Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14063 del 07/07/2020

Cassazione civile sez. VI, 07/07/2020, (ud. 12/02/2020, dep. 07/07/2020), n.14063

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MOCCI Mauro – Presidente –

Dott. CONTI Roberto Giovanni – Consigliere –

Dott. LA TORRE Maria Enza – Consigliere –

Dott. DELLI PRISCOLI Lorenzo – rel. Consigliere –

Dott. RAGONESI Vittorio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 2663-2019 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE 06363391001, in persona del Direttore pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e

difende ope legis;

– ricorrente –

contro

M.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA BALDASSARRE

CASTIGLIONE 55, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRO VOGLINO,

rappresentato e difeso dall’avvocato FABIO BENINCASA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 8796/22/2017 della COMMISSIONE TRIBUTARIA

REGIONAI,E della CAMPANIA, depositata il 20/10/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 12/02/2020 dal Consigliere Relatore Dott. LORENZO

DELLI PRISCOLI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Rilevato che:

il contribuente impugnava gli avvisi di accertamento relativi all’anno di imposta 2003 per l’IRPEF con i quali, D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 38, venivano accertati induttivamente maggiori redditi, con conseguente recupero delle maggiori imposte dovute;

che la Commissione Tributaria Provinciale rigettava il ricorso del contribuente mentre la Commissione Tributaria Regionale ne accoglieva l’appello;

la Corte di Cassazione, con sentenza n. 25572 del 2015 cassava con rinvio enunciando i seguenti principi: “il giudice del merito ha ritenuto che le somme utilizzate per l’acquisizione degli incrementi patrimoniali siano derivate, in parte, dai risparmi che il contribuente aveva accumulato nel tempo ed, in parte, dai diretti esborsi della figlia del contribuente. E’ con riguardo ai primi esborsi soltanto che – in concreto – la parte ricorrente si duole di violazione di legge (mentre il vizio motivazionale non è stato sviluppato in alcun modo), per il fatto che non è da reputare idonea la sola prova della disponibilità della provvista, ma è anche da dimostrare -ad onere del contribuente- la provenienza di detta provvista da redditi non imponibili o già sottoposti a tassazione. A tal proposito, anche di recente codesta Suprema Corte è tornata a ribadire che:” In tema di accertamento delle imposte sui redditi, qualora l’ufficio determini sinteticamente il reddito complessivo netto in relazione alla spesa per incrementi patrimoniali, la prova documentale contraria ammessa per il contribuente dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 38, comma 6, nella versione vigente “ratione temporis”, non riguarda la sola disponibilità di redditi esenti o di redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta, ma anche l’entità di tali redditi e la durata del loro possesso, che costituiscono circostanze sintomatiche del fatto che la spesa contestata sia stata sostenuta proprio con redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta” (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 25104 del 26/11/2014), pur non essendo onere del contribuente di dare la prova rigorosa e puntuale dell’impiego proprio di detti redditi per l’acquisizione degli incrementi patrimoniali (in termini Cass. Sez. 5, Sentenza n. 6396 del 19/03/2014). Non resta perciò che concludere che, alla luce dei superiori principi, il giudice del merito non avrebbe potuto considerare idonea la prova della mera provenienza della provvista dai conti bancari del contribuente (non apparendo peraltro utile il solo estratto conto bancario a convincere sull’accumulazione “nel tempo” dei fondi costituenti detta provvista), avendo anche l’obbligo di verificare che detta provenienza sia corroborata da altri elementi idonei a giustificare almeno la presunzione che si tratti di redditi esenti o già assoggettati a tassazione, siccome può desumersi dal fatto della prolungata giacenza delle somme almeno per il periodo di tempo entro il quale all’amministrazione compete effettuare accertamento della loro imponibilità. Non resta che concludere che l’apprezzamento del giudicante, radicato proprio ed esclusivamente sull’idoneità della prova contraria addotta dal contribuente (che non vi è elemento per supporre che sia stata allegata in termini diversi dalla semplice documentazione della giacenza bancaria) merita cassazione, con conseguente restituzione della causa al medesimo giudice, affinchè rinnovi l’esame delle doglianze, alla luce dei sopra evidenziati principi, sia pure limitatamente al reddito sinteticamente accertato in ragione della spesa per acquisto del fondo”: la Commissione Tributaria Regionale, in sede di rinvio, accoglieva l’appello del contribuente annullando l’atto impugnato, ritenendo che sia in un periodo anteriore rispetto a quello degli anni oggetto di accertamento sia in un periodo successivo egli aveva la disponibilità di ingenti liquidità, tali da poter giustificare gli acquisti, con la conseguenza che si ritiene raggiunta la prova dell’impiego di redditi esenti o assoggettati a ritenuta alla fonte nei predetti acquisti stante la disponibilità di tali notevoli redditi per un lungo arco temporale;

l’Agenzia delle entrate proponeva ricorso affidato a due motivi di impugnazione mentre il contribuente si costituiva con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Considerato che con il primo motivo d’impugnazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, l’Agenzia delle entrate denuncia violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38 e art. 2697 c.c., in quanto la CTR non si sarebbe attenuta all’insegnamento della Cassazione n. 25572 del 2015 perchè, laddove quest’ultima si esprime nel senso che il contribuente ha l’onere di dimostrare la prolungata giacenza delle somme almeno per il periodo di tempo entro il quale all’amministrazione compete effettuare accertamento della loro imponibilità deve interpretarsi nel senso che la prova contraria a carico del contribuente ha ad oggetto non soltanto la disponibilità di redditi ulteriori rispetto a quelli dichiarati ma anche la documentazione di circostanze sintomatiche che ne denotino l’utilizzo per effettuare le spese contestate e non altre, dovendosi in questo senso intendere il riferimento alla prova della “durata” del relativo possesso;

considerato che con il secondo motivo d’impugnazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il contribuente denuncia violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, in quanto la CTR non si sarebbe attenuta all’insegnamento della Cassazione n. 25572 del 2015 laddove ha basato la sua decisione su una documentazione esibita in parte in sede di ricorso introduttivo del giudizio ed in parte solo in appello, in ogni caso sempre solo in sede contenziosa e non in sede procedimentale a seguito dell’invito formale dell’Ufficio;

ritenuto, quanto al primo motivo di impugnazione, che la CTR si è attenuta ai principi espressi dalla sentenza della Cassazione n. 25572 del 2015 in quanto – affermando che sia in un periodo anteriore rispetto a quello degli anni oggetto di accertamento sia in un periodo successivo egli aveva la disponibilità di ingenti liquidità, tali da poter giustificare gli acquisti, con la conseguenza che si ritiene raggiunta la prova dell’impiego di redditi esenti o assoggettati a ritenuta alla fonte nei predetti acquisti stante la disponibilità di tali notevoli redditi per un lungo arco temporale – ha correttamente interpretato il principio espresso da Cass. n. 25572 del 2015, secondo cui la prova documentale contraria ammessa per il contribuente dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 38, comma 6, non riguarda la sola disponibilità di redditi esenti o di redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta, ma anche l’entità di tali redditi e la durata del loro possesso, che costituiscono circostanze sintomatiche del fatto che la spesa contestata sia stata sostenuta proprio con redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta perchè ha espresso la necessità della permanenza in capo al contribuente non solo delle somme necessarie a compiere gli acquisti oggetto di accertamento ma anche della durata e della continuità del possesso di tali somme per un significativo arco temporale, senza soluzioni di continuità, che va da un momento precedente rispetto agli acquisti a quello degli acquisti stessi (nello stesso senso, del resto, Cass. nn. 29067 e 7757 del 2018);

considerato che, secondo questa Corte:

nel processo tributario, poichè il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 58, consente la produzione in appello di qualsiasi documento, la stessa può essere effettuata anche dalla parte rimasta contumace in primo grado, poichè il divieto posto dall’art. 57 del decreto cit., riguarda unicamente le eccezioni in senso stretto (Cass. n. 29568 del 2018);

nell’ambito del processo tributario, il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 58, fa salva la facoltà delle parti di produrre nuovi documenti anche al di fuori degli stretti limiti posti dall’art. 345 c.p.c. purchè tale attività processuale sia esercitata entro venti giorni liberi prima dell’udienza (Cass. n. 29087 del 2018);

nel processo tributario, le parti possono produrre in appello nuovi documenti, anche ove gli stessi comportino un ampliamento della materia del contendere e siano preesistenti al giudizio di primo grado, purchè ciò avvenga, ai fini del rispetto del principio del contraddittorio nei confronti delle altre parti, entro il termine di decadenza di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 32 (Cass. n. 17164 del 2018);

considerato che la CTR si è attenuta ai suddetti principi laddove ha preso in considerazione documenti esibiti per la prima volta in sede di giudizio di appello dal contribuente, senza che la ricorrente abbia neppure allegato che tale produzione sia avvenuta dopo il termine di decadenza di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 32;

ritenuto dunque che, infondati entrambi i motivi di ricorso, il ricorso va rigettato; la condanna alle spese segue la soccombenza.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna l’Agenzia delle entrate al pagamento delle spese processuali, che liquida in Euro 5.000, oltre a rimborso forfettario nella misura del 15% e ad accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 12 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 7 luglio 2020

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