Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14048 del 07/07/2020

Cassazione civile sez. trib., 07/07/2020, (ud. 30/01/2020, dep. 07/07/2020), n.14048

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Francesco Mario – Presidente –

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. GILOTTA Bruno – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 12859/2013, promosso da:

C.L., rappresentato e difeso dall’avv. Stefano Loconte del

foro di Bari ed elettivamente domiciliato a Roma presso lo studio

dell’avv. Marzia Paolella in via Giovan Battista Martini;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del direttore pro tempore,

rappresentata dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio

legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza 39/27/12 del 2 aprile 2012 della

Commissione tributaria regionale per la Lombardia.

Fatto

RILEVATO

CHE:

C.L. ha impugnato l’avviso di accertamento (OMISSIS) i.v.a., i.r.p.e.f. e i.r.a.p. 2003 con il quale della Direzione Provinciale dell’Agenzia delle Entrate di Monza e Brianza, sulla base di studio di settore del D.L. n. 331 del 1993, ex art. 62 sexies, ha rettificato il reddito d’impresa per l’anno 2003 da Euro 17.869,00 e Euro 42.611,00. Davanti alla Commissione tributaria provinciale di Milano il contribuente ha dedotto l’illegittimità dell’atto impositivo per l’assenza di grave scostamento fra il reddito dichiarato e quello risultante dallo studio di settore, per l’assenza di altri elementi indiziari a sostegno del maggior reddito contestato e per l’omessa considerazione della regolarità delle scritture contabili.

La Commissione tributaria provinciale ha rigettato il ricorso ritenendo corretta l’applicazione dello studio di settore TG61D – cluster 9 – stante il mandato d’agenzia esercitato dal contribuente e l’attività di intermediazione nel commercio di prodotti per l’elettronica dichiarata dallo stesso ricorrente nella dichiarazione dei redditi.

La Commissione tributaria regionale ha confermato questa decisione, ritenendo grave lo scostamento fra reddito dichiarato e reddito risultante dallo studio di settore e insufficienti le ragioni – non straordinarie nè eccezionali – addotte dal contribuente a sostegno della sua inapplicabilità.

Ricorre per la cassazione di questa sentenza, per due diffusi motivi, il contribuente.

L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

Con il primo motivo il ricorrente denuncia “illegittimità della sentenza impugnata

per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti: in particolare, omessa valutazione della documentazione prodotta dal contribuente in sede di contraddittorio endoprocedimentale (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5)”.

Con il secondo motivo denuncia “illegittimità della sentenza per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d) (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”.

Il primo motivo è inammissibile.

L’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv. in L. n. 134 del 2012, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (Cass., 27415/2018).

In questo caso non si tratta di un fatto storico ma di un preteso elemento istruttorio emerso in sede di contraddittorio endoprocedimentale (v. Cass. sopra citata).

Inoltre, la valutazione probatoria dei documenti prodotti è stata effettuata dai giudici di merito sin dal primo grado di giudizio, dove è stato rilevato che era stato lo stesso contribuente ad indicare un codice di attività che lo poneva fra gli intermediari del commercio di prodotti elettronici e non solo fra gli intermediari di servizi di analisi e programmazione: fatto che ha implicato, secondo la valutazione qui insindacabile dei giudici merito, l’irrilevanza o la limitata influenza delle vicende poste dal contribuente a giustificazione del minor reddito dichiarato e correlata alla sola attività di intermediazione di software.

La Commissione tributaria regionale – al pari di quella di primo grado – ha concluso la motivazione della decisione assunta sostenendo che i fatti addotti a giustificazione dei minori redditi dichiarati non erano nè straordinari nè eccezionali. Anche a questo proposito il riferimento al contenuto della documentazione prodotta in sede di contraddittorio endoprocedimentale è, quantunque implicito, chiaro, là dove nega rilevanza all’interesse delle ditte mandatarie a contabilizzare i corrispettivi corrisposti e delle ditte acquirenti ad evidenziare i relativi costi, trattandosi di evenienze fisiologiche.

Sul punto, deve osservarsi come ai giudici di merito, segnatamente alla Commissione tributaria regionale, risulta nota la giurisprudenza, ormai consolidata, secondo la quale i parametri o studi di settore previsti dalla L. n. 549 del 1995, art. 3, commi 181 e 187, rappresentando la risultante dell’estrapolazione statistica di una pluralità di dati settoriali acquisiti su campioni di contribuenti e dalle relative dichiarazioni, rilevano valori che, quanto eccedono il dichiarato, integrano il presupposto per il legittimo esercizio da parte dell’Ufficio dell’accertamento analitico-induttivo, del D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39, comma 1, lett. d, che deve essere necessariamente svolto in contraddittorio con il contribuente, sul quale, nella fase amministrativa e, soprattutto, contenziosa, incombe l’onere di allegare e provare, senza limitazioni di mezzi e di contenuto, la sussistenza di circostanze di fatto tali da allontanare la sua attività dal modello normale al quale i parametri fanno riferimento, sì da giustificare un reddito inferiore a quello che sarebbe stato normale secondo la procedura di accertamento tributario standardizzato, mentre all’ente impositore fa carico la dimostrazione dell’applicabilità dello “standard” prescelto al caso concreto oggetto di accertamento (da ult., Cass., 14288/2016). Ed era altresì noto il corollario che la giurisprudenza ha derivato da questo principio secondo il quale, al fine di superare la presunzione di reddito determinata dalla procedura standardizzata, grava sul contribuente l’onere di dimostrare, attraverso informazioni ricavabili da fonti di prova acquisite al processo con qualsiasi mezzo, la sussistenza di circostanze di fatto tali da far discostare la sua attività dal modello normale al quale i parametri fanno riferimento e giustificare un reddito inferiore a quello che sarebbe stato normale in virtù di detta procedura (fra le ultime, Cass., 769/2019). Fonti di prova su circostanze di fatto che non possono coincidere nè con il generico richiamo a crisi del settore o al diverso andamento del mercato (che, come hanno ribadito i giudici di merito, sono elementi già presi in considerazione nei “sofisticati” studi di settore) nè su eventi personali – come l’awenuto pensionamento del contribuente – che è circostanza solo suggestiva che non vale a giustificare il sopra detto scostamento.

Il secondo motivo è infondato.

E’ già stato precisato che la sentenza della Commissione tributaria regionale ha avuto contezza della memoria depositata dal contribuente in sede endoprocedimentale, sicchè la conclusione tratta per validare l’accertamento sulla base degli studi di settore è conseguenza non già dell’attribuzione agli studi di settore di un valore presuntivo autonomo, ma dell’inidoneità delle giustificazioni addotte dal contribuente per invalidarne l’applicabilità al suo caso concreto. In questo senso la decisione assunta si pone nel solco della giurisprudenza sopra citata anche là dove attribuisce agli studi di settore il valore probatorio dato dal loro confronto con gli specifici e concreti elementi di prova che il contribuente ha diritto di esporre in sede procedimentale e che può ribadire e ampliare anche in sede giudiziaria.

Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.100,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 30 gennaio 2020.

Depositato in cancelleria il 7 luglio 2020

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