Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14060 del 21/05/2021

Cassazione civile sez. I, 21/05/2021, (ud. 30/03/2021, dep. 21/05/2021), n.14060

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

Dott. CAPRIOLI Maura – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16078/2019 proposto da:

A.S., rappresentato e difeso dall’avv. Simona Alessio. per

procura in calce al ricorso e con domicilio eletto presso lo studio

del proprio difensore a Torino, via Collegno nr. 44;

– ricorrente –

contro

Ministero Dell’interno, (OMISSIS), Pubblico Ministero Procuratore

Generale Presso Corte Di Cassazione;

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di TORINO, depositata il 04/04/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

30/03/2021 da Dott. CAPRIOLI MAURA.

 

Fatto

FATTO E DIRITTO

Considerato che:

Con decreto n. 2252/2019, il Tribunale di Torino rigettava il ricorso presentato da A.S., nato in Bangladesh considerando non credibile il racconto del ricorrente, non solo per la discordanza fra le versioni rese nelle due circostanze in cui lo stesso era stato ascoltato (Commissione e Tribunale) ma anche per la genericità e vaghezza con cui era stato descritto il timore di un eventuale rientro, per la mancanza di procedimenti penali in atto e per la mancata spiegazione delle ragioni per le quali le motivazioni scritte sul C3 riguardavano un conflitto con spacciatori di stupefacenti.

Pertanto, il primo Giudice riteneva di non accogliere la domanda di protezione internazionale rilevando l’assenza di condizioni idonee a giustificare la misura della protezione sussidiaria prevista dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14.

In questa prospettiva evidenziava che il ricorrente non aveva allegato fatti che facessero fondatamente ritenere che, in caso di rimpatrio, potesse andare incontro all’applicazione di sanzioni sproporzionate o disumane da parte dell’autorità statale, nè che rischiasse trattamenti inumani o degradanti da parte di un’agente non statale; e neppure che la situazione generale del paese, secondo le informazioni aggiornate, presentasse una generalizzata situazione di violenza indiscriminata.

Infine, il Collegio riteneva non integrati i presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria.

Infatti, ribadiva come il ricorrente non fosse stato ritenuto credibile e, pertanto, non potesse essere considerata persona vulnerabile in quanto vittima di tortura nel paese d’origine. Essendo escluso il rischio di essere immessa, in conseguenza del rimpatrio, in un contesto sociale, politico o ambientale idoneo a costituire un’effettiva compromissione dei suoi diritti fondamentali: laddove, per quanto riguarda la vita in Italia, il ricorrente non aveva documentato uno rilevante e stabile condizione di avvenuto inserimento nel contesto nazionale.

Avverso il decreto A.S. propone ricorso per cassazione sulla base di tre motivi. il Ministero dell’Interno si è costituito con controricorso.

Con il primo motivo si lamenta della violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, commi 3 e 5, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, commi 2 e 3 e art. 27, comma 1 bis, D.P.R. n. 2015, art. 6 comma 6 e dell’art. 16 direttiva 2013/32/Ue violazione dei criteri legali per la valutazione della credibilità del richiedente in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si critica il giudizio espresso dal Tribunale in merito alla ritenuta non attendibilità del richiedente basato, ad avviso del ricorrente su una lettura superficiale delle risultanze di causa e senza svolgere alcuna ricerca di informazione relativa al contesto di provenienza del richiedente o approfondimento istruttorio.

Con il secondo motivo si denuncia la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si censura altresì la decisione nella parte in cui ha ritenuto non sussistenti le condizioni previste dall’art. 14, lett. B, escludendo dalla sfera normativa le vicende; che presentano carattere privatistico e interpersonale.

Si evidenzia che ai fini in questione non rileverebbe la matrice pubblica o privata della fonte di pericolo o della ragione della fuga del richiedente qualora lo stesso non possa avvalersi della protezione del proprio Paese d’origine.

Si lamenta che il Tribunale avrebbe omesso ogni analisi circa le condizioni esistenti in Bangladesh in relazione alla possibilità per il ricorrente di ottenere protezione da parte delle autorità locali.

Con il terzo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 e art. 32, comma 3, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, violazione dei criteri per la concessione della protezione umanitaria.

Si lamenta che il Tribunale avrebbe omesso di verificare le condizioni di vita nel contesto di provenienza del ricorrente escludendo la rilevanza della riconosciuta integrazione nel territorio italiano e mancando di valutare i profili umanitari in un ottica più ampia comprensiva di esigenze legate a vulnerabilità o aventi il carattere della temporaneità.

Il primo motivo è inammissibile in quanto contiene una serie di critiche agli accertamenti in fatto espressi nella motivazione del Tribunale territoriale e sollecita un riesame delle valutazioni riservate al giudice del merito, che del resto ha ampiamente e rettamente motivato la statuizione impugnata, esponendo le ragioni del proprio convincimento.

La parte non può, invero, rimettere in discussione, proponendo una propria diversa interpretazione, la valutazione delle risultanze processuali e la ricostruzione della fattispecie operate dai giudici del merito poichè la revisione degli accertamenti di fatto compiuti da questi ultimi è preclusa in sede di legittimità (Cass., 07/12/2017, n. 29404; Cass., 04/08/2017, n. 19547; Cass., 02/08/2016, n. 16056).

Si rileva dunque come il ricorrente, sotto l’egida formale del vizio di violazione di legge, pretenda, ora, una inammissibile nuova valutazione del giudizio di credibilità del richiedente (apodittica e disancorata rispetto alla singola fattispecie esaminata), proponendo censure che sconfinano con tutta evidenza sul terreno delle mere valutazioni di merito, come tali rimesse alla cognizione dei giudici della precedente fase di giudizio e che (come detto) possono essere censurate innanzi al giudice di legittimità solo attraverso le ristrette maglie previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Laddove, poi, non è possibile pretendere l’attivazione dei poteri istruttori officiosi del tribunale per l’acquisizione di ulteriori informazioni sulla situazione sociopolitica e religiosa del Paese di provenienza, in presenza di una valutazione giudiziale negativa della credibilità del richiedente; valutazione quest’ultima che rende superfluo ogni ulteriore approfondimento istruttorio in ordine al reclamato status di rifugiato.

Il secondo motivo presenta plurimi profili di inammissibilità.

Il Tribunale ha ritenuto il racconto fornito dal ricorrente inattendibile in ordine alle vicende narrate spiegando che il timore viene descritto in termini vaghi e generici ed ha escluso il rischio concreto per il richiedente in caso di rimpatrio di essere soggetto a procedimenti penali alla luce delle dichiarazioni rese dallo stesso richiedente.

In primo luogo, non risulta impugnata la prima ratio decidendi del Tribunale, da sola sufficiente a sorreggere il dictum del provvedimento: cioè che il racconto del richiedente era inattendibile e le ragioni sottese a tale valutazione.

Ne consegue che non occorreva procedere ad alcun approfondimento istruttorio officioso circa la prospettata situazione persecutoria nel Paese di origine, salvo che la mancanza di veridicità derivasse esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori (Cass. n. 16925 del 2018; Cass. n. 5973 del 2019): circostanza, quest’ultima, non dedotta.

La definitività di tale argomentazione rende inammissibili le censure formulate perchè giammai potrebbero condurre alla cassazione dell’impugnato provvedimento (Cass. n. 17182 del 2020; Cass. n. 10815 del 2019).

In secondo luogo, va rilevato che le liti tra privati (come quella dedotta nel presente giudizio) non possono essere addotte come causa di persecuzione o danno grave, nell’accezione offerta dal D.Lgs. n. 251 del 2007, trattandosi di vicende private estranee al sistema della protezione internazionale, non rientrando nè nelle forme dello status di rifugiato nè nei casi di protezione sussidiaria, atteso che i cd. soggetti non statuali possono considerarsi responsabili della persecuzione o del danno grave ove lo Stato, i partiti o le organizzazioni internazionali, non possano o non vogliano fornire protezione contro persecuzioni o danni gravi, ma con riferimento ad atti persecutori o danni gravi non imputabili ai medesimi soggetti non statuali ma da ricondurre allo Stato e alle organizzazioni collettive di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, lett. b), (Cass. n. 9043 del 2019).

In terzo luogo, deve precisarsi che la censura attinente alla mancata attivazione dei poteri officiosi del giudice investito della domanda di protezione risulta essere assolutamente generica e, per conseguenza, prova di decisività, non avendo il ricorrente indicato quali fossero le informazioni che, in concreto, avrebbero potuto determinare l’accoglimento del proprio ricorso.

(Cass. n. 9043 del 2019).

In ordine poi alla verifica delle condizioni per il riconoscimento della protezione umanitaria alla luce della disciplina antecedente al D.L. 4 ottobre 2018, n. 13, convertito nella L. 1 dicembre 2018, n. 132, non applicabile alla fattispecie non avendo tale normativa efficacia retroattiva secondo l’orientamento recentemente espresso da questa Corte (Cass. S.U. 2019/29460) il ricorrente censura (terzo motivo di ricorso) l’accertamento di merito compiuto dal Tribunale in ordine alla insussistenza di una particolare situazione di vulnerabilità del richiedente: tuttavia il ricorrente invero, a fronte della valutazione espressa con esaustiva indagine officiosa dal giudice di merito (in sè evidentemente non rivalutabile in questa sede) circa la insussistenza nella specie di situazioni di vulnerabilità, non ha neppure indicato se e quali ragioni di vulnerabilità avesse allegato, diverse da quelle esaminate nel provvedimento impugnato.

Riguardo al parametro dell’inserimento sociale e lavorativo e dell’avvenuta integrazione dello straniero in Italia, questa Corte con sentenza Sez. 1 – n. 4455 del 23/02/2018 confermata da S.U. 2019/29460 ha precisato che “In materia di protezione umanitaria, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza”.

Nella fattispecie l’integrazione raggiunta poteva essere valorizzata come presupposto della protezione umanitaria ma non come fattore esclusivo, in quanto circostanza che può concorrere a determinare una situazione di vulnerabilità personale che, tuttavia, nel caso di specie è stata esclusa.

Alla stregua delle considerazioni sopra esposte il ricorso va rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo secondo i criteri normativi vigenti.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente a rifondere al Ministero le spese di legittimità che si liquidano in complessive Euro 2.100,00oltre s.p.a.d..

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 29 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 21 maggio 2021

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