Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14083 del 11/06/2010

Cassazione civile sez. lav., 11/06/2010, (ud. 18/05/2010, dep. 11/06/2010), n.14083

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. MONACI Stefano – Consigliere –

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere –

Dott. BANDINI Gianfranco – rel. Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 26043/2006 proposto da:

B.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FONTANELLA

BORGHESE 72, presso lo studio dell’avvocato VOLTAGGIO ANTONIO, che lo

rappresenta e difende unitamente agli avvocati DE BERTOLIS ELISA,

STECCANELLA ALBERTO, giusta mandato a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

CASA DI RIPOSO PER ANZIANI UMBERTO I, in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

GIOVANNI PIERLUIGI DA PALESTRINA 19, presso lo studio dell’avvocato

TERENZIO ALESSANDRO, rappresentata e difesa dagli avvocati LONGO

FRANCESCO, MENGHINI LUIGI, giusta mandato a margine del

controricorso;

– controricorrente –

e contro

C.D., F.A., F.G., L.

A., V.M.P.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 87/2005 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE,

depositata il 12/10/2005 R.G.N. 103/04;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

18/05/2010 dal Consigliere Dott. GIANFRANCO BANDINI;

udito l’Avvocato DE BERTOLIS ELISA;

udito l’Avvocato LONGO FRANCESCO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FEDELI Massimo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

B.G., già Segretario – Direttore della Casa per Anziani Umberto I di (OMISSIS) convenne in giudizio avanti al Tribunale di Pordenone la ex datrice di lavoro e i componenti del suo Consiglio di Amministrazione – C.D., F. A., F.G., L.A. e V.M.P. -, contestando la legittimità del licenziamento disciplinare intimatogli, di cui assumeva il carattere ritorsivo e ingiurioso, e assumendo la sussistenza di vizi formali che ne escludevano la validità; chiese quindi l’applicazione della tutela reale e la condanna dei convenuti al risarcimento dei danni patrimoniali e morali.

Radicatosi il contraddittorio e sulla resistenza dei convenuti, il Giudice adito rigettò il ricorso.

La Corte d’Appello di Trieste, con sentenza del 19.5 – 14.9.2005, rigettò l’impugnazione proposta dal lavoratore, osservando, per ciò che ancora qui specificamente rileva, quanto segue:

– il B., che ne era onerato, non aveva dimostrato l’intento discriminatorio della controparte, essendosi limitato ad allegare una serie di singoli episodi, isolati e distanti, che, a suo dire avrebbero dovuto comprovare la preconcetta ostilità del Consiglio di Amministrazione nei suoi confronti, ma non aveva provato che il suddetto intento era stato l’unica causa della decisione datoriale di risolvere il rapporto;

– doveva escludersi la dedotta natura ingiuriosa del licenziamento, in particolare dovendo rilevarsi che non risultava provato che i prodotti articoli di giornale fossero stati formati per iniziativa dei soggetti convenuti;

– le deliberazioni collegiali di cui era stata contestata la validità ed esistenza risultavano essere soltanto “irregolari”, ma rendevano chiara e manifestavano la reale volontà dell’organo, posto che erano state firmate da tutti i suoi componenti (in particolare la votazione della delibera di licenziamento “a scrutinio segreto” rectius: “palese” non risultava (Scollegata ad interessi sostanziali protetti, neppure allegati, e non era quindi foriera di conseguenze concrete e meritevoli di tutela; la presenza del consigliere C., in asserita posizione di conflitto di interessi, alla votazione non si era concretata nella sua partecipazione alla decisione, nè le norme di riferimento imponevano il suo obbligo assoluto di allontanarsi dall’aula; la fotocopia della deliberazione n. 38/2001, prodotta dal B., non era probante della dedotta omessa sottoscrizione della segretaria, che risultava invece nella copia dimessa dalla resistente, e l’individuazione della verbalizzante risultava pienamente legittima in base alle precedenti determinazioni dell’Ente, rilevando la sottoscrizione apposta in calce alla verbalizzazione il giorno stesso dei fatti e attestante l’esecutività della delibera; i pareri di regolarità tecnica e contabile, di cui era stata denunciata l’omissione, avevano natura solo facoltativa e consultiva e non vincolante e, comunque, almeno in parte, erano stati dimessi agli atti);

– in merito al possibile ricorso alla tutela reale, doveva ritenersi che il B. fosse un vero e proprio dirigente, secondo quanto desumibile dalle previsioni statutarie;

– sulla base dell’esperita istruttoria doveva ritenersi la rispondenza al vero delle contestazioni poichè:

a) nelle difese del lavoratore vi era l’ammissione che egli se ne era uscito con un brusco invito a “tirare avanti” rivolto ai Consiglieri nel corso della riunione del 25.9.2001;

b) quanto all’antefatto del 9.7.2001, era risultato che il C. si era limitato a dire al B. che forse sarebbe stato meglio informare il Presidente del Consiglio di Amministrazione del fatto che era stato sentito come teste dalla Questura di Pordenone in ordine a circostanze inerenti alla gestione dell’Ente e, alla replica di essere tenuto al segreto istruttorie, null’altro aveva chiesto o preteso; difettava così la dedotta pressione nei confronti del lavoratore affinchè riferisse quanto da lui detto in Questura e non risultava provata la pretesa provocazione da parte del C.;

c) secondo le testimonianze assunte, il giorno 25.9.2001, dall’aula in cui si stava svolgendo la riunione del Consiglio di Amministrazione, provenivano delle urla e il B., uscito dalla stanza, aveva pronunciato la frase “Ancora una volta li ho dovuti mazzuolare” e, secondo quanto riferito da un teste, aveva riferito che il suo intento era quello di far capire ai suoi interlocutori chi mai comandasse;

d) il tenore e il tono delle parole pronunciate dal B. non lasciavano “ragionevoli dubbì sui fatto che il suo contegno nei confronti dei presenti alla riunione, volto a farsi temere e rispettare da costoro, “fosse quello delineato nella missiva di contestazione” infatti tale contegno confliggeva con la ricostruzione dei fatti resa dal lavoratore e, invece, ben si attagliava a quello di chi “esca da una riunione dopo avere alzato la voce e minacciato alcuno dei presenti e voglia fare vedere di quale tempra sia fatto e che era lui che decideva il da farsi”;

e) il suddetto contegno era sicuramente tale da scuotere in modo irrimediabile ogni rapporto fiduciario fra le parti, oltre ad essere riconducibile a fattispecie penalistiche e ostativo ad ogni prosecuzione del rapporto.

Avverso l’anzidetta sentenza della Corte territoriale, B. G. ha proposto ricorso per cassazione fondato su cinque motivi e illustrato con memoria.

La Casa per Anziani Umberto I ha resistito con controricorso, illustrato con memoria.

Gli intimati C.D., F.A., F. G., L.A. e V.M.P. non hanno svolto attività difensiva.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione di legge (art. 116 c.p.c.; artt. 2729 e 2697 c.c.; L. n. 604 del 1966, art. 5), nonchè vizio di motivazione, dolendosi dell’erroneo apprezzamento delle risultanze processuali e dell’incongruità dell’accertamento, svolto in via presuntiva, della sussistenza dei fatti posti a base del licenziamento. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione di legge (artt. 115 e 116 c.p.c.;

artt. 1345, 1418, 2118 e 2119 c.c.), nonchè vizio di motivazione, in merito alla dedotta ritorsività del licenziamento, osservando che la Corte territoriale non aveva esaminato il contenuto degli episodi segnalati, che erano per gran parte documentati ovvero corredati dalla richiesta di prova orale (peraltro non ammessa) ed erano tutti vicini tra loro e relativi all’intero periodo intercorrente tra l’insediamento del Consiglio di Amministrazione e il suo licenziamento.

Con il terzo motivo il ricorrente denuncia violazione di legge (artt. 97 e 113 Cost.; artt. 117 e 1375 c.c.; D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 63), nonchè vizio di motivazione, dolendosi che la Corte territoriale non abbia accolto le eccezioni svolte in ordine ai vizi da cui erano affette le delibere di sospensione e di licenziamento, trascurando di considerare, con particolare riferimento alle modalità della votazione e alla presenza di un consigliere portatore di un interesse personale nella decisione, l’incidenza dell’inosservanza delle prescritte regole rispetto ai principi di cui all’art. 97 Cost., e a quelli di correttezza e buona fede.

Con il quarto motivo il ricorrente denuncia violazione di legge (L. n. 300 del 1970, art. 18, e D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 51, comma 2, e art. 17; art. 2095 c.c.; D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 107), nonchè vizio di motivazione, circa la possibilità di riconoscere al dirigente pubblico la reintegra nel posto di lavoro, osservando che, con il negare ad esso ricorrente la richiesta tutela reale per essere stato ritenuto un vero e proprio dirigente, la Corte territoriale aveva trascurato di considerare:

a) la non trasferibilità nell’ambito del pubblico impiego privatizzato della disciplina applicata all’illegittimo licenziamento del dirigente privato;

b) l’impossibilità di ritenere, sulla scorta dei poteri effettivamente riservatigli dalla normativa statutaria e regolamentare, nonchè sulla base del raffronto con i poteri attribuiti ai dirigenti statali dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 17, che la posizione del Segretario Generale della Casa di Riposo sia quella di un vero e proprio alter ego del Consiglio di Amministrazione, che, come tale, agirebbe senza la necessità di chiedere e ottenere approvazione o autorizzazione e potrebbe essere licenziato ad nutum senza diritto alla reintegra.

Con il quinto motivo il ricorrente denuncia vizio di motivazione in ordine alla dedotta ingiuriosità del licenziamento, osservando che la materialità dei fatti, così come ingiustamente contestati, costituiva in re ipsa lesione dell’onore e del decoro di esso ricorrente e che, quanto alla lesione della reputazione, le conclusioni tratte dalla Corte territoriale apparivano contraddittorie rispetto al contenuto degli articoli di stampa dimessi in giudizio, dal quale doveva desumersi che detti articoli non potevano che essere state formati per iniziativa delle controparti.

2. La disamina del terzo motivo di ricorso è logicamente prioritaria.

Deve al riguardo rilevarsi l’inammissibilità della (ulteriore) ragione di doglianza, svolta dal ricorrente soltanto con la memoria ex art. 378 c.p.c., e ripresa in sede di discussione orale, inerente all’asserita incompetenza dell’organo collegiale (Consiglio di Amministrazione) che ha adottato la delibera di licenziamento, trattandosi di una ragione di (pretesa) illegittimità del recesso datoriale fondata su causa petendi diversa da quelle ritualmente introdotte in giudizio ed integrante come tale la proposizione di una nuova domanda implicante l’esigenza di specifici accertamenti di fatto (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 13291/2003; 8264/2005;

15795/2008). In ordine alle censure ritualmente sollevate, deve osservarsi, in linea generale, che le regole stabilite per l’adozione degli atti della pubblica amministrazione trovano applicazione anche in relazione agli atti di gestione del pubblico impiego privatizzato, salva la presenza di diverse disposizioni specificamente dettate per questi ultimi.

Nel caso che ne occupa va considerato che il D.Lgs. n. 207 del 2001, art. 5, (Riordino del sistema delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza, a norma della L. 8 novembre 2000, n. 328, art. 10, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 126 del 1 giugno 2001) ha previsto, al comma 1, che “Le istituzioni che svolgono direttamente attività di erogazione di servizi assistenziali sono tenute a trasformarsi in aziende pubbliche di servizi alla persona e ad adeguare i propri statuti alle previsioni del presente capo entro due anni dall’entrata in vigore del presente decreto legislativo”.

L’art. 21 (disposizione transitoria) del medesimo testo legislativo ha disposto che “A norma dell’art. 30 della legge, alla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo è abrogata la disciplina relativa alle IPAB prevista dalla L. 17 luglio 1890, n. 6972, e dai relativi provvedimenti di attuazione” (primo periodo) e, al contempo, che “Nel periodo transitorio previsto per il riordino delle istituzioni, ad esse seguitano ad applicarsi le disposizioni previgenti, in quanto non contrastanti con i principi della libertà dell’assistenza, con i principi della legge e con le disposizioni del presente decreto legislativo” (secondo periodo).

Il fatto storico negativo – ossia il non ancora avvenuto riordino dell’istituzione al momento dell’adozione della Delibera n. 45 del 30.10.2001, con cui venne deciso di procedere al licenziamento di che trattasi – al quale la norma transitoria ricollega la perdurante applicabilità della normativa previgente, non risulta essere stato oggetto di contestazione e, comunque, deve ritenersi essere stato implicitamente accertato dalla Corte territoriale, che, proprio con riferimento alle dedotte violazioni di tale normativa, ha riconosciuto la sussistenza dei vizi denunciati, pur ritenendo che gli stessi non avessero compromesso la validità e l’esistenza delle delibere, giudicate solo “irregolari”.

Deve quindi convenirsi, per quanto qui specificamente rileva, che, all’epoca della surricordata delibera del Consiglio di Amministrazione, trovavano ancora applicazione, nei limiti indicati dalla ricordata norma transitoria, le disposizioni del R.D. 5 febbraio 1891, n. 99, con il quale erano stati approvati i regolamenti sulle istituzioni pubbliche di beneficenza in esecuzione della L. 17 luglio 1890, n. 6972, e, in particolare, l’art. 48, comma 1, a mente del quale “Le votazioni si fanno per appello nominale, od a voti segreti: hanno sempre luogo a voti segreti quando si tratti di questioni concernenti persone”.

La natura imperativa di tale ultima norma, nella parte in cui prevede che la votazione abbia luogo a voti segreti, discende sia dal suo inequivoco tenore testuale (“hanno sempre luogo”), sia dalla ratio che la sottende, pianamente individuabile nella tutela della imparzialità dell’azione dell’Ente, attraverso la garanzia dell’indipendenza funzionale e dell’assenza di condizionamenti esterni a favore dei soggetti chiamati a formare, con il loro voto, le decisioni dell’organo collegiale; valori, quelli che la norma persegue, senz’altro riconducibili, nell’odierno ordinamento, ai principi di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione dettati dall’art. 97 Cost., ai quali le Pubbliche Amministrazioni devono ispirare il proprio operare anche nell’ambito degli atti di gestione dei rapporti di lavoro con i propri dipendenti e che, sul piano privatistico, trovano il loro corrispondente nel previsto rispetto dei principi di correttezza e buona fede.

Contrariamente a quanto sostenuto dall’intimata Casa di Riposo, la questione del licenziamento del dipendente non attiene soltanto ai fatti esaminati, ma inerisce direttamente anche alla persona alla quale tali fatti sono addebitati, il cui comportamento deve essere valutato sia nella sua portata oggettiva che soggettiva, anche con riferimento alla sussistenza e alla gravità della violazione una Ne consegue che la violazione della norma suddetta (non contestata e, comunque, implicitamente riconosciuta in fatto dalla sentenza impugnata) ha direttamente inciso sul corretto formarsi della deliberazione con la quale la parte datoriale pubblica ha ritenuto di dover licenziare l’odierno ricorrente, deliberazione che non si configura come atto presupposto del licenziamento, ma costituisce essa stessa l’atto unilaterale di recesso, destinato a produrre effetto, stante la sua natura recettizia, una volta entrato nella sfera di conoscenza del destinatario (art. 1334 c.c.).

Atteso poi che la persona destinataria dell’atto riveste uno specifico e personale interesse a che le determinazioni della parte datoriale che la riguardano si formino nel rispetto degli indicati canoni di imparzialità, correttezza e buona fede, deve convenirsi sulla sussistenza della sua legittimazione a far valere la violazione delle norme procedurali a tal fine imposte.

Ne discende che, nel caso di specie, la violazione della norma imperativa disciplinante le modalità della votazione non ha costituito una mera irregolarità formale, ma ha irrimediabilmente inciso sul procedimento di determinazione dell’Ente e, quindi, sulla validità ed efficacia del licenziamento dell’odierno ricorrente. Il motivo di ricorso all’esame va quindi accolto, restando assorbita la disamina dei profili di doglianza relativi alle altre dedotte violazioni di legge, con affermazione del seguente principio di diritto: “Qualora una norma di legge (nella specie, come detto, il R.D. 5 febbraio 1891, n. 99, art. 48, comma 1) affidi ad un organo collegiale l’inflizione di una sanzione disciplinare ed imponga il segreto del voto, la violazione di quest’obbligo – compatibile con precedenti e necessariamente provvisorie manifestazioni d’opinione – produce l’invalidità della deliberazione e non la semplice sua irregolarità; infatti la legittimità sostanziale della sanzione è connessa anche alla tutela dell’interesse del lavoratore incolpato al corretto svolgimento del procedimento disciplinare e, in particolare, alla neutralità dei giudicanti, liberi da pressioni esterne o da semplici condizionamenti psicologici”.

3. Il primo e il secondo motivo di ricorso restano parimenti assorbiti.

4. La sentenza impugnata ha ritenuto la validità ed efficacia del licenziamento impugnato; tale statuizione, a prescindere dalla sua condivisibilità, è di per sè idonea a sostenere il decisum, risultando pertanto del tutto superflua, nell’ottica della decisione adottata, la discettazione sulla natura di effettivo dirigente o meno dell’odierno ricorrente, posto che la questione avrebbe potuto avere rilevanza, almeno astrattamente, solo nella diversa prospettiva della ritenuta inefficacia del licenziamento e della conseguente necessità di dovere affermare (o negare) la richiesta tutela reale.

Ne deriva che le considerazioni della Corte territoriale sulla posizione funzionale dell’odierno ricorrente risultano svolte solo ad abundantiam, non costituiscono ratio decidendi della decisione assunta, sono improduttive di effetti giuridici e, come tali, non sono suscettibili di censura in sede di legittimità (cfr, ex pluribus, Cass., nn. 10420/2005; 11160/2004; 10241/2000; 301/1996;

cfr, altresì, nell’ipotesi di affermazioni relative al merito della domanda nella già riconosciuta carenza di potere giurisdizionale ovvero nella già affermata statuizione di inammissibilità, ex pluribus, Cass., SU, nn. 8087/2007; 3840/2007).

Dal che discende l’inammissibilità del quarto motivo di ricorso, che appunto tali ultronee considerazioni censura.

5. Premesso che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, il licenziamento, per dar luogo ad un danno risarcibile secondo il diritto comune, deve concretarsi, per la forma o per le modalità del suo esercizio e per le conseguenze morali e sociali che ne derivano, in un atto “ingiurioso”, cioè lesivo della dignità e dell’onore del lavoratore licenziato, connotazione che non s’identifica, nè va confusa, con la mancanza di giustificazione (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 15496/2008; 7479/2003; 5850/1997; 1219/1994), deve rilevarsi che la deduzione dei vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perchè la citata norma non conferisce alla Corte di Cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico – formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito, al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento, e, all’uopo, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (cfr, ex plurimis, Cass., SU, nn. 5802/1998; 13045/1997). Nel caso che ne occupa la Corte territoriale ha escluso la pretesa l’ngiuriosità del licenziamento, nei termini sinteticamente già indicati nello storico di lite, attraverso una motivazione congrua e priva di elementi di contraddittorietà, tanto da non essere scalfita dalle censure del ricorrente, che si risolvono in un’inammissibile (in questa sede) richiesta di riesame delle risultanze fattuali. 6. In definitiva il solo terzo motivo di ricorso merita accoglimento nei termini anzidetti; la sentenza impugnata va perciò cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio al Giudice indicato in dispositivo, che deciderà conformandosi ai suindicati principi e provvedere altresì sulle spese del giudizio di cassazione.

PQM

La Corte accoglie il terzo motivo di ricorso, dichiara inammissibile il quarto, rigetta il quinto e dichiara assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’Appello di Venezia.

Così deciso in Roma, il 18 maggio 2010.

Depositato in Cancelleria il 11 giugno 2010

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