Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14073 del 23/05/2019

Cassazione civile sez. lav., 23/05/2019, (ud. 02/04/2019, dep. 23/05/2019), n.14073

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

Dott. CALAFIORE Daniela – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 7509-2017 proposto da:

S.S., domiciliata in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e

difesa dall’avvocato ALBERTO GUARISO;

– ricorrente –

contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona

del Presidente e legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura

Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli Avvocati

ANTONIETTA CORETTI, VINCENZO TRIOLO, VINCENZO STUMPO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 297/2016 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA,

depositata il 21/09/2016 R.G.N. 423/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

02/04/2019 dal Consigliere Dott. DANIELA CALAFIORE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

VISONA’ STEFANO, che ha concluso per accoglimento del ricorso;

udito l’Avvocato ALBERTO GUARISO;

udito l’Avvocato ANTONIETTA CORETTI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. S.S., cittadina serba titolare di permesso di soggiorno in attesa di occupazione (D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 22 e succ. mod., D.P.R. n. 394 del 1999, art. 37 e succ. mod.) coniugata con S.H., all’epoca titolare di permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo e dal 2016 cittadino italiano, in ragione della nascita del figlio Sa.Ra. avvenuta il (OMISSIS), ha chiesto all’Inps l’assegno di maternità previsto dal D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 75.

2. L’Istituto ha rigettato la domanda in quanto l’istante non risultava in possesso di carta di soggiorno e, per tale ragione, ritenendo il diniego di natura discriminatoria, S.S. ha proposto la specifica azione ai sensi del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 28, art. 44 t.u. sull’immigrazione e art. 702 bis c.p.c., affermando l’incompatibilità tra il D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 75laddove limita l’accesso alla prestazione alle donne residenti, cittadine italiane o comunitarie ovvero in possesso della carta di soggiorno ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 9 e l’art. 12 della direttiva CE 2011/98 in quanto tale ultima disposizione sancisce il diritto dei lavoratori di Stati terzi, titolari di un permesso di soggiorno che consente di lavorare, a beneficiare dello stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano, per quanto concerne i settori della sicurezza sociale come definiti da Regolamento CE 883/2004 e, quindi, anche rispetto ai trattamenti di maternità e paternità previsti dall’art. 3, lett. b) di tale Regolamento.

3. Su tali premesse, ha chiesto: ordinare all’INPS di cessare dalla condotta discriminatoria; al fine di rimuovere gli effetti della medesima, condannare l’Inps al pagamento in proprio favore dell’assegno pari ad Euro 1691,05 oltre ad accessori; condannare l’Istituto a porre in essere specifiche condotte tendenti a pubblicizzare che il diritto all’indennità di maternità spetta a chi è titolare del permesso unico di soggiorno ai sensi della direttiva 2011/98 e D.Lgs. n. 40 del 2014.

4. La Corte d’appello di Brescia, con sentenza n. 297 del 2016, accogliendo l’impugnazione dell’Inps, ha rigettato la domanda, ritenendo che la fattispecie antidiscriminatoria non possa essere costituita da un diniego di prestazione che, come nel caso di specie, risulti caratterizzato, oltre che dalla rilevata mancanza della carta di soggiorno o di altro documento di lunga permanenza, anche dal difetto di presupposti contributivi alla luce di una interpretazione del D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 75, lett. b) piuttosto complessa ed articolata, costituente contesa seria, che l’Istituto applica a tutti i richiedenti, a prescindere dalla loro nazionalità e sebbene tale eccezione fosse stata sollevata solo in occasione del giudizio e non nella fase amministrativa.

5. Avverso tale sentenza, ricorre per cassazione S.S. sulla base di quattro motivi. Resiste l’Inps con controricorso.

6. Le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso, articolato in due enunciazioni, si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), l’omesso esame del fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, costituito dal motivo di diniego opposto dall’INPS nel procedimento amministrativo e costituito dalla sola mancanza del titolo di soggiorno; inoltre, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, si denuncia la violazione e o falsa applicazione del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 28dell’art. 43 t.u. immigrazione e D.Lgs. n. 215 del 2003, art. 2 in merito alla nozione di discriminazione accolta dalla sentenza impugnata.

2. La ricorrente evidenzia che la motivazione ha del tutto trascurato il fatto, essenziale per la fattispecie discriminatoria, che l’unica ragione di diniego espressa dall’Inps era stata quella fondata sulla nazionalità e che tale situazione ha posto la richiedente in una obbiettiva situazione di svantaggio ostativa alla disamina, in sede amministrativa, degli ulteriori requisiti di legge. Tale pregiudizio, per essere eliso, avrebbe richiesto che l’Inps, costituendosi, avesse riconosciuto la non essenzialità del presupposto della titolarità del titolo di soggiorno ma così non è avvenuto.

3. Con il secondo motivo si deduce violazione e o falsa applicazione del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 28, dell’art. 43 t.u. immigrazione e del D.Lgs. n. 215 del 2003, art. 2 dell’art. 24 Cost. e art. 6 CEDU in merito al riparto dell’onere della prova in ipotesi di giudizio antidiscriminatorio, posto che in tale giudizio spetta all’attore fornire elementi di fatto dai quali si può presumere l’esistenza di atti, fatti o comportamenti discriminatori e spetta al convenuto l’onere di provare l’insussistenza della discriminazione. La sentenza impugnata con la rilevanza accordata alla “serietà” della questione contributiva avrebbe pure sovvertito le regole processuali applicabili in ipotesi di concorso possibile di azioni impedendo in concreto la pronuncia nel merito della domanda.

4. Con il terzo (indicato come quarto) motivo di ricorso si denuncia violazione e o falsa applicazione del D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 75 e dell’art. 112 c.p.c. posto che la Corte d’appello di Brescia avrebbe avuto modo di decidere nel merito la controversia in quanto la S. aveva precisato (con note autorizzate del 10 maggio 2016) di essere in possesso del requisito contributivo di cui al D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 75, lett. b) avendo svolto attività lavorativa per tre mesi e non essendo necessario che tali mesi andassero computati a decorrere dal 18 mese anteriore al parto come sostenuto dall’INPS.

5. I motivi sono sostanzialmente incentrati sul tema comune della individuazione degli elementi strutturali che caratterizzano la fattispecie astrattamente discriminatoria per nazionalità che costituisce presupposto per l’esercizio dell’azione oggetto del presente giudizio, per tale ragione essi vanno trattati congiuntamente.

6. I motivi sono fondati.

7. Dispone il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 43 “Ai fini del presente capo, costituisce discriminazione ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica.

2. In ogni caso compie un atto di discriminazione: a) il pubblico ufficiale o la persona incaricata di pubblico servizio o la persona esercente un servizio di pubblica necessità che nell’esercizio delle sue funzioni compia od ometta atti nei riguardi di un cittadino straniero che, soltanto a causa della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità, lo discriminino ingiustamente; b) chiunque imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire beni o servizi offerti al pubblico ad uno straniero soltanto a causa della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità; c) chiunque illegittimamente imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire l’accesso all’occupazione, all’alloggio, all’istruzione, alla formazione e ai servizi sociali e socio-assistenziali allo straniero regolarmente soggiornante in Italia soltanto in ragione della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità; d) chiunque impedisca, mediante azioni od omissioni, l’esercizio di un’attività economica legittimamente intrapresa da uno straniero regolarmente soggiornante in Italia, soltanto in ragione della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, confessione religiosa, etnia o nazionalità; e) il datore di lavoro o i suoi preposti i quali, ai sensi della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 15 come modificata e integrata dalla L. 9 dicembre 1977, n. 903, e dalla L. 11 maggio 1990, n. 108, compiano qualsiasi atto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando, anche indirettamente, i lavoratori in ragione della loro appartenenza ad una razza, ad un gruppo etnico o linguistico, ad una confessione religiosa, ad una cittadinanza. Costituisce discriminazione indiretta ogni trattamento pregiudizievole conseguente all’adozione di criteri che svantaggino in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori appartenenti ad una determinata razza, ad un determinato gruppo etnico o linguistico, ad una determinata confessione religiosa o ad una cittadinanza e riguardino requisiti non essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa.

3. Il presente articolo e l’art. 44 si applicano anche agli atti xenofobi, razzisti o discriminatori compiuti nei confronti dei cittadini italiani, di apolidi e di cittadini di altri Stati membri dell’Unione Europea presenti in Italia”.

8. Questa Corte di legittimità (Cass. SS.UU. n. 7186 del 2011), esaminando – al fine di stabilire la giurisdizione in ipotesi di denuncia di discriminazione per nazionalità in relazione alla esclusione da procedure di stabilizzazione di personale precario – ha esplicitato il nesso tra lo strumento processuale di tutela antidiscriminatoria e la situazione di diritto sostanziale cui la tutela è funzionale, contenuta nel citato D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 43.

9. L’effettività della tutela antidiscriminatoria è affidata alla speciale azione disciplinata dal D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 44 e tale quadro normativo delinea in maniera molto circostanziata la disciplina di divieto delle discriminazioni (rispetto alla quale possono assumere rilievo anche le varie disposizioni dello stesso testo normativo circa i diritti e i doveri dello straniero, comprese le disposizioni di cui agli artt. 9 e 9 bis, nel testo di cui al D.Lgs. n. 3 del 2007, art. 1,comma 1, emanato per dare attuazione alla direttiva 2003/109/CE sullo status di cittadini di paesi terzi soggiornanti di lungo periodo).

10. Il modello di azione delineato dall’art. 44 cit., richiamato, con secondari adattamenti, dal D.Lgs. n. 9 luglio 2003, n. 215, artt. 4 e 4 bis (il secondo inserito dal D.L. n. 59 del 2008, art. 8 sexies, convertito con modificazioni dalla L. n. 101 del 2008) e dal D.Lgs. n. 216 del 2003, art. 4, testi normativi che, dando attuazione, rispettivamente, alla direttiva 2000/43/CEper la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica e alla direttiva 2000/78/CEsulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, va letto unitamente ad altre disposizioni di carattere generale o settoriale -cfr. per esempio il D.Lgs. n. 67 del 2006 di contrasto alle discriminazioni delle persone con disabilità, il cui art. 3 fa analogamente rinvio al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 44 -, nonchè con fonti sovranazionali e in particolare comunitarie) e con esse concorre alla formazione di “un complesso normativo antidiscriminatorio”.

11. Proseguendo, dunque, l’opera di ricognizione delle disposizioni rilevanti all’interno del detto “complesso normativo antidiscriminatorio”, oltre alla tutela processuale tipizzata dal citato D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 44 riferita al contenuto del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 43 va pure ricordato il D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 28 secondo il quale “Quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto l’onere di provare l’insussistenza della discriminazione. I dati di carattere statistico possono essere relativi anche alle assunzioni, ai regimi contributivi, all’assegnazione delle mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera e ai licenziamenti dell’azienda interessata.”.

12. Se questo è il tessuto normativo fondamentale al cui interno deve essere collocata la fattispecie concreta in esame, da esso devono trarsi gli argomenti d’interpretazione necessari ad individuare quali siano gli elementi costitutivi dell’illecito antidiscriminatorio, per ragioni di nazionalità, la cui concreta sussistenza deve essere posta a fondamento di chi invoca la tutela antidiscriminatoria e quale sia il peculiare regime del riparto della prova.

13. In particolare, è solo dalla condotta discriminatoria descritta dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 43 che può trarsi la prova della rilevanza o meno, al fine di ipotizzare il carattere discriminatorio di una certa condotta, dello stato soggettivo di chi la pone in essere ovvero della portata meramente oggettiva della fattispecie.

14. L’art. 43 cit. si riferisce ad “ogni comportamento che direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica”; la norma, inoltre, tipizza una serie di comportamenti che configurano in ogni caso atti di discriminazione ed in particolare, compie un atto di discriminazione “chiunque illegittimamente imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire l’accesso all’occupazione all’alloggio, alla formazione e ai servizi sociali e socio-assistenziali allo straniero regolarmente soggiornante in Italia”.

15. Come è stato osservato in dottrina, va riconosciuto che il termine “comportamento” valga ad includere tanto le azioni quanto le omissioni, in un nesso di causalità diretta o indiretta con una serie di fatti discriminatori (distinzione, esclusione, restrizione, preferenza, basate tutte su ragioni di razza, colore, ascendenza etc.), con la conseguenza che si ha vera e propria “discriminazione” laddove la condotta ottenga, quale “scopo” o quale “effetto”, la lesione di un diritto umano o di una libertà fondamentale, nei termini precisati dall’ultima parte dell’art. 43, comma 1.

16. I termini “scopo” ed “effetto”, disgiunti ed alternativi, fanno sì che la norma risulti centrata proprio sulla produzione degli effetti per cui deve ritenersi sufficiente l’esistenza di questi ultimi ai fini del perfezionamento della fattispecie legale di “discriminazione”.

17. Al fine di rendere operativo il rimedio di cui all’art. 44, comma 1, deve dunque prescindersi dalla rilevanza degli stati soggettivi dell’autore della condotta e ciò, come è evidente, anche per consentire una efficace azione giudiziaria contro ogni discriminazione, a prescindere dall’esistenza di una lesione attuale di un diritto umano o di una libertà fondamentale, e per rendere possibile al giudice l’accertamento del comportamento produttivo di un fatto discriminatorio anche prescindendo dall’indagine sulla ricorrenza o meno dell’elemento soggettivo della condotta.

18. Occorre accertare la sussistenza del nesso causale fra l’atto e l’evento lesivo, senza necessariamente ricercare una dolosa volontà discriminatoria nella determinazione della condotta e nella conseguente disparità di trattamento.

19. Rapportando tale principio alla fattispecie oggetto di causa, va ricordato che la ricorrente ha visto respinta la domanda di corresponsione di assegno di maternità di cui al D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 75 in sede amministrativa, esclusivamente in ragione del fatto che era cittadina di Stato terzo non in possesso del permesso di soggiorno; in sede giudiziaria, l’INPS ha pure opposto l’assenza del requisito lavorativo – contributivo che è pure presupposto, per chiunque ed a prescindere dalla cittadinanza, del riconoscimento del beneficio richiesto.

20. Dispone il citato Art. 75. “1. Alle donne residenti, cittadine italiane o comunitarie ovvero in possesso di carta di soggiorno ai sensi del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 9 per le quali sono in atto o sono stati versati contributi per la tutela previdenziale obbligatoria della maternità, è corrisposto, per ogni figlio nato, o per ogni minore in affidamento preadottivo o in adozione senza affidamento dal 2 luglio 2000, un assegno di importo complessivo pari a Lire 3 milioni, per l’intero nel caso in cui non beneficiano dell’indennità di cui agli artt. 22, 66 e 70 presente testo unico, ovvero per la quota differenziale rispetto alla prestazione complessiva in godimento se questa risulta inferiore, quando si verifica uno dei seguenti casi: a) quando la donna lavoratrice ha in corso di godimento una qualsiasi forma di tutela previdenziale o economica della maternità e possa far valere almeno tre mesi di contribuzione nel periodo che va dai diciotto ai nove mesi antecedenti alla nascita o all’effettivo ingresso del minore nel nucleo familiare; b) qualora il periodo intercorrente tra la data della perdita del diritto a prestazioni previdenziali o assistenziali derivanti dallo svolgimento, per almeno tre mesi, di attività lavorativa, così come individuate con i decreti di cui al comma 5, e la data della nascita o dell’effettivo ingresso del minore nel nucleo familiare, non sia superiore a quello del godimento di tali prestazioni, e comunque non sia superiore a nove mesi. Con i medesimi decreti è altresì definita la data di inizio del predetto periodo nei casi in cui questa non risulti esattamente individuabile; c) in caso di recesso, anche volontario, dal rapporto di lavoro durante il periodo di gravidanza, qualora la donna possa far valere tre mesi di contribuzione nel periodo che va dai diciotto ai nove mesi antecedenti alla nascita. (…)”.

21. Dunque, mentre è del tutto irrilevante esaminare la ” serietà” della incertezza normativa e di fatto, in capo all’Istituto, sulla effettiva sussistenza nel caso di specie del requisito contributivo richiesto al D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 75, comma 1, lett. b) è essenziale stabilire se di tale requisito sia in possesso la ricorrente e ciò in quanto esso è necessario, sul piano causale, a costituire il nesso tra diniego della prestazione previdenziale e la denunciata disparità di trattamento per ragioni di nazionalità.

22. A tale principio la sentenza impugnata non si è conformata e, per tale ragione, il ricorso va accolto e la sentenza impugnata va cassata affinchè la fattispecie antidiscriminatoria sia esaminata alla luce dejle superiori osservazioni e rinviata alla Corte d’appello d’appello di Milano che provvederà a regolare le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Milano cui demanda la regolazione delle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 2 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 23 maggio 2019

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