Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 14023 del 08/07/2016

Cassazione civile sez. lav., 08/07/2016, (ud. 20/04/2016, dep. 08/07/2016), n.14023

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ANTONIO Enrica – rel. Presidente –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

Dott. DORONZO Adriana – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

Dott. RIVERSO Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 20122-2011 proposto da:

D.C.R., C.F. (OMISSIS), elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA BUCCARI 3, presso lo studio dell’avvocato

EMILIO RINALDI, che la rappresenta e difende unitamente

all’avvocato FABIO MADAMA, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

MINISTERO ISTRUZIONE UNIVERSITA’ RICERCA, già MINISTERO PUBBLICA

ISTRUZIONE, C.F. (OMISSIS), in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso L’AVVOCATURA

GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

e contro

UFFICIO SCOLASTICO REGIONALE PER IL LAZIO;

ISTITUTO SUPERIORE LICEO LUCREZIO CARO – AZZARITA;

– intimati –

avverso la sentenza n. 5882/2010 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 30/07/2010 R.G.N. 4848/2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

20/04/2016 dal Consigliere Dott. ENRICA D’ANTONIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MASTROBERARDINO Paola, che ha concluso per l’accoglimento del

ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte d’appello di Roma, in riforma della sentenza del Tribunale, ha rigettato la domanda di D.C.R. dipendente dell’amministrazione provinciale di Roma transitata nei ruoli del personale ATA del Ministero dell’Istruzione a vedersi riconoscere ai fini giuridici ed economici l’anzianità di servizio maturata alle dipendenze dell’amministrazione di provenienza dalla data di assunzione e fino al 31/12/99 La Corte ha rilevato che la L. n. 266 del 2005, art. unico, comma 218, (legge finanziaria 2006) di interpretazione autentica aveva stabilito che l’espressione ” anzianità giuridica ed economica ” di cui alla L. n. 124 del 1999, art. 89, comma 2 andava interpretato in senso restrittivo sicchè gli effetti dell’anzianità giuridica erano limitati a quelli che essa avesse eventualmente già prodotto nel precedente rapporto.

La Corte ha poi richiamato la sentenza della Corte Cost. n 234/2007 che aveva dichiarato infondata la questione di costituzionalità e ritenuto retroattiva la norma comunque qualificata e la sentenza n 311/2009 che aveva dichiarato infondata la questione di costituzionalità in relazione all’art. 117 Cost. e per suo tramite all’art. 6 Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Avverso la sentenza ricorre la D.C. con tre motivi ulteriormente illustrati con memoria ex art. 378 c.p.c.. Resiste il Miur con controricorsorUfficio Scolastico Regionale e l’Istituto Superiore Lucrezio Caro Azzarita sono rimasti intimati. Acquisito il fascicolo d’ufficio la causa è stata nuovamente posta in decisione all’udienza odierna.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo D.C.R. denuncia violazione degli artt 421, 435 e 291 c.p.c. con riferimento all’art. 111 Cost., comma 2,.

Lamenta che la notifica del ricorso in appello era avvenuta solo il 4 /2/2006 non avendo l’appellante, dopo aver tempestivamente depositato il ricorso in data 15/5/2004, notificato l’appello nel termine fissato dalla Corte per l’udienza del 22/4/2005 nè avendovi l’appellante provveduto nel nuovo termine concesso alla prima udienza del 22/4/2005 per l’udienza del 3/3/2006 nella quale nessuno era comparso. Deduce che la Corte d’appello non avrebbe potuto concedere un nuovo termine dovendo, invece, dichiarare improcedibile l’appello non notificato nel primo termine.

Il motivo è infondato.

Deve in primo luogo rilevarsi che i fatti si riferiscono ad un periodo antecedente la sentenza a SSUU di questa Corte n. 20604/2008 e del conseguente overruling dalla stessa introdotto – con tale pronuncia si è affermato che nel rito del lavoro l’appello, pur tempestivamente proposto nel termine previsto dalla legge, è improcedibile ove la notificazione del ricorso depositato e del decreto di fissazione dell’udienza non sia avvenuta-.

L’improcedibilità dell’appello non può, pertanto, nella fattispecie trovare fondamento sulla base di un intervenuto ed imprevedibile mutamento giurisprudenziale (cfr Cass. n. 12521/2014)e l’appellante ha fatto correttamente affidamento sulla bontà dei successivi provvedimenti assunti dalla Corte d’appello.

Ciò premesso va osservato che dall’esame degli atti di causa risulta che la Corte territoriale, in prima udienza, ha concesso al Ministero un nuovo termine per la notifica dell’appello in applicazione, pur in mancanza di un esplicito riferimento, alla disciplina dell’art. 291 c.p.c. e dunque perentorio; che il Ministero ha provveduto alla notifica nel nuovo termine e che tuttavia non essendo la notifica andata a buon fine l’appellante ha ottenuto dalla Corte, all’udienza fissata ai sensi dell’art. 348 c.p.c., un nuovo termine. La ricorrente non censura in modo specifico che tale ulteriore termine non avrebbe potuto essere concesso poichè la precedente notifica non era nulla,ma del tutto inesistente con conseguente divieto di concessione di un ulteriore termine. La censura della ricorrente, pertanto,non è idonea, comunque, a fondare una pronuncia di improcedibilità dell’appello.

Con il secondo motivo la ricorrente lamenta l’omessa pronuncia (violazione dell’art. 112 c.p.c., art. 360 c.p.c., n 4) circa l’eccezione di improcedibilità del ricorso di cui al precedente motivo nonchè con riferimento al contrasto tra la L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 218, e la direttiva 77/187/CEE così come modificata dalla direttiva 98/50/CE. Con riferimento all’improcedibilità dell’appello ci si riporta a quanto prima esposto che consente di escludere la rilevanza e decisività della censura di omessa pronuncia. Per quanto attiene all’altro profilo contenuto nella censura ci si riporta a quanto di seguito verrà argomentato.

Con il terzo motivo si denuncia incostituzionalità della L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 218 per violazione dell’art. 3 Cost., art. 10 Cost., comma 1, art. 24 Cost., art. 97 Cost., comma 1, artt. 33 e 34 Cost., art. 36 Cost., comma 1, art. 117 Cost., comma 1. Rileva che l’art. 1 comma 218 citato era incostituzionale per contrasto con l’art. 3 Cost. stante l’ingiustificata disparità di trattamento tra il personale ATA proveniente dagli enti locali e quello sempre appartenuto al comparto statale risultante dall’art. 3, comma 1, Accordo Aran OOSS 20/7/2000 recepito con D.M. 5 aprile 2001; con l’art. 97 Cost. impedendo il buon andamento dell’amministrazione; con l’art. 36 Cost. non essendo la retribuzione adeguata considerata la sostanziale conformità delle mansioni svolte con i dipendenti statali fin dall’origine; con l’art. 10 Cost., comma 1, artt. 24 e 117 Cost. introducendo disparità di trattamento all’interno della stessa categoria di lavoratori; con la direttiva 77/187/CEE come modificata dalla direttiva CEE 98/50/CE relativa al trasferimento d’azienda e permanenza dei diritti dei lavoratori maturati con il cedente.

Le censure, da esaminarsi congiuntamente stante la loro connessione, sono fondate nei limiti della motivazione che segue e per le ragioni già espresse da Cass. 12 ottobre 2011, n. 20980 e Cass. 14 ottobre 2011, n. 21282, e reiteratamente ribadite in controversie analoghe e che qui si condividono (v. Cass. da n. 25066 a 25101 del 2011; Cass. da n. 12021 a 12051 del 2012; Cass. nn. 15740 e 24581 del 2014; più di recente, Cass. nn. 336, 6627, 7620, 10712 e 14145/1 2015).

In sintesi gli elementi rilevanti della vicenda storica sono i seguenti. Si controverte del trattamento giuridico ed economico del personale amministrativo, tecnico ed ausiliario (ATA) della scuola trasferito dagli enti locali al Ministero in base alla L. 3 maggio 1999, n. 124, art. 8, a far tempo dal 1 gennaio 2000.

Sulla base di detto art. 8 i dipendenti transitati hanno sostenuto la tesi che avrebbe dovuto essere loro riconosciuta, all’atto del trasferimento, l’anzianità già maturata presso gli enti locali e, per l’effetto, una retribuzione corrispondente a quella di un lavoratore che avesse maturato detta anzianità interamente alle dipendenze del Ministero.

Il MIUR, invece, sulla base del decreto ministeriale e dell’accordo sindacale richiamati, ha calcolato la retribuzione in godimento per il predetto personale al momento del trasferimento e, in base ad essa, ha individuato una anzianità convenzionale attribuendo un inquadramento corrispondente ad essa. In altre parole ha attribuito una anzianità non corrispondente a quella effettiva, ma che fosse tale da consentire la percezione di un trattamento economico equivalente a quello goduto dal dipendente ai momento del trasferimento (il cd. “maturato economico”). Il legislatore, dettando la L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 218 (finanziaria del 2006), ha recepito a sua volta i contenuti dell’accordo sindacale e del decreto ministeriale, elevando a rango di legge la previsione dell’autonomia collettiva.

L’efficacia retroattiva della disposizione è stata affermata da questa Corte (per tutte, Cass. SS.UU., 8 agosto 2011, n. 17076) e dalla Corte costituzionale (sentenza n. 234 del 2007).

L’incostituzionalità è stata esclusa in quattro interventi del giudice delle leggi (Corte cost. n. 234 e n. 400 del 2007; n. 212 del 2008; n. 311 del 2009). Sulla base della L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 218, ricorsi di contenuto analogo a quelli in esame, sono stati respinti (cfr. per tutte, Cass., 9 novembre 2010, n. 22751). In ragione della medesima disposizione di legge la sentenza qui impugnata ha rigettato la domanda della lavoratrice.

Successivamente alla sentenza qui impugnata è intervenuta nella vicenda la Corte di Giustizia dell’Unione europea (Grande sezione) con la sentenza 6 settembre 2011 (procedimento C-108/10, Scattolon), emessa su domanda di pronuncia pregiudiziale in merito all’interpretazione della direttiva del Consiglio 14 febbraio 1977, 77/187/CEE. La Corte ha risposto a quattro questioni poste dal giudice a quo. La prima consisteva nello stabilire se il fenomeno successorio disciplinato dalla L. n. 124 del 1999, art. 8, costituisca un trasferimento d’impresa ai sensi della normativa dell’Unione relativa al mantenimento dei diritti dei lavoratori.

La soluzione è stata affermativa: “La riassunzione, da parte di una pubblica autorità di uno Stato membro, del personale dipendente di un’altra pubblica autorità, addetto alla fornitura, presso le scuole, di servizi ausiliari comprendenti, in particolare, compiti di custodia e assistenza amministrativa, costituisce un trasferimento di impresa ai sensi della direttiva del Consiglio 14 febbraio 1977, 77/187/CEE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti, quando detto personale è costituito da un complesso strutturato di impiegati tutelati in qualità di lavoratori in forza dell’ordinamento giuridico nazionale di detto Stato membro”. Con la seconda e con la terza questione si chiedeva alla Corte di stabilire:

– se la continuità del rapporto di cui all’art. 3, n. 1 della 77/187 deve essere interpretata nel senso di una quantificazione dei trattamenti economici collegati presso il cessionario all’anzianità di servizio che tenga conto di tutti gli anni effettuati dal personale trasferito anche di quelli svolti alle dipendenze del cedente; – se tra i diritti del lavoratore che si trasferiscono al cessionario rientrano anche posizioni di vantaggio conseguite dal lavoratore presso il cedente quale l’anzianità di servizio se a questa risultano collegati nella contrattazione collettiva vigente presso il cessionario, diritti di carattere economico.

In motivazione la Corte rileva che, una volta inquadrato nel concetto di trasferimento d’azienda e quindi assoggettato alla direttiva 77/187, al trasferimento degli ATA si applica non solo il n. 1 dell’art. 3 della direttiva, ma anche il n. 2, disposizione che riguarda segnatamente l’ipotesi in cui l’applicazione del contratto in vigore presso il cedente venga abbandonata a favore di quello in vigore presso il cessionario (come nei caso in esame). Il cessionario ha diritto di applicare sin dalla data del trasferimento le condizioni di lavoro previste dal contratto collettivo per lui vigente, ivi comprese quelle concernenti la retribuzione (punto n. 74 della sentenza).

Ciò premesso, la Corte sottolinea che gli stati dell’Unione, pur con un margine di elasticità, devono attenersi allo scopo della direttiva, consistente “nell’impedire che i lavoratori coinvolti in un trasferimento siano collocati in una posizione meno favorevole per il solo fatto del trasferimento” (punto n. 75).”Viceversa – precisa la Corte – la direttiva 77/187 non può essere validamente invocata per ottenere un miglioramento delle condizioni retributive o di altre condizioni lavorative in occasione di un trasferimento d’impresa.

Peraltro,…, questa direttiva non osta a che sussistano talune disparità di trattamento retribuivo tra i lavoratori trasferiti e quelli che, all’atto del trasferimento, erano già al servizio del cessionario” (punto 77).

Il dispositivo della decisione è: “quando un trasferimento ai sensi della direttiva 77/187 porta all’applicazione immediata, ai lavoratori trasferiti, del contratto collettivo vigente presso il cessionario e inoltre le condizioni retributive previste da questo contratto sono collegate segnatamente all’anzianità lavorativa, l’art. 3 di detta direttiva osta a che i lavoratori trasferiti subiscano, rispetto alla loro posizione immediatamente precedente al trasferimento, un peggioramento retributivo sostanziale per il mancato riconoscimento dell’anzianità da loro maturata presso il cedente, equivalente a quella maturata da altri lavoratori alle dipendenze del cessionario, all’atto della determinazione della loro posizione retribuiva di partenza presso quest’ultimo. E’ compito del giudice del rinvio esaminare se, all’atto del trasferimento in questione nella causa principale, si sia verificato un siffatto peggioramento retributivo”.

Come più volte affermato da questa Corte la sentenza della CGUE ora ricordata incide sui giudizi in corso, anche se pendenti innanzi ai giudici di legittimità.

In base all’art. 11 Cost. e all’art. 117 Cost., comma 1, il giudice nazionale e, prima ancora, l’amministrazione, hanno il potere-dovere di dare immediata applicazione alle norme della Unione europea provviste di effetto diretto, con i soli limiti derivanti dai principi fondamentali dell’assetto costituzionale dello Stato ovvero dei diritti inalienabili della persona, nel cui ambito resta ferma la possibilità del controllo di costituzionalità (cfr., per tutte, Corte cost. sentenze n. 183 del 1973 e n. 170 del 1984; ordinanza n. 536 del 1995 nonchè, da ultimo, sentenze n. 284 del 2007, n. 227 del 2010, n. 288 del 2010, n. 80 del 2011). L’obbligo di applicazione è stato riconosciuto anche nei confronti delle sentenze interpretative della Corte di giustizia (emanate in via pregiudiziale o a seguito di procedura di infrazione) ove riguardino norme europee direttamente applicabili (cfr. Corte cost. sentenze n. 113 del 1985, n. 389 del 1989 e n. 168 del 1991, nonchè, sull’onere di interpretazione conforme al diritto dell’Unione, sentenze n. 28 del 2010 e n. 190 del 2000).

Invero la sentenza della Corte di Giustizia, affermata l’applicabilità della direttiva 77/187/CEE ad una vicenda successoria quale quella regolata dalla L. n. 124 del 1999, art. 8 ha indicato che essa direttiva osta ad una normativa interna che faccia subire ai lavoratori trasferiti “un peggioramento retributivo sostanziale” per il mancato riconoscimento dell’anzianità da loro maturata presso il cedente, rispetto alla loro posizione immediatamente precedente al trasferimento.

Ne consegue, a contrario, che ove per la normativa interna tale peggioramento non si verifichi la stessa deve considerarsi conforme alla direttiva, perchè non è il mancato riconoscimento dell’anzianità maturata presso il cedente che, di per sè, costituisca la lesione di un diritto che i lavoratori trasferiti possano far valere nei confronti del cessionario (punto 69). Dalla motivazione della sentenza in esame si evince altresì che la direttiva 77/187 non può essere validamente invocata per ottenere un miglioramento delle condizioni retributive o di altre condizioni lavorative in occasione di un trasferimento d’impresa e che essa non osta a che sussistano talune disparità di trattamento retributivo tra i lavoratori trasferiti e quelli che, all’atto del trasferimento, erano già al servizio del cessionario (punto 77).

La Corte di Giustizia demanda al giudice dei rinvio il compito di esaminare se, all’atto del trasferimento in questione, si sia verificato un peggioramento retributivo sostanziale per i lavoratori.

Tale compito deve considerarsi esteso a tutti i giudici nazionali che si trovino ad applicare il complesso normativo in questione, perchè la decisione della controversia loro sottoposta deve avvenire sulla base della interpretazione della normativa nazionale orientata dal diritto europeo, come si è già messo in evidenza nelle sentenze di questa Corte nn. 20980 e 21282 del 2011, nonchè n. 12051 del 2012, e ribadito, da ultimo, da Cass. n. 15740 e n. 24581 del 2014.

Poichè la sentenza qui impugnata non ha effettuato tale verifica, anche perchè pronunciata prima della decisione della Corte di Giustizia, la stessa deve essere cassata. Essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, sottratti alla disponibilità di questa Corte, consegue il rinvio ad altro giudice il quale dovrà uniformarsi a quanto di seguito indicato.

Già in controversie analoghe si è statuito che, al fine di stabilire se, a causa del mancato riconoscimento integrale della anzianità maturata presso l’ente cedente, il lavoratore trasferito abbia subito un “peggioramento retributivo”, il giudice investito del rinvio dovrà osservare i seguenti criteri.

Quanto ai soggetti la cui posizione va comparata, il confronto è con le condizioni immediatamente antecedenti al trasferimento dello stesso lavoratore trasferito (così il n. 75 e, al n. 77, si precisa “posizione sfavorevole rispetto a quella di cui godevano prima del trasferimento”. Idem nn. 82 e 83). Al contrario, non ostano eventuali disparità con i lavoratori che all’atto del trasferimento erano già in servizio presso il cessionario (n. 77).

Quanto alle modalità, si deve trattare di “peggioramento retributivo sostanziale” (così il dispositivo) ed il confronto tra le condizioni deve essere globale (n. 76: “condizioni globalmente meno favorevoli”;

n. 82:.”posizione globalmente sfavorevole”), quindi non limitato allo specifico istituto.

Quanto al momento da prendere in considerazione, il confronto deve essere fatto all’atto del trasferimento (nn. 82 e 84, oltre che nel dispositivo: “all’atto della determinazione della loro posizione retribuiva di partenza”).

Il Tribunale di Venezia sottopose da ultimo alla Corte di Giustizia la seguente questione pregiudiziale: “Se i principi generali del vigente diritto dell’Unione della certezza del diritto, della tutela del legittimo affidamento, della uguaglianza delle armi del processo, dell’effettiva tutela giurisdizionale, ad un tribunale indipendente e, più in generale, ad un equo processo, garantiti dall’art. 6, n. 2 TUE in combinato disposto con l’art. 6 della CEDU e con gli artt. 46, 47 e 52, n. 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, come recepiti dal Trattato di Lisbona, debbano essere interpretati nel senso di ostare all’emanazione da parte dello Stato italiano, dopo un arco temporale apprezzabile (5 anni), di una norma di interpretazione autentica difforme rispetto al dettato da interpretare e contrastante con l’interpretazione costante e consolidata dell’organo titolare della funzione nomofilattica, norma oltretutto rilevante per la decisione di controversie in cui lo stesso Stato italiano è coinvolto come parte”.

La Corte di giustizia, con la sentenza Scattolon, ha preliminarmente dato atto (punto n. 27) che “durante il 2008 e il 2009, dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo sono stati proposti tre ricorsi da membri del personale ATA degli enti locali sottoposti al trasferimento nei ruoli del Ministero, nei quali si accusava la Repubblica italiana di aver violato, adottando la L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 218, l’art. 6 della CEDU e l’art. 1 del Protocollo addizionale della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Con sentenza 7 giugno 2011, detta Corte ha accolto questi ricorsi (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza Agrati e a. c. Italia)”.

Quindi, avuto riguardo alla quarta questione pregiudiziale sollevata dal Tribunale di Venezia come innanzi riportata, la CGUE ha testualmente statuito (punto 84) che “vista la risposta data alla seconda ed alla terza questione, non c’è più bisogno di esaminare se la normativa nazionale in oggetto, quale applicata alla ricorrente nella causa principale, violi i principi menzionati dal giudice del rinvio nella sua quarta questione. Di conseguenza, non occorre risolvere quest’ultima questione”.

In sintesi, pertanto, la Corte ha ritenuto che: si verte nell’ambito del diritto dell’Unione europea; di conseguenza, la normativa nazionale in esame deve essere interpretata alla luce del diritto dell’Unione europea; l’interpretazione orientata alla luce del diritto europeo comporta che il passaggio alle dipendenze dello Stato non può determinare per il lavoratore condizioni meno favorevoli; la relativa verifica spetta al giudice nazionale.

Ulteriore conseguenza di questa impostazione è l’assorbimento del problema della conformità della norma in questione all’art. 6 del TUE in scombinato disposto con le norme della CEDU e della Carta di Nizza, come recepite nel Trattato di Lisbona, problema esaminato dalla sentenza Agrati della CEDU, precedente alla sentenza della Corte di giustizia e da quest’ultima considerata.

L’interpretazione della norma che regola la materia in senso conforme al diritto europeo, esclude la possibilità di disapplicarla e, secondo il Collegio, non impone una nuova rimessione al giudizio della Corte di giustizia dell’Unione europea, come richiesto dalle parti ricorrenti.

Infatti detta Corte si è già espressa sui vari profili di compatibilità con il diritto europeo, compreso quello, posto con il quarto quesito dal Tribunale di Venezia, del “diritto ad un equo processo, garantit(o) dall’art. 6, n. 2, TUE in combinato disposto con l’art. 6 della CEDU e con gli artt. 46, 47 e 52, n. 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000”; quindi, pur dando atto che la Corte europea dei diritti dell’uomo, con la sentenza Agrati del 7 giugno 2001, aveva accolto tre ricorsi da membri del personale ATA degli enti locali sottoposti al trasferimento nei ruoli del Ministero, nei quali si accusava la Repubblica italiana di aver violato, adottando la L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 218, l’art. 6 della CEDU e l’art. 1 del Protocollo addizionale della Convenzione, la CGUE, stante la risposta data alla seconda ed alla terza questione sollevata dal Tribunale di Venezia, ha statuito non ci fosse più bisogno di esaminare se la normativa nazionale in oggetto violasse i principi del giusto processo menzionati dal giudice del rinvio nella sua quarta questione. Trattasi di tecnica di assorbimento altre volte utilizzata dalla Corte di giustizia in materia di diritti sociali, allorquando si è trattato di affrontare il tema della irretroattività della legge civile (cfr. sent. Carratù – C-361/2012 del 2 dicembre 2012), evidentemente sul presupposto che la riconduzione della fattispecie nell’alveo delle direttive sul trasferimento di azienda, valorizzando le garanzie del diritto dell’Unione, fosse di per sè sufficiente ad apprestare adeguata tutela “comunitaria”, senza necessità di attingere al livello dei diritti fondamentali protetti dalla Carta di Nizza.

Inoltre la pronuncia della CGUE si colloca in ambiente normativo già caratterizzato dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona ed è stata seguita dalla sentenza 24 aprile 2012, nella causa C-571.10, Servet Kamberaj c. Istituto per l’edilizia sociale della provincia autonoma di Bolzano e altri, che si è espressa sul rapporto tra norme nazionali e convenzione europea affermando:

“il rinvio operato dall’art. 6, par. 3, TUE alla CEDU non impone al giudice nazionale, in caso di …conflitto tra una norma di diritto nazionale e detta convenzione, di applicare direttamente le disposizioni di quest’ultima, disapplicando la norma di diritto nazionale in contrasto con essa” (punto 63).

Analogamente, la Corte costituzionale italiana ha escluso che l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona abbia comportato un mutamento della collocazione delle disposizioni della CEDU nel sistema delle fonti (Corte Cost. n. 80 del 2011, Cass. sez. un., n. 9595 del 2012), sicchè il giudice comune non ha il potere di disapplicare direttamente norme interne ritenendole contrastanti con la convenzione.

Il, rimedio in questi casi è costituito dal giudizio di legittimità costituzionale. In fattispecie del tutto analoghe, però, questa Corte ha più volte ritenuto non ammissibile una reiterazione della questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 117 Cost., comma 1, in relazione ai vincoli derivanti dalla CEDU. Infatti la Corte costituzionale italiana, su sollecitazione di questa Corte di cassazione, si è già espressa sulla specifica questione con la decisione n. 311 del 2009, che, sebbene antecedente alla sentenza Agrati, considera i medesimi problemi, prendendo posizione non solo sulla sussistenza nel caso in esame dei “motivi imperativi di interesse generale”, ma anche, più in generale, sulla competenza a valutarli.

In ogni caso la questione del contrasto con l’art. 117 Cost. su cui insiste la parte ricorrente, sia avuto riguardo all’art. 6 CEDU che all’art. 1 Protocollo n. 1 allegato alla Convenzione europea dei diritti dell’Uomo, non appare sorretta dalla necessaria rilevanza, in quanto occorre prima che il giudice di rinvio verifichi in concreto se si sia verificato un peggioramento retributivo sostanziale per la lavoratrice, stante l’interpretazione conforme al diritto dell’Unione europea fornita dalla Corte di giustizia.

Su questi aspetti relativi alla questione di legittimità costituzionale della L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 218, ed alle reiterate richieste di remissione alla Corte di giustizia la giurisprudenza di questa Corte, nei termini innanzi esposti, si è consolidata, giungendo ad emettere, oltre alle numerose sentenze di cui al paragrafo 5, ordinanze pronunciate dalla 6 Sezione (Cass. da n. 71 ad 80 del 2015; n. 2811/2015; n. 3084/2015; n. 3343/2015).

In conclusione, in consonanza con la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, il ricorso va accolto e la sentenza impugnata cassata, con rinvio alla Corte di Appello indicata in dispositivo.

Ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2 la stessa dovrà uniformarsi a quanto statuito da questa Corte compiendo ogni accertamento necessario per verificare la sussistenza, o meno, di un peggioramento retribuivo sostanziale all’atto del trasferimento, secondo i criteri di comparazione sopra precisati (cfr. Cass. n. 6627 e 7620 del 2015).

In particolare il giudice del merito designato dovrà tenere in debito conto che l’originario ricorso della ricorrente è antecedente alla L. n. 266 del 2005 ed alla sentenza della Corte di Giustizia che ne ha sostanzialmente orientato l’interpretazione nell’ordinamento interno sulla base della verifica di taluni elementi fattuali.

Detti elementi, dunque, dovranno essere necessariamente valutati in sede di rinvio onde consentire la decisione della causa alla stregua del diritto sopravvenuto, attenendo dette indagini di merito alla stessa possibilità di applicare alla fattispecie concreta la normativa sopraggiunta.

Ancora di recente questa Corte ha ribadito (Cass. n. 26730 del 2014) che, pur essendo quello di rinvio un giudizio a carattere “chiuso”, tendente a una nuova decisione (nell’ambito fissato dalla sentenza di legittimità) in sostituzione di quella cassata, nel quale le parti sono obbligate a riproporre la controversia nei medesimi termini e nel medesimo stato di istruzione, senza possibilità di svolgere nuove attività probatorie od assertive, tuttavia possono esservi deroghe a tale principio.

Esse possono essere rappresentate dal caso in cui fatti sopravvenuti o la sentenza di cassazione, che abbia prodotto una modificazione della materia del contendere, rendano necessaria un’ulteriore attività probatoria od assertiva, strettamente dipendente dalle statuizioni di questa Suprema Corte (cfr., ex aliis, Cass. n. 9859 del 2006). Ciò avviene, ad esempio, in ipotesi di avvenuta applicazione di ius superveniens, o quando si debbano accertare fatti non ancora conosciuti la cui giuridica rilevanza derivi, appunto, dalla sentenza di cassazione (cfr., ad esempio, Cass. n. 21587 del 2009) o, ancora, quando in sede di rinvio siano da delibarsi questioni ritenute assorbite dalla sentenza cassata oppure quando la pronuncia rescindente abbia diversamente definito il rapporto dedotto in giudizio. Il carattere cd. chiuso del giudizio di rinvio concerne poi l’attività delle parti e non i poteri officiosi del giudice, sicchè egli può – se del caso – anche disporre una consulenza tecnica o rinnovare quella già espletata nei precedenti gradi del giudizio di merito (cfr., ex aliis, Cass. n. 341 del 2009), nonchè esercitare i poteri istruttori ex art. 437 c.p.c. limitatamente ai fatti già allegati dalle parti, o comunque acquisiti al processo ritualmente nella fase processuale antecedente al giudizio di cassazione (cfr. Cass. n. 3047 del 2006 e n. 900 del 2014). All’esito del giudizio di rinvio la Corte di Appello provvederà anche sulle spese del processo.

PQM

Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione anche per le spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, il 20 aprile 2016.

Depositato in Cancelleria il 8 luglio 2016

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