Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14056 del 08/07/2016


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Cassazione civile sez. VI, 08/07/2016, (ud. 12/05/2016, dep. 08/07/2016), n.14056

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 2226-2015 proposto da:

MERIDIANA FLY S.P.A., ((OMISSIS)), in persona

dell’Amministratore delegato pro tempore, ALISARDA S.P.A. (già

MERIDIANA S.P.A.), in persona del Presidente del Consiglio di

Amministrazione, elettivamente domiciliate in ROMA, VIALE GIULIO

CESARE 21/23, presso lo studio dell’avvocato CARLO BOURSIER

NIUTTA, che le rappresenta e difende unitamente all’avvocato

ANTONIO ARMENTANO, giusta mandato a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

P.F., ((OMISSIS)), elettivamente domiciliata in

ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CASSAZIONE, rappresentata e difesa

dagli avvocati LUIGI PAU, ALESSANDRO MELONI giusta procura a

margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 197/2014 della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI –

SEZIONE DISTACCATA di SASSARI del 9/7/2014, depositata l’11/7/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

12/5/2016 dal Consigliere Relatore Dott. CATERINA MAROTTA;

udito l’Avvocato ALESSANDRO MELONI difensore della controricorrente

che si riporta agli scritti.

Fatto

FATTO E DIRITTO

1 – Il Consigliere relatore, designato ai sensi dell’art. 377 c.p.c., ha depositato in cancelleria la seguente relazione ex artt. 380 bis e 375 c.p.c., ritualmente comunicata:

“Il Tribunale di Tempio Pausania, in parziale accoglimento della domanda proposta da P.F. nei confronti di Meridiana S.p.A. e di Meridiana Fly S.p.A. (cui medio tempore era stato ceduto il ramo di azienda comprendente tutte le attività connesse al volo), accertava la nullità del termine apposto ai contratti stipulati dalla ricorrente con Meridiana dal 1998 al 2006 e dichiarava la sussistenza tra le parti di un rapporto a tempo indeterminato sin dal primo contratto condannando dette società al pagamento di otto mensilità globali di fatto. Escludeva la sussistenza del diritto alle retribuzioni per i periodi non lavorati e non si pronunciava sulla domanda diretta ad ottenere la ricostruzione della carriera ed il pagamento delle conseguenti differenze retributive connesse all’anzianità man mano maturata durante i vari rapporti a termine, dunque in costanza di questi.

Avverso tale decisione proponeva appello la P.; la Corte di appello di Cagliari – sez. distaccata di Sassari accoglieva il gravame della lavoratrice e riconosceva il diritto al conseguimento di qualunque effetto (in termini di maggiorazioni contrattuali) derivante dall’anzianità lavorativa per tutti i periodi dei contratti a termine effettivamente lavorati. Seguiva la condanna delle società alla corresponsione delle relative differenze retriburive, con interessi e rivalutazione.

Per la cassazione di tale decisione propongono ricorso Meridiana Fly S.p.A. e Alisarda S.p.A. (nuova denominazione sociale di Meridiana S.p.A.) affidato a due motivi.

La P. resiste con controricorso.

Con il primo motivo la società deduce violazione e/o falsa applicazione degli artt. 112 e 434 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, dolendosi del fatto che la Corte territoriale non abbia dichiarato l’inammissibilità dell’appello in quanto redatto senza il rispetto dei requisiti previsti dal nuovo testo dell’art. 434 c.p.c. già in vigore al momento del suo deposito.

Il motivo è inammissibile e comunque manifestamente infondato.

La ricorrente non ha riprodotto nè allegato al ricorso per cassazione l’atto di appello della lavoratrice in relazione al quale incentra le proprie censure, limitandosi a riportare il contenuto della propria comparsa di costituzione evidenziante la formulazione dell’eccezione di inammissibilità del gravame.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, ove il ricorrente denunci la violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c. (ed analogamente quella dell’art. 434 c.p.c.) conseguente alla mancata declaratoria di nullità dell’atto di appello per genericità dei motivi, deve riportare nel ricorso, nel loro impianto specifico, i predetti motivi formulati dalla controparte – cfr. Cass. 10 gennaio 2012, n. 86; si veda anche Cass. 20 luglio 2012, n. 12664 che si è così espressa: “Anche laddove vengano denunciati con il ricorso per cassazione errores in procedendo, in relazione ai quali la Corte è anche giudice del fatto, potendo accedere direttamente all’esame degli atti processuali del fascicolo di merito, si prospetta preliminare ad ogni altra questione quella concernente l’ammissibilità del motivo in relazione ai termini in cui è stato esposto, con la conseguenza che, solo quando sia stata accertata la sussistenza di tale ammissibilità diventa possibile valutare la fondatezza del motivo medesimo e, dunque, esclusivamente nell’ambito di quest’ultima valutazione, la Corte di cassazione può e deve procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali”. (In applicazione di questo principio, la S.C. ha affermato che il ricorrente, ove censuri la statuizione della sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso l’inammissibilità, per difetto di specificità, di un motivo di appello, ha l’onere di trascrivere il contenuto del mezzo di impugnazione nella misura necessaria ad evidenziarne la genericità, e non può limitarsi a rinviare all’atto medesimo); si veda in senso conforme anche la più recente Cass. 17 gennaio 2014, n. 896 -. Occorre quindi che l’atto di appello sia trascritto in modo completo (o quantomeno nelle parti salienti) nel ricorso, dovendosi ritenere, in mancanza, che la Corte non sia posta in grado di valutare la fondatezza e la decisività delle censure, in quanto non abilitata a procedere all’esame diretto degli atti del merito, con conseguente rigetto del relativo motivo di ricorso (cfr. Cass. 12 maggio 2010, n. 11477).

Nel caso in esame, la ricorrente, omettendo di trascrivere l’atto di appello proposto dalla lavoratrice nei suoi contenuti essenziali, ne ha proposto, attraverso la riproduzione della propria comparsa di costituzione nel giudizio di secondo grado, solo una sintesi – pag.

5, 4 capoverso -, peraltro inclusiva di specifici apprezzamenti. Ciò non soddisfa il principio di autosufficienza del ricorso poichè la parte si è sostanzialmente sostituita a questa Corte nell’operazione preliminare relativa al vaglio della rilevanza e della pertinenza della censura svolta in sede di ricorso per cassazione.

In ogni caso, come è dato leggere nella impugnata sentenza impugnata, il gravame aveva censurato la decisione di primo grado nella parte in cui era stata omessa ogni statuizione sulla richiesta di condanna delle società appellate alle maggiorazioni contributive connesse al progredire dell’anzianità (asseritamente conseguente all’unicità del rapporto ea all’applicazione del principio di parità di trattamento tra precari e non), nella parte in cui il giudice non aveva condannato in solido le società convenute al pagamento delle pretese differenze retributive, nella parte in cui le spese erano state determinate in modo incongruo. E’, dunque, evidente che l’appello, nel suo complesso, era stato formulato in termini tali da consentire al giudice di cogliere le critiche mosse alla decisione gravata.

Con il secondo motivo la società deduce violazione e/o falsa applicazione della L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, così come chiarito ed interpretato dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 13, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, rilevando che l’indennità de qua va integralmente a sostituirsi ad ogni conseguenza economica connessa e derivante dalla dichiarazione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro e che pertanto la stessa assorbe, ricomprendendola, qualsiasi differenza retributiva e contributiva connessa al riconoscimento dell’esistenza del rapporto a tempo indeterminato, ivi compreso ogni incremento legato all’anzianità e/o alla progressione di carriera, nonchè ogni compenso successivo al termine del rapporto ovvero alla messa in mora del datore. Chiede la riforma della sentenza nella parte in cui ha dichiarato che la somma dei periodi di servizio dall’inizio del primo contratto deve essere computata ai fini dell’anzianità di servizio e dei relativi trattamenti economici.

Il motivo è manifestamente infondato alla luce dell’orientamento espresso da questa Corte nelle recenti pronunce nn. 2492, 2493, 2494 del 10 febbraio 2015; nn. 2343, 2344, 2345, 2346, 2347 del 9 febbraio 2015; nn. 2291, 2292, 2293, 2297, 2298, 2299, 2300, 2301 del 6 febbraio 2015; nn. 1940, 1941, 1942, 1943, 1944, 1945, 1946, 1947 del 3 febbraio 2015, nn. 552, 553, 554, 555, 556, 557, 559, 559, 560, 561, 562, 563 del 15 gennaio 2015; 262 del 12 gennaio 2015.

La L. n. 183 del 2010, art. 32 ha modificato il regime della tutela del lavoratore assunto con un contratto a termine illegittimo.

Il precedente assetto era così organizzato: nel caso in cui si accertasse l’illegittimità del termine, il giudice doveva ordinare la riammissione in servizio del lavoratore, con conseguente diritto a percepire le retribuzioni anche qualora il datore di lavoro non consentisse la ripresa del lavoro. Questa prima fondamentale conseguenza è rimasta immutata. Anche dopo la L. n. 183 del 2010 e la legge di interpretazione autentica, la sentenza che accerta l’illegittimità del termine converte il contratto a termine in contratto a tempo indeterminato e dispone la riammissione del lavoratore in servizio. Da quel momento il lavoratore avrà diritto a percepire le retribuzioni tanto se il datore di lavoro adempie, quanto se non adempie in questo secondo caso a titolo di risarcimento del danno commisurato al pregiudizio economico derivante dal rifiuto di assunzione: cfr. Cass. 11 aprile 2013, n. 8851; ma v. anche Corte cost. 30 luglio 2014, n. 226).

Con riferimento, invece, al periodo che precede la sentenza, il quadro è parzialmente cambiato.

Nel regime previgente mancava una norma che regolasse specificamente questo profilo e la regolamentazione venne delineata in base ai principi generali del diritto civile e del lavoro. Fondamentale fu la sentenza delle Sezioni unite 5 marzo 1991, n. 2334, che risolse il contrasto tra due orientamenti: quello che riteneva che al lavoratore spettassero tutte le retribuzioni pregresse e quello che invece riteneva che il lavoratore avesse diritto alle retribuzioni pregresse solo se e a decorrere dal momento in cui avesse messo a disposizione del datore di lavoro le sue energie lavorative.

E’ bene ricordare che la diversità dei due orientamenti concerneva il diritto alla retribuzione per gli intervalli non lavorati tra un contratto a termine e l’altro, in caso di sequenza di contratti a termine, mentre nessuna delle sentenze in conflitto negava che spettasse la retribuzione per i periodi di lavoro effettuati nella sequenza di contratti a termine.

Le Sezioni unite ritennero che il problema concernente i periodi “non lavorati”, non trovasse soluzione in una norma specifica, come invece avveniva nella materia affine ma non identica dei licenziamenti illegittimi con l’art. 18 St. lav., e dovesse quindi essere risolto in base ai principi generali dell’ordinamento. Affermarono che il principio regolatore della materia, data la natura sinallagmatica del rapporto di lavoro, fosse quello della corrispettività tra lavoro e retribuzione e che non potesse esservi retribuzione in assenza della prestazione lavorativa. Per questa ragione ritennero non fondato l’orientamento che riconosceva tutte le retribuzioni pregresse per i periodi non lavorati, ed invece fondato quello che le riconosceva, ma solo a condizione ed a far tempo da un eventuale atto di messa a disposizione delle energie Lavorative da parte del lavoratore. Queste conclusioni hanno guidato la giurisprudenza dei decenni successivi.

Le Sezioni unite si espressero anche sui “periodi lavorati” e precisarono che l’unificazione del rapporto di Lavoro “comporta, a prescindere dalle eventuali spettanze, nei limiti anzidetti, per gli intervalli non lavorati, un ricalcolo delle spettanze per i periodi lavorati una volta considerati inseriti nell’unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, con conseguente applicazione degli istituti propri di questo quali, ad esempio, gli aumenti di anzianità, la misura del periodo di comporto, la misura del periodo di preavviso, e determina comunque sicuri vantaggi per il lavoratore…. quali l’acquisizione della corrispondente anzianità, quanto meno per sommatoria dei periodi lavorati”.

Il quadro regolativo è cambiato con la L. n. 183 del 2010, ma come si vedrà, il cambiamento riguarda solo i periodi non lavorati.

L’art. 32, comma 5, così si esprime: “nei casi di conversione del contratto a tempo indeterminato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore, stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8”.

La L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 13, ha sancito che detta norma “si interpreta nel senso che l’indennità ivi prevista ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso tra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostruzione del rapporto di lavoro”.

Dalla norma si desume che l’indennità è volta al “risarcimento” del lavoratore. Quindi concerne un danno subito dal lavoratore e cioè il danno derivante dalla perdita del lavoro dovuta ad un contratto a termine illegittimo, un danno da mancato lavoro.

La norma di interpretazione autentica afferma che l’indennità “ristora un pregiudizio” ribadendo, ancor più esplicitamente, che è correlata ad un danno, un pregiudizio, derivante dalla perdita del lavoro e che essa onnicomprensiva perchè ristora per intero le “conseguenze” retributive e contributive di quel danno da mancato lavoro. Quindi tutti i danni sul piano retributivo e contributivo che sono conseguenza, cioè sono legati da un nesso di causalità con la perdita del lavoro.

Se l’indennità serve a risarcire le conseguenze retributive e contributive del danno da mancato lavoro è evidente che il legislatore considera solo i periodi di non lavoro ai fini di tale risarcimento. Ed infatti esclude dal computo il periodo sino alla scadenza del termine, che è periodo di lavoro, in cui il lavoratore è stato retribuito e quindi non ha subito, nè può subire conseguenze negative sul piano retributivo o contributivo. In tale periodo la retribuzione è dovuta e detto periodo si computa ai fini degli effetti riflessi e dell’anzianità di servizio. L’anzianità di servizio maturata in questo periodo lavorato, vale a tutti gli effetti. Rileva persino per la quantificazione della indennità volta a risarcire il danno derivante dalla perdita del lavoro, perchè è uno dei criteri indicati dalla L. n. 604 del 1966, art. 8 richiamati dalla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5.

Il problema oggetto della presente controversia deriva dal fatto che il datore di lavoro ha stipulato con il lavoratore non un unico contratto a termine, ma una serie di contratti a termine. Il legislatore non ha espressamente considerato questo caso, ma l’interpretazione logico-sistematica della norma impone di ritenere che, se è estraneo al risarcimento il periodo del primo contratto a termine, lo saranno anche i periodi lavorati in successivi contratti a tempo determinato.

Sarebbe assurdo affermare che per questi periodi la retribuzione non spetti e sia assorbita nella indennità, ma è parimenti contrario alla logica della norma ritenere che questi periodi di lavoro è come se non fossero stati effettuati e non rilevino ai fini dell’anzianità di servizio e delle sue implicazioni economiche.

Questi periodi non possono non avere lo stesso trattamento giuridico del periodo di lavoro per il primo contratto a termine in quanto, al pari del primo, sono estranei al danno determinato dal non lavoro, quindi estranei alla indennità prevista dal legislatore per risarcire le conseguenze retributive e contributive di quel pregiudizio. Il risarcimento riguarderà solo i periodi di “non lavoro”. Solo per questi periodi vi è un danno da risarcire e un pregiudizio da ristorare.

Pertanto l’indennità prevista dall’art. 32, risarcisce il danno subito per il mancato lavoro e lo risarcisce in tutte le sue conseguenze retributive e contributive, in tal senso è onnicomprensiva. Mentre non riguarda il periodo (In caso di un unico contratto a termine) o i periodi di lavoro (in caso di più contratti a termine). I diritti relativi a questi periodi non possono essere intaccati e inglobati nell’indennizzo forfetizzato del danno causato dal non lavoro. Per questi periodi non vi è niente da risarcire cd il risarcimento mediante indennizzo non può, in una sorta di eterogenesi dei fini, risolversi nella contrazione di diritti legati da un rapporto di corrispettività con la prestazione lavorativa effettuata.

Questa ricostruzione è in continuità con quanto affermato nelle prime sentenze sull’art. 32, come interpretato dalla L. n. 92 del 2012. In particolare, Cass. n. 15265 del 12 settembre 2012, nell’enucleare il principio di diritto parla di “indennità forfetizzata ed onnicomprensiva per i danni causati dalla nullità del termine nel periodo considerato intermedio”. Forfetizzazione dei danni determinatisi “nel” periodo intermedio, significa che l’indennizzo non incide sui diritti maturati in quel periodo nella parte del rapporto che non ha determinato danni: non tocca le retribuzioni per i periodi lavorati e gli effetti riflessi di tali retribuzioni, nè tocca l’anzianità lavorativa maturata in tale o in tali periodi.

La medesima pronuncia afferma: “legittimamente la sentenza impugnata ha considerato nell’anzianità lavorativa e retributiva tutti i periodi effettivamente lavorati, da sommarsi a quelli successivi alla formale assunzione a tempo indeterminato, in ragione del principio ripetutamente affermato da questa Corte (Cass., sez. un., 5 marzo 1991, n. 2334 e succ.)”. L’affermazione è netta ed è esplicito il richiamo alla sentenza delle Sezioni unite che, come si è visto, affermò che nel caso di trasformazione, in unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, di più contratti a termine succedutisi fra le stesse parti, per effetto dell’illegittimità dell’apposizione del termine, gli “intervalli non lavorati” fra l’uno e l’altro rapporto, in difetto di un obbligo del Lavoratore di continuare ad effettuare la propria prestazione o di tenersi disponibile ad effettuarla, non implicano il diritto alla retribuzione… e nemmeno sono computabili come periodi di servizio”, mentre i “periodi lavorati” danno diritto alla retribuzione e sono rilevanti ai fini della maturazione degli scatti di anzianità. Quest’ultimo profilo dell’assetto dato dalle Sezioni unite del 91 alla materia – sottolinea la sentenza del 2012 –

va oggi pienamente riaffermato non essendo stato scalfito minimamente dallo ius superveniens costituito dalla L. n. 183 del 2010.

Le più recenti Cass. 16 giugno 2014, n. 13630 e Cass. 17 giugno 2014, n. 13732 hanno fissato il seguente principio di diritto: “la L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, commisura l’indennità, dovuta nei casi di conversione, all’ultima retribuzione globale di fatto, così riferendosi al danno subito dal lavoratore, ossia alla perdita della retribuzione (ed accessori) per essere stato allontanato dal proprio posto di lavoro nel periodo compreso tra l’allontanamento e la sentenza di merito. L’espressione onnicomprensiva, adoperata dal legislatore con riferimento all’indennità, si riferisce soltanto al danno ora detto, e non a quanto spetta al lavoratore per eventuale ricostruzione della carriera, una volta unificati i diversi rapporti a tempo determinato in un unico rapporto a tempo indeterminato”.

In questo principio di diritto è detto chiaramente che l’indennizzo onnicomprensivo copre soltanto il danno derivante dall’allontanamento dal lavoro e quindi il danno subito per il “non lavoro” nel periodo o nei periodi “non lavorati”. Ti che ancora una volta conferma che i diritti per i periodi in cui si è prestato lavoro non vanno ricompresi nell’indennità risarcitoria perchè non sono stati danneggiati, sono fuori dal perimetro del danno e quindi del risarcimento.

Quanto alle conseguenze giuridiche di tale assetto sull’anzianità, la Corte in queste ultime sentenze aggiunge, e non potrebbe essere più chiara, che: “L’espressione onnicomprensiva, adoperata dal legislatore con riferimento all’indennità, si riferisce soltanto al danno ora detto, e non a quanto spetta al lavoratore per eventuale ricostruzione della carriera, una volta unificati i diversi rapporti a tempo determinato in un unico rapporto a tempo determinato”.

In conclusione, nonostante i problemi lessicali derivanti dal fatto che probabilmente il legislatore ha configurato l’indennità avendo presente il caso, statisticamente più frequente, della stipulazione di un unico contratto a termine, deve affermarsi che l’indennità prevista dalla L. n. 183 del 2010, art. 32 ristora in generale il danno subito dal lavoratore per l’allontanamento dal lavoro, tanto se questo sia stato unico, quanto se sia stato ripetuto. Per tali periodi di non lavoro, mentre prima il lavoratore aveva diritto ad essere comunque retribuito a decorrere dalla messa a disposizione delle energie lavorative pur non avendo lavorato, oggi è prevista solo l’indennità da un minimo di 2,5 ad un massimo di 12 mensilità.

Al contrario, per il periodo di lavoro (o i periodi di lavoro, in caso di sequenza di contratti) il lavoratore ha diritto ad essere retribuito ed ha diritto a che tale periodo o tali periodi siano computati ai fini della anzianità di servizio e, quindi, della maturazione degli scatti di anzianità.

Questa interpretazione della L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5 è la più coerente sul piano logico sistematico. Si coordina con i tratti del sistema delineato dalle Sezioni unite che, come si è visto e come hanno sottolineato le decisioni del 2012, sotto questo profilo rimangono fermi, ed è in continuità con i primi interventi di questa Corte successivi alla modifica legislativa. E coerente con i principi espressi dalla L. n. 230 del 1962, art. 5 e dal D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 6 nonchè con i principi costituzionali e del diritto dell’Unione europea: in particolare con il principio di non discriminazione tra lavoratori a tempo determinato e lavoratori a tempo indeterminato, anche e specificamente in ordine all’anzianità di servizio, affermato con la Direttiva 1999/70/CE del Consiglio del 28 giugno 1999 relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato.

Per quanto sopra considerato, si propone il rigetto del ricorso, con ordinanza, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., n. 5″.

2 – Non sono state depositate memorie ex art. 380 bis c.p.c., comma 2.

3 – Questa Corte ritiene che le osservazioni in fatto e le considerazioni e conclusioni in diritto svolte dal relatore siano del tutto condivisibili, siccome coerenti alla consolidata giurisprudenza di legittimità in materia e che ricorra con ogni evidenza il presupposto dell’art. 375 c.p.c., n. 5, per la definizione camerale del processo.

4 – In conclusione il ricorso va rigettato.

5 – La regolamentazione delle spese segue la soccombenza.

6 – Il ricorso è stato notificato in data successiva a quella (31/1/2013) di entrata in vigore della legge di stabilità del 2013 (L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 del 2012), che ha integrato il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 aggiungendovi il comma 1 quater del seguente tenore: “Quando l’impugnazione, anche incidentale è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma art. 1 bis. Il giudice dà atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso”.

Essendo il ricorso in questione integralmente da respingersi, deve provvedersi in conformità.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna le società ricorrenti al pagamento, in favore della controparte, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 100,00 per esborsi ed Euro 3.000,00 per compensi professionali oltre accessori di legge e rimborso forfetario in misura del 15%, da attribuirsi agli Avvocati Luigi Pau e Alessandro Meloni, antistatari.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte delle ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del cit. art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 12 maggio 2016.

Depositato in Cancelleria il 8 luglio 2016

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