violazione dell’art. 112 c.p.c. (v. cass. n. 11844 del 2006; n. 24856 del 2006 e n. 12952 del 2007). E’ inoltre da rilevare che, secondo la costante giurisprudenza di questo giudice di legittimità, l’Amministrazione finanziaria non ha poteri discrezionali nella determinazione delle imposte dovute e, di fronte alle norme tributarie, essa ed il contribuente si trovano su di un piano di parità, per cui la c.d. “interpretazione ministeriale”, contenuta in circolari o risoluzioni, non vincola i contribuenti nè i giudici e non costituisce fonte di diritto, con la conseguenza che a tali atti ministeriali non si estende il principio iura novit curia nè il controllo di legittimità esercitato dalla Corte di Cassazione (ex art. 111 Cost. e art. 360 c.p.c.), non essendo essi manifestazione di attività normativa, bensì atti interni della medesima Pubblica Amministrazione destinati ad esercitare una funzione direttiva nei confronti degli uffici dipendenti ma inidonei ad incidere sul rapporto tributario (v. tra le altre cass. n. 21154 del 2008 e n. 14619 del 2000).

Da quanto sopra esposto discende, per un verso, che il motivo in esame difetta – in ciascuna delle censure in cui si articola – di autosufficienza, facendo riferimento ad un atto dell’amministrazione il cui testo non viene riportato in ricorso e, per altro verso, che il contenuto di una circolare ministeriale non può valere ad integrare o interpretare il testo di una disposizione di legge.

E’ infine da aggiungere che (anche prescindendo dalle considerazioni precedenti in ordine alla inconfigurabilità, nella specie, del denunciato vizio di motivazione) una circolare ministeriale, attese le caratteristiche della medesima evidenziate dalla giurisprudenza richiamata, non costituirebbe in ogni caso quel “punto decisivo” (secondo la disciplina applicabile ratione temporis) la cui considerazione (omessa dai giudici di merito) avrebbe sicuramente condotto ad una decisione diversa da quella adottata.

Alla luce di tutto quanto sopra esposto, il ricorso deve essere rigettato. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 600,00 di cui Euro 400,00 per onorari, oltre contributo unificato e accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 3 marzo 2010.

Depositato in Cancelleria il 11 giugno 2010

 

 

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