Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14082 del 07/07/2020

Cassazione civile sez. lav., 07/07/2020, (ud. 11/02/2020, dep. 07/07/2020), n.14082

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAIMONDI Guido – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. PICCONE Valeria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 4146/2017 proposto da:

C.I.T. COSTRUZIONI IMPIANTI TERMOTECNICI DI D.G. E.

& C. S.A.S. in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA LUIGI RIZZO 72, presso lo

studio dell’avvocato PAOLO CELLI, rappresentata e difesa

dall’avvocato GIOVANNI REHO;

– ricorrente –

contro

UNIPOLSAI ASSICURAZIONI S.P.A. (già FONDIARIA SAI S.P.A., quale

incorporante di UNIPOL ASSICURAZIONI S.P.A., MILANO ASSICURAZIONI

S.P.A., PREMAFIN FINANZIARIA S.P.A.), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

DELLE FORNACI 38, presso lo studio dell’avvocato FABIO ALBERICI, che

la rappresenta e difende unitamente all’avvocato FILIPPO MENICHINO;

– controricorrente –

e contro

A.N., BECROMAL S.P.A., R.M.M.,

R.L.;

– intimati –

e contro

AIG EUROPE LTD, in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA DELL’UNITA’ 13, presso lo

studio dell’avvocato LUISA RANUCCI, rappresentata e difesa

dall’avvocato PAOLO FERRATI;

– resistente –

avverso la sentenza n. 991/2015 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 06/02/2016, R.G.N. 1215/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

11/02/2020 dal Consigliere Dott. VALERIA PICCONE;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CIMMINO Alessandro, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato LORENZO GABRIELLI per delega verbale avvocato

GIOVANNI REHO;

udito l’Avvocato SARA CISTRIONI per delega verbale avvocato FILIPPO

MENICHINO.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 27 ottobre 2015, la Corte d’appello di Milano ha respinto l’impugnazione proposta dalla C.I.T. s.a.s. avverso la sentenza del locale Tribunale che ne aveva ritenuta la civile responsabilità per l’infortunio occorso il (OMISSIS) a A.N., condannandola, in solido con Becromal S.p.a. e Rimon s.r.l. al pagamento dei danni non patrimoniale e da perdita della capacità lavorativa specifica respingendo, altresì, la domanda di manleva avanzata dalla C.I.T. nei confronti di Milano Assicurazioni S.p.A..

1.1. In particolare, il giudice di secondo grado ha ritenuto che la responsabilità di C.I.T. s.a.s. oltre che degli altri soggetti in relazione ai quali era stato compiuto l’accertamento dal primo giudice, discendesse dal fatto che la stessa società era stata appaltatrice delle opere di manutenzione straordinaria – consistenti nell’ampliamento e nel potenziamento di impianti e macchine industriali – e subappaltate alla Rimon s.r.l. presso lo stabilimento Becromal S.p.A. in (OMISSIS) nel quale era avvenuto l’infortunio; segnatamente, ivi, attraversando una buca di due metri di lunghezza e altri due di larghezza, creata per raggiungere i locali interrati mediante una semplice scala a pioli, il dipendente A. era caduto procurandosi le gravi lesioni subite.

La Corte ha poi negato che l’utilizzazione della scala stessa potesse configurare un concorso di colpa del danneggiato, dovendo escludersi in tale comportamento quei tratti di anomalia ed imprevedibilità necessari per il concorso medesimo.

2. Per la cassazione della sentenza propone ricorso, assistito da memoria, la C.I.T. s.a.s., affidandolo a quattro motivi.

2.1. Resiste, con controricorso, Unipol Assicurazioni S.p.A., AIG Europe LTD ha soltanto presentato memoria, mentre A.N., Becromal S.p.a., R.M.M. e R.L. quali eredi di R.M., socio della Rimon s.r.l., sono rimasti intimati.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Con il primo motivo di ricorso si deduce la violazione dell’art. 2087 c.c., allegandosi il carattere esorbitante della condotta del lavoratore in quanto idonea ad escludere il nesso di causalità.

1.1. Con il secondo motivo si deduce la violazione degli artt. 1362 e 1363 c.c., in ordine alla operatività della polizza assicurativa e delle clausole ad essa connesse, con il terzo motivo, la violazione dell’art. 1367 c.c., per aver la Corte adottato una interpretazione della condizione particolare sub O) di polizza atta a privarla di effetti, mentre, infine, con il quarto motivo si denunzia la violazione dell’art. 1370 c.c., in punto di clausola ambigua da interpretarsi a sfavore del predisponente e, quindi, della società assicuratrice.

2. Il primo motivo non può trovare accoglimento.

Va premesso, al riguardo, che, secondo quanto previsto dall’art. 2087 c.c., il datore di lavoro, nell’esercizio dell’impresa, deve adottare tutte le cautele necessarie per tutelare l’integrità fisica e la personalità dei lavoratori. A tal fine, egli deve tenere conto sia della particolarità del lavoro che dell’esperienza e della tecnica. La norma in questione si pone come principio generale, che trova una migliore esplicazione nella normativa speciale in materia di prevenzione e assicurazione degli infortuni sul lavoro, ma i cui confini sono tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro; essa ha valore integrativo rispetto a tale legislazione e costituisce una norma di chiusura del sistema antinfortunistico.

L’art. 2087 c.c., impone all’imprenditore, in ragione della sua posizione di garante dell’incolumità fisica del lavoratore, di adottare tutte le misure atte a salvaguardare chi presta la propria attività lavorativa alle sue dipendenze.

Come noto, le misure da adottare vanno distinte tra: 1) quelle tassativamente imposte dalla legge; 2) quelle generiche dettate dalla comune prudenza; 3) quelle ulteriori che in concreto si rendano necessarie.

Secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità (cfr., fra le più recenti, Cass. n. 26495 del 19/10/2018) la norma in esame non contempla una ipotesi di responsabilità oggettiva a carico del datore di lavoro, con la conseguenza di ritenerlo responsabile ogni volta che il lavoratore abbia subito un danno nell’esecuzione della prestazione lavorativa, occorrendo sempre che l’evento sia riferibile a sua colpa, per violazione di obblighi di comportamento, concretamente individuati, imposti da norme di legge e di regolamento o contrattuali ovvero suggeriti dalla tecnica e dall’esperienza (ex plurimis, Cass. n. 3785 del 2009; Cass. n. 6018 del 2000, Cass. n. 1579 del 2000).

D’altro canto, ai fini dell’accertamento della responsabilità datoriale, incombe sul lavoratore che lamenti di aver subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonchè il nesso tra l’uno e l’altro, mentre grava sul datore di lavoro – una volta che il lavoratore abbia provato le predette circostanze – l’onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo (ex plurimis, Cass. n. 24742 del 2018; Cass. n. 14865 del 2017; Cass. n. 2038 del 2013; Cass. n. 3788 del 2009; Cass. n. 12467 del 2003; di recente, in motivazione, Cass. n. 12808 del 2018).

2.1. E’ evidente, quindi, in base alla giurisprudenza di questa Corte, che il mero fatto di lesioni riportate dal dipendente in occasione dello svolgimento dell’attività lavorativa non determina di per sè l’addebito delle conseguenze dannose al datore di lavoro, occorrendo la prova, tra l’altro, della nocività dell’ambiente di lavoro (cfr., tra le altre, Cass. n. 2038 del 2013).

La responsabilità del datore di lavoro, quindi, va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge ma anche suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento. Ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonchè il nesso tra l’uno e l’altro, e solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi.

Nondimeno, va rilevato che (V. sul punto, Cass. n. 3786 del 2009 e Cass. n. 13956 del 2012, pur non configurando la responsabilità dell’imprenditore ex art. 2087 c.c., un’ipotesi di responsabilità oggettiva, essa, tuttavia, non è circoscritta alla violazione di regole d’esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, sanzionando anche, alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l’omessa predisposizione di tutte le misure e cautele atte a preservare l’integrità psicofisica dei lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di indagare sull’esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico (si veda, altresì, Cass. n. 24742 del 2018).

Va infine osservato che il datore di lavoro è responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore, sia se ometta di adottare le idonee misure protettive, sia se non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente (Cass. n. 5695 del 2015; Cass. n. 27127 del 2013; Cass. n. 9661 del 2012; Cass. n. 5493 del 2006).

3. Orbene, nel caso di specie, la Corte, ampiamente motivando sul punto, ha accertato che il lavoratore era intento a coadiuvare i propri colleghi nel montaggio di un quadro elettrico, realizzando staffe di metallo e saldature di particolari canaline, operazione in rapporto funzionale con l’attività di controllo della temperatura e del flusso dell’acqua di raffreddamento quale attività rientrante nella manutenzione meccanica oggetto di subappalto in capo alla società Becromal.

Essa ha, quindi, ritenuto che la responsabilità di tutti i soggetti coinvolti, a partire dalla C.I.T. derivasse dal fatto che quest’ultima fosse appaltatrice delle opere di manutenzione straordinaria appaltate alla Rimon s.r.l. e subappaltate alla Becromal.

3.1. Ha poi accertato, sul punto che in questa sede segnatamente rileva, che la circostanza che ai medesimi locali in cui doveva svolgersi attività lavorativa si potesse accedere mediante scale di marmo, non fosse idonea ad esonerare da responsabilità la società, non potendosi escludere che per comodità il personale scendesse nello scantinato dalla bocca di lupo come effettivamente di frequente accadeva secondo le dichiarazioni del teste P.; ne è conseguita, secondo la Corte, la responsabilità del datore di lavoro che avrebbe dovuto imporre che per elementare regola di prudenza non potesse essere utilizzato uno strumento pericolosamente instabile, come una scala a pioli, fosse stata o meno data in dotazione, nè l’utilizzazione della scala stessa, secondo il Collegio, poteva comportare un concorso di colpa dell’infortunato, non presentando nel caso concreto, come accertato in giudizio, quei tratti di anomalia ed imprevedibilità richiesti per tale concorso.

A conferma di ciò, il giudice di secondo grado ha rilevato che dopo l’infortunio subito dall’ A., l’anomalo ingresso non era mai stato chiuso, bensì dotato di una scala fissa in legno con corrimano, a dimostrazione della necessità di un accesso per quella via allo scantinato ove si effettuavano i lavori.

3. Ritiene il Collegio che tale motivazione consenta di reputare congruamente applicati i principi dettati in sede di legittimità in tema di obblighi di protezione gravanti sul datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 c.c..

Invero, l’unica verifica che può essere effettuata in questa sede induce ad affermare che la valutazione, eminentemente fattuale, della Corte territoriale circa la ricostruzione dell’accaduto, appare condotta secondo i canoni che presiedono alle cautele ed alla responsabilità del datore di lavoro per l’incolumità del lavoratore, come ricostruiti in sede di legittimità.

In particolare, dalle argomentazioni del Collegio deve escludersi che, in base ad una valutazione fattuale, del tutto sottratta al sindacato di legittimità, il comportamento del dipendente avesse assunto quei tratti di esorbitanza configurabili in termini di anomalia imprevedibile idonea ad interrompere il nesso di causalità fra l’ambiente nocivo, adeguatamente dimostrato nella specie alla luce della utilizzazione della scala a pioli nel lungo pertugio, ed il danno riportato.

4. Il secondo, il terzo ed il quarto motivo, da esaminarsi congiuntamente per l’intima connessione, sono infondati e, pertanto, non possono essere accolti.

Occorre premettere, al riguardo, che l’interpretazione del contratto può essere sindacata in sede di legittimità solo nel caso di violazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale, la quale non può dirsi esistente sul semplice rilievo che il giudice di merito abbia scelto una piuttosto che un’altra tra le molteplici interpretazioni del testo negoziale, sicchè, quando di una clausola siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito alla parte, che aveva proposto l’interpretazione disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del fatto che ne sia stata privilegiata un’altra (sul punto, ex plurimis, Cass. n. 11254 del 10/05/2018).

D’altro canto, l’art. 1362 c.c., allorchè nel comma 1, prescrive all’interprete di indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti senza limitarsi al senso letterale delle parole, non svaluta l’elemento letterale del contratto ma, al contrario, intende ribadire che, qualora la lettera della convenzione, per le espressioni usate, riveli con chiarezza ed univocità la volontà dei contraenti e non vi sia divergenza tra la lettera e lo spirito della convenzione, una diversa interpretazione non è ammissibile (Cfr., fra le più recenti, Cass. n. 21576 del 21/08/2019).

Nel caso di specie, la Corte territoriale, con valutazione conforme ai criteri ermeneutici che presiedono all’interpretazione della clausole negoziali, ha confermato la decisione di primo grado secondo cui doveva essere esclusa l’operatività della garanzia assicurativa di Milano Assicurazioni S.p.A., reputandosi non coperti dalla polizza i danni riportati dai dipendenti dei subappaltatori in quanto non rientranti nella definizione di terzi ai sensi dell’art. 2, lett. D) delle condizioni generali – clausola che esclude dal novero dei terzi i subappaltatori e loro dipendenti nonchè tutti coloro che, indipendentemente dalla natura del loro rapporto con l’assicurato, subiscono il danno in conseguenza della loro partecipazione manuale all’attività a cui si riferisce l’assicurazione – sul presupposto che Rimon s.r.l., fosse un subappaltatore di C.I.T. s.a.s. e l’ A. dipendente di quest’ultima.

La Corte ha altresì confermato la conclusione del Tribunale nell’escludere l’applicazione della condizione particolare di cui alla lett. O), secondo cui, in deroga al disposto del citato art. 2 lett. d) delle condizioni generali, non sono considerati terzi i titolari e dipendenti di ditte che occasionalmente partecipino all’attività formante oggetto dell’assicurazione.

Secondo la Corte quindi la deroga all’esclusione della copertura assicurativa per i terzi richiamata dalla difesa della C.I.T., si riferisce a chi partecipi occasionalmente all’attività di impresa, circostanza esclusa nella fattispecie in esame, ove si è ritenuto accertato un rapporto di subappalto per la manutenzione straordinaria di impianti, per definizione incompatibile con la partecipazione occasionale all’attività imprenditoriale della società appaltatrice, ed in concreto svoltasi con caratteristiche atte ad escluderne qualsivoglia occasionalità della partecipazione di Rimon s.r.l. e del suo dipendente A. all’attività oggetto del contratto di assicurazione.

4. Come è evidente, tale valutazione, del tutto immune da vizi logici e non implausibile conformemente alla giurisprudenza di questa Corte, non può che dirsi sottratta al sindacato di legittimità, nè sussiste alcuna ambiguità nella interpretazione della clausola contrattuale (con connessa violazione dell’art. 1370 c.c.), invece perfettamente chiara nel suo contenuto – ambiguità che condurrebbe, secondo la tesi di parte ricorrente, ad optare per una interpretazione favorevole a se stessa vertendosi in tema di regolamento contrattuale predisposto dalla società assicuratrice.

4.1. Alla luce delle suesposte argomentazioni, il ricorso deve essere respinto.

5. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo in favore dell’unica parte ritualmente costituita.

6. Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 bis r comma 1 quater, se dovuto.

PQM

La Corte respinge il ricorso. Condanna la parte ricorrente alla rifusione, in favore della parte costituita, delle spese di lite, che liquida in complessivi Euro 5000,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, art. 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 11 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 7 luglio 2020

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