Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14053 del 27/06/2011

Cassazione civile sez. trib., 27/06/2011, (ud. 17/05/2011, dep. 27/06/2011), n.14053

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PIVETTI Marco – Presidente –

Dott. FERRARA Ettore – Consigliere –

Dott. VIRGILIO Biagio – Consigliere –

Dott. CIRILLO Ettore – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

OLEIFICIO AMBROSIANO SRL IN LIQUIDAZIONE in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA

CARDINAL DE LUCA 22 presso lo studio dell’Avvocato SIGGIA ELIO, che

lo rappresenta e difende unitamente all’Avvocato TASSI LUCILLA, con

procura speciale notarile del Not. Dr. SALVINI GIULIANO in MILANO,

rep. n. 149423 del 17/05/2006;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 39/2005 della COMM. TRIB. REG. di MILANO,

depositata il 07/04/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

17/05/2011 dal Consigliere Dott. FRANCESCO TERRUSI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

BASILE Tommaso, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso in

subordine rigetto.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

A seguito di indagini di polizia tributaria, culminate in apposito p.v.c., l’ufficio distrettuale delle imposte dirette di Milano accertò, a carico della s.r.l. Oleificio Ambrosiano, ai fini dell’Irpeg e dell’Ilor, un maggior reddito imponibile di oltre L. 9 mld., con correlativa applicazione di sanzioni.

La società impugnò l’avviso di accertamento, ma con esito negativo.

Invero la commissione tributaria regionale della Lombardia, confermando la decisione di primo grado, ritenne che dalle indagini svolte era emersa l’avvenuta realizzazione, da parte della società, di un articolato sistema di frode, costituito da un fittizio ciclo produttivo consistente nella emissione di fatture per operazioni inesistenti, tanto relative a fittizi acquisti di olio sfuso presso terzi fornitori, quanto a fittizie conseguenti di vendite del prodotto confezionato. Il tutto al fine di beneficiare di aiuti a consumo concessi dalla Comunità europea. Poichè la società non aveva addotto alcun fatto tale da contrastare le suddette risultanze, ritenne dunque giustificata la ripresa a tassazione di un maggior reddito conseguente al mancato riconoscimento dei suddetti costi fittizi.

Contro questa sentenza, resa pubblica il 7 aprile 2005 e non notificata, la società Oleificio Ambrosiano ha proposto ricorso per cassazione affidato a un motivo.

L’amministrazione finanziaria ha resistito con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. – Non rileva, ai fini del giudizio di cassazione, la documentata sopravvenuta rinuncia al mandato ad litem dei difensori della società ricorrente.

2. – Il ricorso denunzia violazione e falsa applicazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, artt. 75, 95, 115 e 118, del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 39, 40 e 43 e del D.Lgs. n. 472 del 1997, artt. 7, 12 e 17, nonchè vizio di motivazione.

Si sostiene che, in relazione ad acquisti e vendite ritenute, nel processo verbale di constatazione della polizia tributaria, globalmente inesistenti, l’ufficio finanziario ha in modo arbitrario ritenuto inesistenti solo gli acquisti, per poi procedere alla ripresa a tassazione delle vendite come se le stesse fossero realmente avvenute. Donde si imputa alla sentenza di essere incorsa in un vistoso errore logico e giuridico nell’aver ritenuto la legittimità della suddetta tassazione di ricavi solo presunti, in quanto semplicemente ottenuti scorporando i costi.

3. – Il motivo non ha fondamento.

Esso ripropone la questione se il recupero a tassazione di costi fittizi, in presenza di dati – quali le false fatturazioni – indicativi della inattendibilità complessiva dei documenti e delle scritture contabili dell’impresa, debba comportare anche l’esclusione, dalla base imponibile, di correlati fittizi ricavi.

Simile questione è stata al centro di un acceso dibattito che ha coinvolto anche la giurisprudenza, a petto della considerazione che il reddito conseguente a operazioni inesistenti può essere ritenuto solo apparente. Dunque non equivale a reddito effettivo e reale ai fini della imposizione diretta, giustappunto nella misura in cui deriva da operazioni di vendita considerate – esse pure – fittizie.

Questa conclusione, al fondo di una tesi recepita da un isolato precedente di questa Corte (Cass. n. 19062/2003), sebbene forse valevole su un piano teorico generale, non resiste a una critica di implausibilità, da un punto di vista logico collegata al normale corso della pratica evasiva in materia commerciale. Si fonda invero sul presupposto di una esposizione di ricavi inesistenti accanto a costi inesistenti, in guisa tale da rendere fiscalmente inutile il delitto di utilizzazione di false fatture. Mentre è noto che, in materia fiscale, i costi fittizi servono semmai ad abbattere il reddito.

A ogni modo, la medesima affermazione si palesa irrilevante in seno alla struttura del processo che attinge l’accertamento tributario, posto che riguarda il contenuto della dichiarazione del reddito d’impresa, i cui dati positivi sono intangibili in senso favorevole se non in virtù di una rettifica proveniente dallo stesso dichiarante.

In sostanza, la diretta dipendenza di una componente del reddito dichiarato dai costi disconosciuti dall’amministrazione finanziaria necessita di dimostrazione a onere del contribuente, e con le modalità proprie della rettifica della dichiarazione. Giacchè altrimenti, in base alle previsioni del Tuir, il reddito viene correttamente tassato nella misura conseguente ai ricavi dichiarati, poichè l’oggetto del processo tributario resta delimitato dal contenuto dell’atto impositivo impugnato, Il quale, nella specie, ha inciso soltanto sui costi e non anche sui ricavi. Tanto si suole esprimere, in giurisprudenza, a mezzo de rinvio al principio di tipicità degli atti di accertamento, nel cui ambito, fatta eccezione per i provvedimenti adottati in via di autotutela o su richiesta di rimborso, non sono previsti provvedimenti finalizzati alla mera riduzione del debito d’imposta dal contribuente dichiarato (cfr.

Cass. n. 12905/2008; n. 23859/2007; n. 4224/2006).

4. – Posta dunque la questione nei termini indicati, appare evidente la correttezza della decisione dei giudici di merito, giacchè l’operato dell’ufficio accertatore non ha violato il D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 75 (oggi art. 109) per il fatto che si è limitato a recuperare soltanto i costi fittizi, senza abbattimento anche di pretesi corrispondenti (maggiori) ricavi fittiziamente dichiarati.

Consegue il rigetto del ricorso per cassazione.

Spese alla soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alle spese de giudizio di cassazione, che liquida in Euro 25.000,00, oltre alle spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Quinta Civile, il 17 maggio 2011.

Depositato in Cancelleria il 27 giugno 2011

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