Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14082 del 11/06/2010

Cassazione civile sez. lav., 11/06/2010, (ud. 18/05/2010, dep. 11/06/2010), n.14082

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. MONACI Stefano – Consigliere –

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere –

Dott. BANDINI Gianfranco – rel. Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 25736/2006 proposto da:

MUZIO G.A.M. S.R.L., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZALE CLODIO 22,

presso lo studio dell’avvocato RINALDI PIETRO, che la rappresenta e

difende, giusta delega in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

I.R., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CARLO POMA,4,

presso lo studio dell’avvocato DE MARCHIS GOMEZ CARLO BORRERO, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato CIANNAVEI ANDREA,

giusta delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 943/2005 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 29/09/2005 R.G.N. 5178/03;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

18/05/2010 dal Consigliere Dott. BANDINI GIANFRANCO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FEDELI Massimo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

I.R. convenne in giudizio avanti al Tribunale di Roma la Muzio Gam srl e premesso che:

– aveva lavorato alle dipendenze della convenuta come coordinatrice di negozio, prima in quello di via (OMISSIS) e poi in quello di via (OMISSIS), dal 15.11.1999 al 7.7.2000, venendo tuttavia regolarizzata come lavoratrice subordinata e con inquadramento nel 3 livello CCNL Commercio solo dal 3.1.2000;

– il 7.7.2000, avendo rifiutato di anticipare di un’ora l’inizio de lavoro per provvedere alla pulizia del locale, era stata licenziata oralmente;

– con telegramma dello stesso giorno aveva impugnato il licenziamento orale;

su tali premesse chiese il riconoscimento delle differenze retributive e dell’illegittimità del licenziamento, con i consequenziali provvedimenti.

Sulla resistenza della parte datoriale, che aveva altresì eccepito il volontario abbandono del posto di lavoro da parte della ricorrente in data 5.7.2000, il Giudice adito riconobbe l’inizio del rapporto di lavoro subordinato nel novembre 1999, accolse parzialmente le domande afferenti alle differenze retributive, dichiarò l’inefficacia del recesso e condannò la convenuta alla riassunzione e al pagamento delle retribuzioni non corrisposte dalla data del licenziamento fino a quella della pronuncia.

La Corte d’Appello di Roma, con sentenza del 4.2 – 29.9.2005, respinse l’appello proposto dalla Muzio Gam srl, osservando, a sostegno del decisum, quanto segue:

– alla luce delle dichiarazioni di una testimone e del contenuto della dimessa “ricevuta per prestazioni occasionali” relativa al lavoro prestato nel mese di dicembre 1999 doveva ritenersi confermata la prospettazione della lavoratrice in ordine all’iniziale prestazione dell’attività lavorativa presso il negozio di via (OMISSIS) e al successivo trasferimento presso quello di via (OMISSIS);

– in ordine al licenziamento, doveva prescindersi dalla presenza in atti della lettera raccomandata del 10.7.2000, con la quale la Muzio Gam srl “ribadiva” il licenziamento della I., e degli afferenti avvisi di ricevimento postali, dovendo ritenersi che la loro produzione era avvenuta, tardivamente, soltanto in grado d’appello, posto che tali documenti non figuravano nell’indice di deposito di quelli di prime cure sottoscritto dal cancelliere, nè risultavano contenuti nell’elenco in calce alla memoria di costituzione avanti al Tribunale;

– dalle testimonianze acquisite non emergeva il volontario abbandono del posto di lavoro da parte della I. il 5.7.2000;

– sempre in base alle testimonianze, lette in correlazione con le allegazioni delle parti e con le risultanze documentali, doveva ritenersi che l’alterco fra il titolare della Società e la I., derivante dalla questione dell’orario, andava collocato in una sera fra il 5 e il 6 luglio 2000 e che in una di quelle sere non si era concretizzato alcun licenziamento (il titolare della Società aveva infatti preannunciato un’ammonizione scritta e praticato un richiamo orale), posto che il telegramma di contestazione del licenziamento verbale risultava inviato alle ore 14.45 del 7 luglio successivo; – la lettera della parte datoriale, datata 7.7.2000, di comunicazione del licenziamento per giusta causa, non era idonea a dimostrare il requisito della forma scritta del recesso, siccome diretta a domicilio diverso da quello effettivo della lavoratrice (annotato nel libro matricola e nella ricordata ricevuta per prestazioni occasionali), ma, se riguardata in relazione ai suoi prevedibili tempi di recapito e a quelli del telegramma della lavoratrice, si appalesava come un “tentativo di neutralizzare la contestazione del recesso verbale formulata col richiamato telegramma” e costituiva prova della prospettazione della I. circa il verificarsi della sua estromissione dal lavoro, senza il rispetto di alcun requisito formale, nella mattinata del 7.7.2000.

Avverso l’anzidetta sentenza della Corte territoriale, la Muzio Gam srl ha proposto ricorso per cassazione fondato su quattro motivi.

L’intimata I.R. ha resistito con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia errata valutazione delle prove e vizio di motivazione, osservando che:

a) quanto alla data di inizio del rapporto, la testimonianza esaminata dalla Corte territoriale, se riferita agli indicati orari di lavoro, doveva escludere lo svolgimento di attività lavorativa da parte della I. nel mese di novembre; la stessa I., in sede di interrogatorio libero, aveva dichiarato che il negozio di via (OMISSIS) era un punto vendita gestito dalla ditta individuale M.P. e non da essa ricorrente, così come indicato anche nella memoria di costituzione di primo grado; b) quanto alla cessazione del rapporto di lavoro, la corretta lettura delle testimonianze conduceva a ritenere provato che il 5.7.2000 la I. si era allontanata dal negozio senza preavviso e senza più ripresentarsi; la Corte territoriale non aveva considerato la deposizione di una testimone secondo cui la I. non era stata licenziata, ma richiamata verbalmente.

Con il secondo motivo la ricorrente denuncia ulteriormente errata valutazione delle prove e vizio di motivazione, ribadendo che, dalle testimonianze assunte, risultava il volontario allontanamento della lavoratrice e la sua successiva mancata presentazione. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia violazione degli artt. 414 e 434 c.p.c., osservando che del documento che la Corte ha ritenuto tardivamente prodotto, pur se non riportato nell’indice, era stata fatta menzione nella memoria di costituzione di primo grado e nelle note conclusive autorizzate e, in ogni caso, quale prova precostituita, avrebbe potuto essere dimesso anche in grado d’appello. Con il quarto motivo la ricorrente denuncia violazione dell’art. 2119 c.c., L. n. 604 del 1966, art. 1 e art. 416 c.p.c., nonchè vizio di motivazione ed erronea valutazione delle prove, osservando che legittimamente essa ricorrente aveva esercitato il recesso ad nutum, ritualmente posto in essere con la lettera raccomandata del 7.7.2000.

2. La doglianza inerente alla data dell’inizio dell’attività lavorativa (primo profilo del primo mezzo) presenta palesi elementi di inammissibilità per mancato rispetto del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, non essendo stato ivi trascritto (se non per brevi brani, di per sè neppure di portata decisiva) il contenuto delle dichiarazioni rese dalla I. e dalla teste le cui dichiarazioni si assumono male interpretate; nè è stato indicata la fonte probatoria dell’assunto secondo cui il negozio di via (OMISSIS) non era gestito dalla ricorrente, ma dalla ricordata impresa individuale. Inoltre, per come è svolta, tale doglianza si pone in contrasto con il consolidato principio secondo cui, a fronte di una motivazione che, per quanto già esposto nello storico di lite, si presenta congrua e priva di elementi di contraddittorietà, il ricorrente per cassazione non può limitarsi a sollecitare una lettura delle risultanze processuali diversa da quella accolta nella sentenza impugnata, poichè il giudice di legittimità non ha il potere di riesaminare il merito della vicenda processuale e di sostituire una propria valutazione a quella data dal giudice di merito, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte da quel giudice (cfr, ex plurimis, Cass., n. 27464/2006); nè, per altro verso, le argomentazioni svolte appaiono caratterizzate dal necessario grado di specificità, non considerando che la Corte territoriale è pervenuta alle contestate conclusioni attraverso la disamina complessiva del materiale probatorio, tenendo particolarmente conto, oltre che delle dichiarazioni testimoniali, anche del contenuto della “ricevuta per prestazioni occasionali” rilasciata dalla parte datoriale.

La censura all’esame va quindi disattesa.

3. Per quanto riguarda la questione della risoluzione del rapporto appare prioritaria la disamina del terzo mezzo, inerente la ritenuta (dalla Corte territoriale) inammissibilità della produzione della lettera di licenziamento del 10.7.2000.

Al riguardo deve rilevarsi che il motivo non soddisfa il requisito di autosufficienza del ricorso per cassazione, non essendo stati riportati i passi degli scritti difensivi di primo grado ove, secondo l’assunto, sarebbe stato fatto riferimento a tale missiva.

Anche in disparte da tale rilievo, l’argomento utilizzato non è comunque conducente, posto che l’avere fatto riferimento ad un atto negoziale non dimostra che di tale atto sia stata fatta tempestiva produzione in giudizio.

In diritto deve poi riconoscersi l’infondatezza dell’assunto secondo cui il documento in parola avrebbe potuto essere prodotto (per la prima volta) anche in grado d’appello, essendosi ormai consolidato, nella giurisprudenza di questa Corte, l’opposto principio, secondo cui nel rito del lavoro, in base al combinato disposto dell’art. 416 c.p.c., comma 3, (che stabilisce che il convenuto deve indicare a pena di decadenza i mezzi di prova dei quali intende avvalersi, ed in particolar modo i documenti, che deve contestualmente depositare) e art. 437 c.p.c., comma 2, (che, a sua volta, pone il divieto di ammissione in grado di appello di nuovi mezzi di prova, fra i quali devono annoverarsi anche i documenti), l’omessa indicazione, nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, dei documenti e l’omesso deposito degli stessi contestualmente a tale atto, determinano la decadenza del diritto alla produzione dei documenti medesimi, salvo che la produzione non sia giustificata dal tempo della loro formazione o dall’evolversi della vicenda processuale successivamente al ricorso ed alla memoria di costituzione (ad esempio, a seguito di riconvenzionale o di intervento o chiamata in causa del terzo), con la conseguenza che la irreversibilità della estinzione del diritto di produrre i documenti, dovuta al mancato rispetto di termini perentori e decadenziali, rende il diritto stesso insuscettibile di reviviscenza in grado di appello (cfr, ex plurimis, Cass., SU, n. 8202/2005; Cass., n. 5465/2006).

4. Le altre censure, tra loro connesse, vanno esaminate congiuntamente.

Al riguardo deve premettersi che la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione del principio, reiteratamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui, qualora il lavoratore deduca di essere stato licenziato oralmente e faccia valere in giudizio la inefficacia o invalidità di tale licenziamento, chiedendo la condanna del datore di lavoro al pagamento delle retribuzioni fino alla riammissione in servizio, mentre il datore di lavoro, proponendo un’eccezione in senso stretto, deduca la sussistenza invece di dimissioni del lavoratore, è il lavoratore che deve provare l’esistenza del rapporto di lavoro e la sua estromissione, mentre ricade sul datore di lavoro l’onere di provare i fatti su cui si fonda la sua eccezione (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 14977/2000; 7614/2005). Nello svolgimento della susseguente indagine la Corte territoriale ha argomentato, secondo quanto più sopra ricordato, in termini coerenti con le risultanze istruttorie acquisite, seguendo un percorso argomentativo lineare e scevro da elementi di contraddittorietà. Trovano pertanto applicazione i principi, più volte affermati dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui la valutazione delle risultanze probatorie rientra nei compiti istituzionali del giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili e idonee alla formazione dello stesso e di disattendere taluni elementi ritenuti incompatibili con la decisione adottata, essendo sufficiente, ai fini della congruità della motivazione, che da questa risulti che il convincimento si sia realizzato attraverso una valutazione dei vari elementi processualmente acquisiti, considerati nel loro complesso, pur senza un’esplicita confutazione degli altri elementi non menzionati e non accolti, anche se allegati, purchè risulti logico e coerente il valore preminente attribuito, sia pure per implicito, a quelli utilizzati (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 24589/2005; 13910/2001); di conseguenza, la deduzione con il ricorso per Cassazione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata, per omessa, errata o insufficiente valutazione delle prove, non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, restando escluso che le censure concernenti il difetto di motivazione possano risolversi nella richiesta alla Corte di legittimità di una interpretazione delle risultanze processuali diversa da quella operata dal giudice di merito (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 27464/2006; 3994/2005;

11933/2003; 9716/2000).

Ciò premesso, le censure all’esame non appaiono pertanto idonee a scalfire le conclusioni a cui è pervenuta la Corte territoriale, poichè: a) non svolgono una compiuta critica al complesso dell’iter argomentativo seguito nella sentenza impugnata, laddove ha preso in esame le testimonianze in una con le risultanze documentali; b) si risolvono nella proposizione di una diversa lettura, inammissibile in sede di legittimità, di alcune emergenze istruttorie; c) espongono in modo solo frammentario, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, le acquisizioni di cui la Corte non avrebbe (o avrebbe in modo inadeguato) tenuto conto; d) non censurano specificamente le ragioni per le quali la Corte territoriale ha ritenuto che la comunicazione di licenziamento del 7.7.2000 non era idonea a dimostrare il requisito della forma scritta del recesso (fermo restando che, per quanto già osservato, nessun rilievo può essere attribuito alla successiva comunicazione di licenziamento tardivamente prodotta).

5. In definitiva il ricorso va rigettato. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione delle spese di lite, che liquida in Euro 18,00 oltre ad Euro 3.000,00 (tremila) per onorari, spese generali, IVA e CPA come per legge.

Così deciso in Roma, il 18 maggio 2010.

Depositato in Cancelleria il 11 giugno 2010

 

 

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