Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14089 del 07/06/2017


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Cassazione civile, sez. trib., 07/06/2017, (ud. 27/02/2017, dep.07/06/2017),  n. 14089

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Presidente –

Dott. CAIAZZO Luigi Pietro – Consigliere –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 18202/2012 R.G. proposto da:

GRUPPO IMMOBILIARE s.r.l., in liquidazione, in persona del

liquidatore pro tempore, V.R., nonchè

G.F.R. e P.F., rappresentati e difesi, per procura

speciale a margine del ricorso, dagli avv.ti Sergio Buzzi ed Enrico

Fioretti, ed elettivamente domiciliati presso lo studio legale del

secondo difensore, in (OMISSIS);

– ricorrenti –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso

la quale è domiciliata ex lege in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio,

n. 192/35/2011, depositata in data 11 ottobre 2011.

Udita la relazione svolta alla pubblica udienza del 27 febbraio 2017

dal Cons. Dr. Lucio Luciotti;

udito l’avv. Enrico Fioretti, per il ricorrente;

udito l’avv. Gianna Galluzzi, per l’Avvocatura Generale dello Stato;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dr. Del Core Sergio, che ha concluso chiedendo il rigetto

del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. A seguito di accertamenti effettuati sui conti correnti bancari del Gruppo Immobiliare s.r.l. (già s.n.c.), in liquidazione, e dei suoi soci, G.F.R. e P.F., l’Agenzia delle entrate emetteva tre avvisi di accertamento di maggiori ricavi ai fini IVA, IRPEG e IRAP per gli anni di imposta 2004, 2005 e 2006 nei confronti della predetta società recuperando a tassazione i maggiori ricavi non contabilizzati, ed altri tre avvisi di accertamento nei confronti di ciascuno dei due soci per maggior reddito ai fini IRPEF, derivante dall’imputazione pro quota del maggior reddito accertato a carico della s.n.c., per gli stessi anni di imposta.

2. I ricorsi proposti dai contribuenti venivano riuniti e parzialmente accolti dalla Commissione tributaria provinciale di Viterbo, ma la Commissione tributaria regionale del Lazio, rigettando l’appello proposto dai contribuenti ed accogliendo quello incidentale dell’ufficio finanziario, confermava in toto gli avvisi di accertamento impugnati. I giudici di appello, ritenuto infondato il motivo di appello con cui era stato dedotto il difetto di motivazione della sentenza impugnata e ricordato il valore di presunzione legale, seppur relativa, posta a favore dell’amministrazione finanziaria dalle disposizioni tributarie in materia di accertamenti bancari, sostenevano che i contribuenti non avevano fornito prove adeguate per superare la presunzione di maggiori ricavi dei versamenti effettuati sui rapporti bancari, i soci avendo anche dichiarato che i conti correnti accesi presso la (OMISSIS) e (OMISSIS) venivano utilizzati per far transitare i proventi relativi all’attività di intermediazione effettuata dalla società immobiliare, e, con riferimento ai prelevamenti, non indicando i soggetti beneficiari degli stessi.

3. Avverso tale statuizione ricorrono per cassazione i contribuenti sulla base di quattro motivi, illustrati con memoria, cui replica l’intimata con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Va preliminarmente rilevata la tardività del ricorso proposto dai soci G.R. e P.F.. Invero, i giudizi avverso l’atto impositivo sono stati da questi promossi successivamente al 4 luglio 2009, data di entrata in vigore della L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 46, comma 17, che ha ridotto a sei mesi il termine c.d. lungo di impugnazione, originariamente previsto in un anno, con la decorrenza prevista dall’art. 58, comma 1, della citata Legge, secondo cui la modifica opera a decorrere dalla data sopra indicata in relazione “ai giudizi instaurati dopo la data della sua entrata in vigore”, prendendosi a riferimento la data di proposizione del ricorso dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale (cfr. Cass. n. 6007 del 2012; n. 19943 del 2014; n. 20102 del 2016; v. anche Cass. n. 10846 del 2011).

1.1. Precisato che il nuovo e più breve termine non è applicabile al ricorso per cassazione proposto dalla società, che risulta aver introdotto il giudizio avverso l’atto impositivo in data antecedente al 4 luglio 2009, il superamento da parte dei soci del termine semestrale per impugnare la sentenza della CTR – che, computato ai sensi dell’art. 155 c.p.c., comma 2, scadeva in data 11 aprile 2012, stante l’avvenuta pubblicazione della sentenza in data 11 ottobre 2011 – comporta l’inammissibilità del ricorso dai medesimi proposto avverso la predetta sentenza di appello.

2. Nella specie però sussiste il litisconsorzio necessario tra società e soci. E’ pacifico, infatti, che a seguito di indagini bancarie sono emersi, con riferimento agli anni di imposta 2004, 2005 e 2006, maggiori ricavi con conseguente maggiore IVA, IRPEG ed IRAP nei confronti della società, e maggiore IRPEF, derivante dall’imputazione pro quota del maggior reddito accertato a carico della società, nei confronti dei soci per gli stessi anni. Orbene, secondo il consolidato orientamento di questa Corte “l’unitarietà dell’accertamento che è alla base della rettifica delle dichiarazioni dei redditi delle società di persone o delle associazioni di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 5, e dei soci delle medesime, riguarda inscindibilmente sia la società che tutti i soci in cui questi prospettino questioni personali -, configurando un’ipotesi di litisconsorzio necessario, con la conseguenza che il giudizio avente ad oggetto il reddito di una società di persone celebrato, come nel caso di specie, senza la partecipazione di tutti i soci, è affetto da nullità assoluta, rilevabile in ogni stato e grado del procedimento, anche d’ufficio” (in termini Cass. S.U., n. 14815 del 2008, cui hanno fatto seguito numerose successive pronunce conformi di questa sezione, tra cui Cass. n. 23096 del 2012, n. 22662del 2014 e più recentemente n. 7789 e n. 27319 del 2016). Il rilievo, poi, che l’Agenzia abbia contestualmente proceduto con unico atto ad accertamenti relativi sia ai fini IVA (che non determina la necessità del simultaneus processus tra società e soci), sia ai fini delle imposte dirette e dell’IRAP a carico della società di persone, fondati su elementi comuni, comporta che il profilo dell’accertamento impugnato concernente l’imponibile IVA, non suscettibile di autonoma definizione in funzione di aspetti ad esso specifici, non si sottrae al vincolo necessario di simultaneus processus, attesa l’inscindibilità delle due situazioni (in termini, Cass. n. 12236 del 2010, n. 6935 del 2011, n. 2094 del 2015).

2.2. Da quanto detto consegue che la società e tutti i suoi soci devono essere parte dello stesso procedimento e la controversia non può essere decisa limitatamente ad alcuno soltanto di essi.

3. Ciò posto, con riferimento al caso di specie, dalla rilevata inammissibilità del ricorso proposto dai soci avverso la sentenza della CTR discenderebbe la necessità di emanare l’ordine di integrazione del contraddittorio nei confronti di tali litisconsorti necessari della originaria s.n.c., con contestuale fissazione del termine ex art. 331 c.p.c., che però comporterebbe un inutile aggravio, oltre che di spese, anche dei termini per la definizione del giudizio di cassazione senza beneficio per alcuna delle parti processuali. Invero, “il rispetto del diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo impone al giudice (ai sensi degli artt. 175 e 127 c.p.c.) di evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano certamente quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perchè non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, da effettive garanzie di difesa e dal diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità, dei soggetti nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato ad esplicare i suoi effetti” (cfr. Cass. n. 2723 del 2010; in termini anche Cass. Sez. U. n. 26373 del 2008 e n. 20944 del 2015).

3.1. La presenza in giudizio dei soggetti il cui ricorso sarebbe inammissibile e la stessa richiesta di controparte di ritenere il medesimo tempestivo (pagg. 3 e 4), seppur per ragioni diverse da quelle esposte, rende evidente l’effettività del rispetto del litisconsorzio necessario, quindi del principio del contraddittorio, rassicurando sulla inesistenza di qualsiasi pregiudizio alle garanzie di difesa di entrambe le parti processuali, dal che discende che, pur in presenza dei relativi presupposti, è del tutto superfluo dare disposizioni per l’integrazione del contraddittorio nei confronti dei soci.

4. Passando, quindi, ai motivi di ricorso, il primo, con cui viene dedotta l’omessa motivazione della sentenza impugnata sul motivo di appello con cui era stata eccepita la nullità della sentenza di primo grado “per omessa motivazione e/o motivazione apparente”, è inammissibile per difetto di interesse, giacchè il vizio di nullità della sentenza di primo grado per mancanza di motivazione “non rientra fra quelli, tassativamente indicati, che ai sensi del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 59, come suscettibili di far insorgere i presupposti per la regressione del processo dallo stadio di appello a quello precedente, ma comporta la necessità, per il giudice d’appello che dichiari il vizio, di porvi rimedio, trattenendo la causa e decidendola nel merito, senza che a ciò osti il principio del doppio grado di giurisdizione, che è privo di rilevanza costituzionale” (Cass. n. 18824 del 2006; con riferimento al rito ordinario, cfr. Cass. n. 13426 del 2004, n. 13733 del 2014; v. anche Cass. n. 27777 del 2008, n. 18578 del 2015). L’impugnata sentenza che ha rigettato il motivo di appello con cui era stato dedotto il vizio di omessa motivazione della decisone di primo grado ed ha deciso la causa nel merito è, quindi, corretta in diritto.

5. Con il secondo motivo di ricorso viene dedotto il vizio di omessa pronuncia “sull’eccezione attinente alla violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 41-bis negli accertamenti fondati sui c.d. accertamenti bancari”.

5.1. Il motivo è infondato. E’ noto che “ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia (cfr. Cass. n. 16788 del 2006; conf. 9545 del 2001, n. 20311 del 2011, n. 3417 del 2015, n. 1360 del 2016). Nella specie, il rilievo che i giudici di appello abbiano esaminato la causa nel merito rende evidente che hanno ritenuto di non condividere la tesi dell’illegittimità dell’avviso di accertamento per la dedotta violazione di legge, la cui domanda deve, quindi, ritenersi essere stata implicitamente rigettata.

6. Con il terzo motivo viene dedotta la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3, con riferimento al cit. decreto, art. 32 e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51 nonchè l’omessa motivazione in ordine alla riconducibilità alla società delle movimentazioni bancarie risultanti sui correnti intestati ai soci della medesima.

6.1. I ricorrenti, con riferimento alla dedotta violazione di legge, sostengono che le presunzioni di cui ai citati artt. 32 e 51, non sono applicabili a persone diverse dal contribuente, ancorchè ad esso legate da vincoli familiari o commerciali, salvo che non si provi la natura fittizia dell’intestazione o comunque la sostanziale imputabilità al contribuente delle poste creditorie e debitorie annotate nei suddetti conti e, con riferimento al dedotto vizio motivazionale, deducono che i giudici di appello avrebbero omesso di indicare gli elementi idonei a ricondurre alla società i movimenti risultanti dai conti correnti intestati ai soci o comunque ad evidenziare la natura fittizia di tali intestazioni, evidenziando come gli stessi fossero soci di numerose altre società, come risultava dalle visure camerali allegate in copia al ricorso.

7. Con il quarto motivo viene dedotta “l’illogicità e la contraddittorietà della sentenza con riferimento alle presunzioni ex D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3″, nonchè l'”inversione dell’onere della prova – violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c.”, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.

7.1. I ricorrenti sostengono che la correlazione all’attività della società verificata dei movimenti bancari risultanti sui conti correnti intestati ai soci non trovava alcun riscontro nè nel processo verbale di constatazione redatto dalla G.d.F. (riprodotto interamente nel ricorso mediante allegazione di copia), nè negli avvisi di accertamento, e che, diversamente da quanto sostenuto nella sentenza impugnata, i soci G. e P. non avevano reso alcuna dichiarazione circa l’utilizzazione di alcuni conti correnti per le attività della società verificata, tant’è che di essa non vi era traccia nè nel p.v.c. nè negli avvisi di accertamento, con la conseguenza che la CTR, da un lato, aveva malamente interpretato la dichiarazione del socio P. “di avere anticipato per conto della società alcune somme, poi restituite, versate sui conti della società per far fronte ad alcuni pagamenti impellenti” e, dall’altro, non aveva tenuto conto della copiosa documentazione prodotta dai contribuenti a dimostrazione che su due conti correnti intestati ai soci confluivano gli affitti stagionali degli alloggi arredati per le vacanze, riscossi in nome e per conto dei clienti proprietari di seconde case al mare.

8. I motivi, che possono essere esaminati congiuntamente in quanto diretti, sotto tutti i profili dedotti, a censurare la sentenza impugnata laddove ha ritenuto riconducibili alla società i movimenti bancari risultanti sui conti correnti intestati ai soci, sono fondati nei limiti di cui appresso si dirà.

8.1. E’ ben vero che, in tema di accertamenti bancari, il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 1 e 7 (in materia di imposte dirette) e il D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 51, comma 2, nn. 2 e 7 (in materia di IVA) – che accordano all’ufficio il potere di richiedere agli istituti di credito notizie dei movimenti sui conti bancari intrattenuti dal contribuente e di presumere la loro inerenza ad operazioni imponibili, ove non si deduca e dimostri che i movimenti medesimi siano stati conteggiati nella dichiarazione annuale o siano ricollegabili ad atti non soggetti a tassazione trovano applicazione unicamente ai conti intestati o cointestati al contribuente, e non con riguardo a conti bancari intestati esclusivamente a persone diverse, ancorchè legate al contribuente da vincoli familiari o commerciali, salvo che l’ufficio opponga e poi provi in sede giudiziale che l’intestazione a terzi è fittizia o comunque è superata, in relazione alle circostanze del caso concreto, dalla sostanziale imputabilità al contribuente medesimo delle posizioni creditorie e debitorie annotate sui conti (cfr., ex multis, Cass. n. 11145 del 2011). Ed è altresì vero che, con riguardo alle società di persone – com’è la ricorrente -, la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di affermare che, nel caso di accertamento concernente una società di tale tipo, l’ufficio finanziario può legittimamente utilizzare, nell’esercizio dei poteri ad esso attribuiti dalle sopra citate disposizioni, le risultanze di conti correnti bancari intestati ai soci, purchè provi adeguatamente che quei determinati movimenti risultanti sul conto personale dei soci siano in realtà riferibili ad operazioni poste in essere dalla società (v. tra le altre Cass. n. 17243 del 2003, n. 11145 del 2011, cit.).

8.2. Orbene, ritiene il Collegio che i giudici di merito abbiano fatto rigorosa applicazione dei suddetti principi e, in esito alla valutazione delle risultanze processuali ad essi spettante, abbiano correttamente ritenuto che i movimenti bancari effettuati sui conti correnti della (OMISSIS) e di (OMISSIS) intestati ai soci fossero riconducibili alla società verificata. D’altro canto, la tesi sostenuta dai ricorrenti, secondo cui le dichiarazioni confessorie dal giudice di merito attribuite ai soci non sarebbero rinvenibili nè nel p.v.c. nè negli avvisi di accertamento, è smentita dal rilievo che al foglio n. 9 del p.v.c. riprodotto nel ricorso si fa espresso riferimento a “dichiarazioni (…) fornite dai sigg. G.F.R. e P.F.”, cioè a quelle valutate dalla Commissione di appello, che ben potrebbero essere contenute nell’altro p.v.c. “composto di 31 fogli ed 8 allegati”, di cui si fa menzione al foglio 2 del p.v.c. allegato al ricorso, che la parte ricorrente non considera in alcun modo, trascurando di riprodurne il contenuto, così come ha del tutto trascurato di riprodurre il contenuto del ricorso introduttivo laddove risulterebbe l’allegazione al medesimo delle visure camerali allegate in copia al ricorso per cassazione. A ciò deve aggiungersi che l’utilizzo dei conti correnti accesi presso la (OMISSIS) e le (OMISSIS) per attività riconducibili alla società (versamento di “somme relative agli affitti stagionali degli alloggi arredati per le vacanze”, di proprietà di terzi) è ammessa dagli stessi ricorrenti (ricorso pag. 18) e riscontrabile dal “prospetto” riprodotto in copia nel ricorso, ove risulta anche una quota spettante alla società per provvigione.

8.3. La motivazione della sentenza impugnata non è però immune da vizi logici laddove estende la riconducibilità alla società verificata dei movimenti bancari rilevati nei predetti conti correnti per somme alla medesima non spettanti e, precisamente, per quelle incassate per conto dei proprietari degli alloggi e ai medesimi riversati, nonchè delle movimentazioni rilevate sui conti correnti intestati esclusivamente ai soci, diversi da quelli accesi presso le suddette banche ((OMISSIS) e (OMISSIS)), avendo del tutto omesso i giudici di appello di esternare le ragioni e gli elementi presuntivi che li avevano indotti a ritenere che le movimentazioni su tali conti correnti fossero riconducibili alla società verificata.

8.4. Ne consegue che i motivi vanno accolti limitatamente a tali aspetti della vicenda processuale, con rinvio al giudice di merito per una nuova valutazione, da effettuare anche sulla base del principio, espresso da questa Corte nella sentenza n. 1898 del 2016, secondo cui non rileva che il soggetto terzo rispetto alla società sia legale rappresentante di una pluralità di persone giuridiche (esclusa, quindi, la posizione di mero socio di altre società), essendo in quel caso sufficiente, in difetto della prova contraria circa una più corretta imputazione, ripartire i dati estratti dai conti correnti in proporzione al volume di affari di ciascun ente.

9. Con il quinto motivo i ricorrenti deducono sia la violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 119 (TUIR), che il vizio di omessa motivazione in relazione al riconoscimento dei costi per la produzione dei maggiori redditi accertati.

9.1. Al riguardo deve rilevarsi che secondo il consolidato orientamento di questa Corte, cui il Collegio intende dare continuità, (cfr., da ultimo, Cass. n. 22266 del 2016) “negli accertamenti di tipo induttivo – come per le movimentazioni bancarie di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32 – l’amministrazione è tenuta a ricostruire la situazione reddituale complessiva del contribuente tenendo conto anche delle componenti negative del reddito, purchè esse “siano comunque emerse dagli accertamenti compiuti, ovvero siano state indicate e dimostrate dal contribuente” (Cass., sez. 5, n. 8811/16; cfr. Cass. un. 6332/16, 1314/15, 25317/11, 20679/11, 5192/11, 3995/09)”. Si è precisato al riguardo che “l’assunto (…) ritrae fondamento dalle regole probatorie che governano la materia, in guisa delle quali se compete all’ufficio provare in base ad un quadro di presunzioni gravi, precisi e concordanti l’esistenza in capo al contribuente di attività non dichiarate ovvero l’inesistenza di passività dichiarate che alterano il risultato reddituale e generano un debito tributario, è per contro onere della parte che voglia confutare fruttuosamente gli esiti di verifica – come assai chiaramente evidenzia la stessa disciplina delle movimentazioni bancarie (cfr. D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2) – fornire prova che essi non trovano un riscontro attendibile in quanto smentiti, se non da prove piene, quantomeno da elementi probatori provvisti della stessa efficacia di quelli di cui si è valso il fisco. E dunque anche nell’ipotesi in cui la parte intende circoscrivere la pretesa esercitata nei suoi confronti, deducendo che l’ammontare dei ricavi determinato induttivamente debba essere ridotto delle spese occorse per la loro realizzazione, si impone l’osservanza delle regole anzidette, di modo che in difetto di prova l’abbattimento dei ricavi in ragione di costi non dimostrati non può essere operato presuntivamente d’ufficio, senza che in ciò sia ravvisabile un lesione del principio della capacità contributiva, in quanto esso non dispensa la parte dall’onere probatorio che le incombe” (Cass. n. 8811 del 2016).

9.2. Nella specie nessun accenno è rinvenibile nel motivo di ricorso alle prove, anche presuntive, addotte a dimostrazione dell’esistenza di passività da decurtare dal reddito accertato, cosicchè il motivo non può che essere rigettato.

10. Conclusivamente, quindi, va dichiarato inammissibile il primo motivo di ricorso, infondati il secondo e quinto, accolti per quanto di ragione il terzo e quarto, la sentenza impugnata va conseguentemente cassata con rinvio, anche per le spese processuali del presente giudizio di legittimità, alla Commissione tributaria regionale del Lazio, in diversa composizione.

PQM

 

Dichiara inammissibile il primo motivo di ricorso, infondati il secondo e quinto, accoglie per quanto di ragione il terzo e quarto motivo, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Commissione tributaria regionale del Lazio, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 27 febbraio 2017.

Depositato in Cancelleria il 7 giugno 2017

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