Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1409 del 19/01/2018


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Cassazione civile, sez. un., 19/01/2018, (ud. 26/09/2017, dep.19/01/2018),  n. 1409

Fatto

FATTI DI CAUSA

D.D., funzionario dell’Agenzia delle Entrate, fu accusato, in concorso con altri soggetti, di “induzione indebita” (giusta la previsione dell’art. 319 quarter c.p.) per aver ottenuto da un contribuente, tale D.L.T., amministratore della srl Print System, un’ingente somma di denaro al fine di evitare una presunta visita fiscale nella predetta società.

A seguito dell’apertura del procedimento penale, il 14 giugno 2014 fu emessa sentenza ex art. 444 c.p.p., che applicò la pena di un anno e sei mesi di reclusione, con sospensione condizionale; nel contempo fu iniziata anche azione contabile da parte della Procura Regionale per il Lazio della Corte dei Conti, addebitandosi al predetto D. la causazione di un danno all’immagine della amministrazione pubblica.

Con sentenza n. 395/2014 della sezione giurisdizionale per il Lazio della Corte dei Conti il D. fu condannato a pagare all’Erario la somma di Euro 250.000, con quantificazione operata ai sensi della L. n. 190 del 2012, art. 1, comma 62, modificativo della L. n. 190 del 1994, art. 1.

Il D. appellò tale decisione: a – sostenendo la inapplicabilità della norma succitata, in quanto entrata in vigore due anni dopo il presunto danno all’immagine, sostenendo invece la riconducibilità della fattispecie nella ipotesi generale prevista dall’art. 2043 c.c.; b – assumendo altresì che la prevedibilità del danno all’immagine, di cu all’art. 319 quater c.p., sarebbe stata da escludere in quanto tale norma era entrata in vigore successivamente ai fatti di incolpazione; in suo luogo invece avrebbe dovuto essere applicato il D.L. n. 78 del 2009, art. 17, comma 30 ter; c sottolineando che l’applicazione della pena su richiesta, non prevedendo una pronuncia di condanna, non sarebbe rientrata nella previsione del citato art. 17 che disciplinava le conseguenze di una sentenza di condanna passata in giudicato; d – affermando che non vi sarebbe stato un reato contro la pubblica amministrazione bensì, semmai, contro un privato; e – lamentando poi che la somma oggetto di condanna risarcitoria sarebbe stata quantificata in modo solo congetturale, in quanto non sarebbe stata adeguatamente motivata la determinazione dell’importo illegittimamente percepito.

Con sentenza 333/2015 la sezione prima giurisdizionale centrale di appello della Corte dei Conti rigettò l’appello, ad esclusione del motivo attinente alla quantificazione del danno all’immagine, che accolse, dimezzando l’importo della precedente condanna, in ragione dell’ erronea individuazione della norma regolatrice.

Il D. ha proposto ricorso per ragioni attinenti alla giurisdizione; la Procura Generale presso la Corte dei Conti ha risposto con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1 – E’ denunciata la violazione di legge in cui sarebbe incorsa la Corte Erariale (vengono richiamati l’art. 103 Cost., comma 2, in relazione all’art. 111 Cost., comma 7; art. 362 c.p.c.; L. n. 20 del 1994, art. 1; D.L. 1 luglio 2009, n. 78, art. 17, comma 30 ter, convertito nella L. n. 102 del 2009; art. 113 Cost.; art. 2967 c.c.); è stato poi dedotto un vizio di motivazione là dove la Corte dei Conti avrebbe operato un mero rinvio all’accertamento contenuto nella sentenza penale di c.d. patteggiamento, in ordine alla condotta dalla quale sarebbe scaturita la lesione all’immagine della pubblica amministrazione.

1 bis – In particolare si sostiene l’esistenza di un eccesso di potere giurisdizionale da parte del giudice dell’appello erariale, che avrebbe condotto ad una indebita interpositio legislatoris, là dove la Corte dei Conti ritenne di ravvisare un accertamento irrefutabile della commissione del fatto illecito, poi addebitato al D. quale presupposto del danno all’immagine dello Stato, traendolo dalla sentenza di c.d. patteggiamento che, strutturalmente, non presuppone una tale verifica.

2 – I profili in cui si articola il ricorso sono perfettamente sovrapponibili ai motivi fatti valere innanzi al giudice contabile d’appello e concretizzano censure dirette a far emergere vitia in judicando in cui sarebbe incorsa la Corte dei Conti nel concreto esercizio della sua funzione giurisdizionale, come tali non sottoponibili al controllo delle Sezioni Unite, che è limitato alla verifica del rispetto dei limiti esterni della giurisdizione erariale.

3 – Così deve dirsi non solo in relazione alla valutazione della lesione dell’immagine pubblica; alla determinazione del soggetto inciso dalla condotta censurata; alla quantificazione del pregiudizio ed alla prova della sua stessa esistenza ma anche e soprattutto al riguardo del lamentato eccesso di potere giurisdizionale in cui la Corte Contabile di appello sarebbe incorsa nel ritenere che il c.d. danno all’immagine potesse configurarsi anche in assenza di una sentenza penale di condanna, divenuta irrevocabile a seguito di dibattimento.

3 bis – Sul punto va innanzi tutto richiamato il consolidato indirizzo interpretativo di queste Sezioni Unite, secondo il quale il c.d. eccesso di potere giurisdizionale è ravvisabile là dove la decisione impugnata abbia invaso la sfera di competenza del potere legislativo o della pubblica amministrazione, non osservando il decidente il principio cardine della separazione dei poteri; non si ravvisa invece una questione involgente la giurisdizione là dove si sia in presenza di una attività interpretativa – senza che assuma rilievo, a tali fini, l’esito dell’interpretazione -, nessun eccesso essendo configurabile le volte in cui emerga, con evidenza, che interpretazione sia stata svolta: questa – perchè effettiva e non già perchè condivisibile -, al tempo stesso in cui fa emergere la inconsistenza della ipotesi di eccesso di potere (e ciò vale anche per l’ipotesi opposta di eccesso di natura “creatrice”), preclude alle sezioni unite alcun sindacato sui suoi risultati, non essendo, com’è noto, consentita alcuna verifica degli errores in iudicando o in procedendo del giudice speciale (vedi ex multis: Cass. Sez. Un. 29 ottobre 2014 n. 22951; Sez. Un. 10 settembre 2013 n. 20698): nel caso di specie invece la Corte dei Conti ha esercitato il suo legittimo potere interpretativo dei limiti applicativi della disciplina del c.d. danno da immagine per la P.A., con interpretazione, giova sottolinearlo, che ha recente ricevuto conferma nella sentenza di queste Sezioni Unite del 7 dicembre 2016 n. 25042 che ha stabilito che in tema di responsabilità contabile, la norma del D.L. n. 78 del 2009, art. 17, comma 30-ter, conv., con modif., dalla L. n. 102 del 2009 – che ha circoscritto la possibilità del P.M. presso il giudice contabile di agire per il risarcimento del danno all’immagine di enti pubblici (pena la nullità degli atti processuali computi) ai soli fatti costituenti delitti contro la P.A., accertati con sentenza passata in giudicato – introduce una condizione di mera proponibilità dell’azione di responsabilità davanti al giudice contabile (incidente, dunque, sui soli limiti interni della sua giurisdizione) e non una questione di giurisdizione, posto che ad incardinare la giurisdizione della Corte dei Conti è necessaria e sufficiente l’allegazione di una fattispecie oggettivamente riconducibile allo schema del rapporto d’impiego o di servizio del suo preteso autore, mentre afferisce al merito ogni problema relativo alla sua effettiva esistenza. (v. Cass., Sez. Un., 7 giugno 2012, n. 9188; Cass., Sez. Un., 23 novembre 2012, n. 20728.; Cass., 8 maggio 2014, n. 9937). Ne consegue che, qualora il pubblico impiegato abbia patteggiato la pena ai sensi degli artt. 444 c.p.p. e segg. e la relativa sentenza sia stata resa successivamente all’entrata in vigore della L. n. 475 del 1999, che ha equiparato la detta pronuncia a quella di condanna, è inammissibile, non trattandosi di superamento dei limiti esterni della giurisdizione del giudice contabile, l’impugnazione davanti alle Sezioni Unite della Corte di cassazione, della sentenza della Corte dei Conti di condanna del detto pubblico dipendente al risarcimento del danno all’immagine (e da disservizio) subito dalla P.A..

4 – L’intangibilità dell’attività interpretativa del Giudice contabile comporta che non è suscettibile di controllo ai fini della delimitazione della giurisdizione la censura che ancora l’eccesso di potere giurisdizionale della Corte contabile al fatto che il reato dal quale sarebbe scaturita la lesione all’immagine pubblica – art. 319 quater c.p. – sarebbe stato introdotto nel codice penale dalla L. 6 novembre 2012, n. 190, art. 1, comma 75, lett. I e dunque successivamente alla previsione normativa – del citato D.L. n. 78 del 2009, art. 17, comma ter – che per la prima volta aveva disciplinato la perseguibilità in sede contabile del danno all’immagine, limitandolo però ai soli reati ricompresi, all’epoca, nel capo 1^ del titolo 2^ del libro secondo del codice penale: appare evidente che, anche in questo caso, la Corte Contabile ha elaborato una interpretazione legittima delle norme involte, ritenendo che la condotta antigiuridica posta in essere dall’agente, pur qualificata dal giudice penale ai sensi dell’art. 319 quater c.p., rientrasse nel più ampio genus di quelle sanzionate come reati contro la pubblica amministrazione e riconducibili alle figure preesistenti alla riforma della legge c.d. anticorruzione n. 190/2012.

5 – Alla declaratoria di inammissibilità non consegue una pronunzia sulle spese, essendo la Procura Generale contabile parte solo in senso formale. Dal momento che il ricorso è stato notificato il 28 dicembre 2015, dunque oltre il trentesimo giorno successivo all’entrata in vigore della L. 24 dicembre 2012, n. 228, che ha modificato il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, sussistono i presupposti per porre a carico del ricorrente il pagamento di somma pari al contributo unificato dovuto per il ricorso, in applicazione del citato D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

PQM

Dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, il 26 settembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 19 gennaio 2018

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