Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14081 del 27/06/2011

Cassazione civile sez. III, 27/06/2011, (ud. 14/04/2011, dep. 27/06/2011), n.14081

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETTI Giovanni Battista – Presidente –

Dott. CHIARINI Maria Margherita – Consigliere –

Dott. GIACALONE Giovanni – Consigliere –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 9418/2009 proposto da:

M.P. (OMISSIS), I.B.

(OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA F. CESI

21, presso lo studio dell’avvocato PARENTI PATRIZIA, rappresentati e

difesi dagli avvocati M.P., I.B. difensori

di se medesimi;

– ricorrenti –

e contro

FALLIMENTO BIMOTA MOTOR SPA;

– intimati –

avverso la sentenza del TRIBUNALE di RIMINI, emessa il 22/12/2008,

depositata il 24/12/2008; R.G.N. 2954/2008.

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

14/04/2011 dal Consigliere Dott. LUIGI ALESSANDRO SCARANO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FINOCCHI GHERSI Renato, per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con provvedimento del 24/12/2008 il Tribunale di Rimini respingeva il reclamo L. Fall., ex art. 26, interposto dai difensori della curatela del Fallimento Bimota Motori s.p.a. avv.ti I.B. e M.P. nei confronti del decreto di liquidazione dei compensi emesso dal G.D. in data 2/5/2008.

Avverso la suindicata pronunzia del giudice del reclamo l’ I. e il M. propongono ora ricorso per cassazione ex art. 111 Cost., affidato a 4 motivi.

L’intimato non ha svolto attività difensiva.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il 1^ motivo i ricorrenti denunziano violazione e falsa applicazione del D.M. n. 127 del 2004, art. 6, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si dolgono che erroneamente il giudice dell’impugnazione ha effettuato la liquidazione dei compensi con riferimento al valore effettivo della causa anzichè al petitum della domanda, giacchè l’oggetto della domanda va considerato con riferimento al momento iniziale, non essendovi nel caso “elementi che avrebbero potuto far ritenere differente il valore effettivo della controversia da quello indicato nell’atto di citazione”.

Lamentano che il riferimento alla transazione, ai fini della determinazione degli onorari dei legali a carico dei clienti, è erroneo, anche in ragione della natura negoziale di tale atto, rimanendo “la prestazione del difensore che ha seguito la causa dall’inizio sino alla transazione e che è stato nominato in una fase del tutto anteriore alla transazione stessa .. del tutto estranea alle determinazioni delle parti, risultando, pertanto, ininfluente rispetto al valore effettivo della causa l’ammontare del corrispettivo stabilito nel contratto di transazione”, che “costituisce solo il valore per il quale le parti possono e vogliono transigere la controversia”.

Con il 2^ ed il 3^ motivo i ricorrenti denunziano insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Si dolgono che “dopo aver deciso di ignorare il valore della domanda … iniziale” il giudice del gravame abbia erroneamente ritenuto che “avendo le parti transatto la controversia per Euro 250,000, tale importo debba ritenersi il valore effettivo della controversia”, laddove “la quantificazione del danno in centomila euro per la responsabilità dell’Amministratore T. non venne autonomamente operata dal Giudice nella sentenza di condanna bensì richiesta espressamente in sede di precisazione delle conclusioni del Fallimento attore”.

Lamentano che il giudice del reclamo “ha omesso di motivare e ancor prima di prendere in considerazione la censura mossa dagli odierni ricorrenti … in ordine alla violazione del Giudice Delegato della L. 4 agosto 2006, n. 248, art. 2, comma 2 (c.d. Legge Bersani) che prevede l’inderogabilità dei minimi di tariffa da parte dei giudici nella liquidazione dei compensi dei legali”.

Con il 4^ motivo i ricorrenti denunziano violazione e falsa applicazione del D.M. n. 127 del 2004, artt. 5 e 6, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si dolgono che nella liquidazione dei compensi i giudici di merito abbiano fatto riferimento solamente al criterio del valore della causa e non anche “agli altri criteri dettati dalle norme”, non facendo invero “alcun cenno, nemmeno indiretto, alla natura della controversia, all’importanza e al numero delle questioni trattate, all’attività svolta dall’avvocato davanti al giudice, ai risultati del giudizio e ai vantaggi anche non patrimoniali conseguiti”.

I motivi, che possono congiuntamente esaminarsi in quanto connessi, sono in parte inammissibili e in parte infondati.

Va anzitutto osservato che, ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., nei casi previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1, 2, 3 e 4, l’illustrazione di ciascun motivo deve, a pena di inammissibilità, concludersi con la formulazione di un quesito di diritto (cfr. Cass., 19/12/2006, n. 27130).

Una formulazione del quesito di diritto idonea alla sua funzione richiede allora che con riferimento ad ogni punto della sentenza investito da motivo di ricorso la parte, dopo avere del medesimo riassunto gli aspetti di fatto rilevanti ed avere indicato il modo in cui il giudice lo ha deciso, esprima la diversa regola di diritto sulla cui base il punto controverso andrebbe viceversa risolto.

Il quesito di diritto deve essere in particolare specifico e riferibile alla fattispecie (v. Cass., Sez. Un., 5/1/2007, n. 36), risolutivo del punto della controversia – tale non essendo la richiesta di declaratoria di un’astratta affermazione di principio da parte del giudice di legittimità (v. Cass., 3/8/2007, n. 17108), e non può con esso invero introdursi un tema nuovo ed estraneo (v.

Cass., 17/7/2007, n. 15949).

Il quesito di diritto di cui all’art. 366 bis c.p.c., deve comprendere l’indicazione sia della regula iuris adottata nel provvedimento impugnato, sia del diverso principio che il ricorrente assume corretto e che si sarebbe dovuto applicare in sostituzione del primo, sicchè la mancanza anche di una sola delle due suddette indicazioni rende il ricorso inammissibile, non potendo considerarsi in particolare sufficiente ed idonea la mera generica richiesta di accertamento della sussistenza della violazione di una norma di legge (da ultimo v. Cass., 28/5/2009, n. 12649).

Orbene, nel caso risultano i quesiti recati dal ricorso non risultano invero informati allo schema delineato da questa Corte (cfr. in particolare Cass. Sez. Un., 5/2/2008, n. 2658; Cass., Sez. Un., 5/1/2007, n. 36), non recando la riassuntiva indicazione degli aspetti di fatto rilevanti; del modo in cui gli stessi sono stati dai giudici di merito rispettivamente decisi; delle diverse regole di diritto la cui applicazione avrebbe condotto a differente decisione.

Essi si sostanziano invero in richieste prive (quantomeno) di decisività, non appalesandosi idonei a consentire, in base alla loro sola lettura (v. Cass., Sez. Un., 27/3/2009, n. 7433; Sez. Un., 14/2/2008, n. 3519; Cass. Sez. Un., 5/2/2003, n. 2658; Cass., 7/4/2009, n. 8463), di individuare la soluzione adottata dalla sentenza impugnata e di precisare i termini della contestazione (cfr.

Cass., Sez. Un., 19/5/2008, n. 12645; Cass., Sez. Un., 12/5/2008, n. 11650; Cass., Sez. Un., 28/9/2007, n. 20360), nonchè di circoscrivere la pronunzia nei limiti del relativo accoglimento o rigetto (cfr., Cass., Sez. Un., 26/03/2007, n. 7258).

L’inidonea formulazione del quesito di diritto equivale invero alla relativa omessa formulazione, in quanto nel dettare una prescrizione di ordine formale la norma incide anche sulla sostanza dell’impugnazione, imponendo al ricorrente di chiarire con il quesito l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in relazione alla concreta fattispecie (v. Cass., 7/4/2009, n. 8463; Cass. Sez. un., 30/10/2008, n. 26020; Cass. Sez. un., 25/11/2008. n. 28054), (anche) in tal caso rimanendo invero vanificata la finalità di consentire a questa Corte il miglior esercizio della funzione nomofilattica sottesa alla disciplina del quesito introdotta con il D.Lgs. n. 40 del 2006 (cfr., da ultimo, Cass. Sez. un., 10/9/2009, n. 19444).

La norma di cui all’art. 366 bis c.p.c., è d’altro canto insuscettibile di essere interpretata nel senso che il quesito di diritto possa, e a fortiori debba, desumersi implicitamente dalla formulazione del motivo, giacchè una siffatta interpretazione si risolverebbe nell’abrogazione tacita della norma in questione (v.

Cass. Sez. Un., 5/2/2008, n. 2658; Cass., Sez. Un., 26/03/2007, n. 7258).

Tanto più che nel caso il motivo risulta formulato in violazione del principio di autosufficienza, atteso che i ricorrenti fanno richiamo ad atti e documenti del giudizio di merito es., all'”atto di citazione notificato in data 19 novembre 2001 (doc. 2)”, alla “laboriosa trattativa”, all'”accordo transattivi”, alla sentenza Trib. Rimini 9/2/2008, alla “istanza del Curatore al tribunale per l’autorizzazione alla transazione”, alla “nota pro-forma” limitandosi a meramente richiamarli, senza invero debitamente ed esaustivamente – per quanto in questa sede d’interesse-riprodurli nel ricorso.

In ordine al 1^ ed al 4^ motivo va altresì osservato che, come questa Corte ha già avuto mordo di osservare, nella determinazione degli onorari dell’avvocato in una lite conclusasi con transazione, poichè per la sussistenza delle reciproche concessioni ciascuna parte non è nè vincitrice nè perdente, la determinazione del valore della causa va compiuta avendo riguardo alla somma effettivamente corrisposta, e non a quella originariamente richiesta (v. Cass., 16/10/2009, n. 22072; Cass., 11/4/1991, n. 3804), a nulla rilevando che il pagamento sia a carico del cliente o dell’avversario (v. Cass., 3/2/1973, n. 348).

Ciò comporta l’esercizio da parte del giudice di un potere non già arbitrario bensì discrezionale, essendo il medesimo tenuto a dare motivazione sia pure succinta delle relative ragioni (cfr. Cass., 11/7/2006, n. 15685; Cass., Cass., 10/2/1981, n. 844).

Orbene, nel caso la corte di merito, nel fare applicazione dei suindicati principi, e richiamando in particolare il D.M. 23 dicembre 1976, art. 6, comma 2 (secondo cui “nella liquidazione degli onorari a carico del cliente può aversi riguardo al valore effettivo della controversia quando esso risulti manifestamente diverso da quello presunto a norma del codice di procedura civile”) ha dato al riguardo ampia e congrua motivazione, affermando di ritenere che “il valore effettivo della controversia sia di Euro 250.000.000 (militando in tal senso anche la quantificazione del danno operata dal giudice in sentenza: centomila Euro); – tale valore sia manifestamente diverso da quello presunto a norma del codice di procedura civile (e determinato, ai sensi degli artt. 10 e 14, in misura corrispondente al petitum della domanda); – debba, pertanto, farsi riferimento, in sede di liquidazione, a tale valore effettivo, come sopra determinato; – diritti e onorari debbono essere quantificati con riferimento allo scaglione tariffario in cui rientra tale valore; – la liquidazione, come in concreto operata dal giudice delegato, sia congrua, tenuto conto, da un lato, del rispetto dei valori minimi dello scaglione tariffario riferito al valore effettivo della controversia come sopra individuato, dall’altro, del criterio di liquidazione (da applicarsi, con riguardo agli onorari, nell’ambito dello scaglione di riferimento), costituito dal divario sensibile tra il petitum della domanda, da un lato, e i risultati del giudizio e i vantaggi conseguiti, dall’altro”.

Quanto al pure denunziato vizio di motivazione, risponde a principio consolidato che a completamento della relativa esposizione esso deve indefettibilmente contenere la sintetica e riassuntiva indicazione:

a) del fatto controverso; b) degli elementi di prova la cui valutazione avrebbe dovuto condurre a diversa decisione; c) degli argomenti logici per i quali tale diversa valutazione sarebbe stata necessaria (art. 366 bis c.p.c.).

Al riguardo si è precisato che, rispetto alla mera illustrazione del motivo, l’art. 366 bis c.p.c., impone un contenuto specifico autonomamente ed immediatamente individuabile, ai fini dell’assolvimento del relativo onere, essendo pertanto necessario che una parte del medesimo venga a tale indicazione “specificamente destinata” (v. Cass., 18/7/2007, n. 16002).

Orbene, nel caso il 2^ ed il 3^ motivo non recano invero la “chiara indicazione” – nei termini più sopra indicati – delle relative “ragioni”, inammissibilmente rimettendosene l’individuazione all’attività esegetica di questa Corte (cfr. Cass. Sez. Un., 5/2/2008, n. 2658; Cass., Sez. Un., 26/03/2007, n. 7258), con interpretazione che si risolverebbe nell’abrogazione tacita della norma in questione (cfr. Cass. Sez. Un., 5/2/2008, n. 2658; Cass., Sez. Un., 26/03/2007, n. 7258), e a fortiori non consentita in presenza di formulazione come detto nella specie altresì carente di autosufficienza.

Emerge dunque evidente come, lungi dal denunziare vizi della gravata decisione, rilevanti sotto i ricordati profili, le deduzioni dell’odierno ricorrente, oltre a risultare formulate secondo un modello difforme da quello delineato all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, si risolvono in realtà nella mera doglianza circa l’asseritamente erronea attribuzione da parte del giudice del merito agli elementi valutati di un valore ed un significato difformi dalle sue aspettative (v. Cass., 20/10/2005, n. 20322), e nell’inammissibile pretesa di una lettura dell’asserto probatorio diversa da quella nel caso dal medesimo operata (cfr. Cass., 13/4/2006, n. 8932).

Per tale via, lungi dal censurare la sentenza per uno dei tassativi motivi indicati nell’art. 360 c.p.c., il ricorrente in realtà sollecita, contra ius e cercando di superare i limiti istituzionali del giudizio di legittimità, un nuovo giudizio di merito, in contrasto con il fermo principio di questa Corte secondo cui il giudizio di legittimità non è un giudizio di merito di terzo grado nel quale possano sottoporsi alla attenzione dei giudici della Corte di Cassazione elementi di fatto già considerati dai giudici del merito, al fine di pervenire ad un diverso apprezzamento dei medesimi (cfr. Cass., 14/3/2006, n. 5443).

All’inammissibilità ed infondatezza dei motivi consegue il rigetto del ricorso.

Non è peraltro a farsi luogo a pronunzia in ordine alle spese del giudizio di cassazione, non avendo l’intimato svolto attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 14 aprile 2011.

Depositato in Cancelleria il 27 giugno 2011

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