Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13987 del 10/06/2010

Cassazione civile sez. II, 10/06/2010, (ud. 11/05/2010, dep. 10/06/2010), n.13987

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ODDO Massimo – Presidente –

Dott. MALZONE Ennio – Consigliere –

Dott. MAZZIOTTI DI CELSO Lucio – rel. Consigliere –

Dott. BUCCIANTE Ettore – Consigliere –

Dott. MIGLIUCCI Emilio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 6811-2005 proposto da:

R.M.G. (OMISSIS), elettivamente domiciliata

in ROMA, VIA FEDERICO CONFALONIERI 5, presso lo studio dell’avvocato

MANZI LUIGI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato

CAPUZZO ROBERTO;

– ricorrente –

e contro

Z.C. (OMISSIS), M.L.

(OMISSIS);

– intimati –

sul ricorso 8779-2005 proposto da:

Z.C. (OMISSIS), M.L.

(OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, CIRC.NE CLODIA

29, presso lo studio dell’avvocato PICCINI BARBARA, rappresentati e

difesi dall’avvocato MORGANTE MARIO ENRICO;

– controricorrenti ricorrenti incidentali-

e contro

R.M.G.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 1985/2004 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 18/11/2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

11/05/2010 dal Consigliere Dott. LUCIO MAZZIOTTI DI CELSO;

udito l’Avvocato ALBINI Carlo, con delega depositata in udienza

dell’Avvocato MANZI Luigi, difensore della ricorrente che si riporta

agli atti;

udito l’Avvocato MORGANTE Mario Enrico, difensore dei resistenti che

si riporta agli atti;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SGROI CARMELO che ha concluso previa riunione: rigetto del ricorso

principale; accoglimento 1 motivo assorbito il 2 motivo del ricorso

incidentale condizionato.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

R.M.G. conveniva in giudizio i coniugi Z. C. e M.L. esponendo che con contratto preliminare 22/11/1991 si era impegnata ad alienare allo Z., verso il corrispettivo di L. 160 milioni, la nuda proprietà di un appartamento in (OMISSIS) e che, con accordo in pari data apposto in calce al preliminare, le parti avevano altresì convenuto la vendita, per il prezzo di L. 130 milioni, dell’usufrutto dello stesso immobile che era compreso nell’attivo del fallimento dei propri genitori R.U. e S.A.M. quali soci della s.n.c. Agricola Zoofarmi.

Precisava l’attrice che in data 31/12/1991, contestualmente al rogito relativo al trasferimento della nuda proprietà, era stato dalle parti stipulato un nuovo accordo circa la cessione dell’usufrutto con il quale, a rettifica della originaria pattuizione, era stato previsto il versamento del prezzo di L. 130 milioni al momento della liberazione dell’usufrutto con l’aggiunta degli interessi nella misura del 9% annuo sull’importo di L. 130 milioni, interessi corrisposti in L. 11.700.000 solo nel 1992.

Aggiungeva infine la R. che, abbandonato il proposito di acquistare a trattativa privata dal fallimento l’usufrutto dell’immobile occupato senza corrispettivo dai convenuti, aveva comunicato a questi ultimi il proposito di partecipare all’asta indetta dal fallimento. Nello svolgimento della gara aveva poi consentito ai promissari acquirenti di aggiudicarsi l’acquisizione dell’usufrutto per L. 24 milioni.

L’attrice chiedeva quindi la condanna dei convenuti – anche a titolo di risarcimento danni – al pagamento di L. 103 milioni, previo accertamento dell’inadempimento degli stessi al pagamento del prezzo e al versamento degli interessi convenzionali di cui al preliminare di vendita dell’usufrutto.

I convenuti resistevano alle domande sostenendone l’infondatezza e, in via riconvenzionale, chiedevano dichiararsi il patto relativo all’usufrutto o risolto – per fatto e colpa dell’attrice – o illecito e nullo per aver ad oggetto un bene sottratto alla disponibilità della stessa attrice, con condanna di quest’ultima alla restituzione di L. 11.700.00 ricevute nel 1992 per interessi. Con sentenza 18/4/2001 il tribunale di Verona condannava i convenuti a pagare all’attrice L. 103 milioni, oltre accessori, nonchè L. 52.650.000 per interessi convenzionali sulla somma di L. 130 milioni per gli anni 1993-1997.

Avverso la detta sentenza i soccombenti coniugi proponevano appello al quale resisteva la R..

Con sentenza 18/11/2004 la corte di appello di Venezia, in riforma della decisione impugnata, rigettava le domande proposte dalla R.. La corte di merito osservava: che con il primo motivo di gravame gli appellanti avevano lamentato l’omessa valutazione da parte del tribunale dei documenti prodotti e, in particolare, del documento attestante la partecipazione agli accordi del fallito R.U. con conseguente illiceità della causa del contratto in quanto volto a sottrarre al fallimento la differenza tra quanto pattuito tra le parti per la cessione dell’usufrutto e quanto eventualmente versato allo stesso fallimento; che detta doglianza era priva di fondamento atteso che l’esistenza sul documento in questione di una sottoscrizione cancellata del fallito R.U., non presente nel documento n. 2 relativo allo stesso accordo e coinvolgente anche la M., non provava la partecipazione all’accordo del R. ma al più la sua presenza inidonea ad incidere sulla validità dell’accordo; che peraltro la circostanza, neppure ipotizzata al momento della stipulazione dell’accordo 31/12/1991 di vendita all’asta dell’usufrutto da parte del fallimento, non poteva retroagire sulla validità dello stesso accordo; che era invece fondato il secondo motivo di gravame con il quale gli appellanti si erano lamentati di essere stati ritenuti dal tribunale inadempienti laddove l’inadempienza era da ascrivere alla appellata la quale non si era attivata per procurare ad essi l’acquisto dell’usufrutto, risultato questo ottenuto solo con la loro diretta partecipazione all’asta e con la presentazione dell’offerta di acquisto effettuata nell’inerzia della appellata; che era pacifica la natura dell’accordo di vendita di cosa altrui ex art. 1478 c.c.;

che la scelta dello strumento dell’asta pubblica da parte del fallimento e l’aggiudicazione diretta da parte degli appellanti escludevano la possibilità di affermare che l’acquisto dell’usufrutto da parte degli appellanti fosse stato frutto di adempimento da parte della R. – quale venditrice di cosa altrui – dell’obbligo di procurare all’acquirente la proprietà dei bene; che non poteva essere riconosciuta alcuna valenza alla richiesta della R., non coltivata, di acquisto dell’usufrutto a trattativa privata; che non era consentito ricondurre il trasferimento dell’usufrutto dal fallimento agli aggiudicatari ad un obbligo assunto dallo stesso fallimento nei confronti dell’appellata;

che quindi tutte le domande della R. andavano rigettate.

La cassazione della sentenza della corte di appello di Venezia è stata chiesta da R.M.G. con ricorso affidato a due motivi. Z.C. e M.L. hanno resistito con controricorso ed hanno proposto ricorso incidentale sorretto da due motivi.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso principale e quello incidentale vanno riuniti a norma dell’art. 335 c.p.c..

Con il primo motivo del ricorso principale la R. denuncia: a) violazione degli artt. 1476, 1478, 1453, 1454, 1457, 1206, 1218, 1219, 1223 e 1460 c.c.; b) vizi di motivazione su diversi punti decisivi della controversia. La ricorrente principale deduce che la corte di appello ha offerto un’interpretazione irrazionale sia del patto sottoscritto da essa R. e dai coniugi Z. apposto in calce al contratto preliminare di vendita della nuda proprietà dell’immobile in questione, sia delle norme che disciplinano il contratto di vendita di cosa altrui alla luce della normativa relativa all’inadempimento ed alla risoluzione contrattuale. La R. sostiene che il diretto acquisto dell’usufrutto da parte dei coniugi Z. deve essere ricondotto all’attività di essa promittente venditrice che ha compiuto tutto quanto in suo potere onde consentire ai detti coniugi l’acquisizione del diritto di usufrutto. Peraltro, ove l’acquisto diretto venga interpretato come una forma di realizzazione del contratto di vendita di cosa altrui, dovrebbe escludersi la legittimazione dei Z. a procedere a tale diretto acquisto che avrebbe comportato la realizzazione di un illecito contrattuale. Al momento dell’acquisto il contratto preliminare era valido ed efficace per cui i coniugi Z. non potevano assumere una condotta autonoma ed indipendente dal legame contrattuale che imponeva ai promissari acquirenti di ricevere il bene dalla promittente alienante alla quale, ottenuto il bene, avrebbero dovuto pagare il prezzo convenuto: avendo tenuto tale comportamento devono essere tenuti a corrispondere il prezzo del bene acquistato (ove si ritenga l’acquisto frutto dell’attività di essa ricorrente) o il risarcimento del danno (per inadempimento contrattuale) avendo acquistato il bene infrangendo il comune progetto contrattuale e non consentendo l’acquisto diretto da parte della promittente alienante. La vendita diretta della cosa dal proprietario al promissario acquirente è una forma di adempimento.

La corte di appello non ha considerato: 1) la reiterata richiesta di essa R. di acquisto dell’usufrutto a trattativa privata; 2) la comunicazione ai Z. del proposito di essa ricorrente di partecipare all’asta; 3) il motivo della mancata presentazione di offerte nella gara da parte del rappresentante di essa R. al fine di evitare una paradossale gara tra le due parti contrattuali unici partecipanti all’asta. I Z. hanno proceduto all’acquisto diretto aggirando il valido (e non risolto) vincolo contrattuale che li legava alla promittente alienante e che impediva loro di intervenire all’asta per aggiudicarsi il bene, salvo a voler considerare tale acquisto diretto frutto dell’attività della promittente venditrice. Dal verbale di udienza relativo allo svolgimento dell’asta risultano evidenti la diligente condotta di essa R. e il non corretto comportamento dei Z.. Se questi ultimi non si fossero aggiudicati da sè il bene, l’aggiudicazione in capo ad essa R. avrebbe comportato comunque l’acquisizione di detto bene in loro favore per effetto dell’automatismo di cui all’art. 1478 c.c.. In definitiva i coniugi Z. andavano comunque ritenuti inadempienti e, quindi, condannati al pagamento di un importo pari al prezzo convenuto. In ogni caso i detti coniugi andavano condannati, in conseguenza del loro inadempimento, a corrispondere una somma a titolo di risarcimento pari a prezzo convenuto.

Con il secondo motivo la R. denuncia violazione degli artt. 1175, 1176, 1366 e 1375 c.c., nonchè vizi di motivazione, sostenendo che la corte di appello avrebbe dovuto valutare il comportamento dei coniugi Z. sotto il profilo della violazione dei principi di correttezza e buona fede. Essa ricorrente ha mostrato il massimo riguardo per l’interesse dei creditori preavvisandoli con un telegramma della sua intenzione di partecipare all’asta per acquistare il bene per poi cederlo agli stessi creditori in adempimento degli obblighi contrattuali assunti. I citati coniugi, invece, con la loro cosciente azione hanno acquistato direttamente l’usufrutto impedendo l’adempimento di essa R.. E’ evidente la malafede dei coniugi Z., nonchè la scorrettezza del loro operato, con conseguente condanna degli stessi al risarcimento dei danni. Tale problematica era stata affrontata e discussa sin dal primo grado del giudizio, ma di essa la corte di appello non ha tenuto conto pur essendo a conoscenza di detta domanda alternativa di danno.

La Corte rileva la fondatezza, nei sensi e nei limiti di seguito precisati, delle dette censure che possono essere esaminate congiuntamente per l’evidente nesso logico-giuridico che le lega.

Occorre premettere che in tema di contratto preliminare di vendita di cosa altrui è pacifico nella giurisprudenza di legittimità il principio secondo cui l’obbligo del promittente venditore può essere adempiuto sia mediante l’acquisto della proprietà della cosa da parte sua, con l’automatico ed immediato trapasso della proprietà al compratore, sia mediante la vendita diretta della cosa stessa operata dal terzo suo proprietario in favore del compratore. In tale ultimo caso, tuttavia, ai fini della valutazione dell’avvenuto adempimento dell’obbligo, è pur sempre necessario che la vendita diretta abbia avuto luogo in conseguenza di un’attività svolta dallo stesso venditore nell’ambito dei suoi rapporti con il proprietario, e che quest’ultimo manifesti, in forma chiara ed inequivoca, la propria volontà di vendere il bene di sua proprietà al compratore e in ragione dell’adempimento da parte di detto proprietario degli obblighi assunti nei confronti del venditore o promittente venditore.

Solo in tal modo, infatti, si realizza, con l’effetto traslativo, quel risultato che il compratore intendeva conseguire e che il venditore s’era obbligato a procurargli (nei sensi suddetti, sentenze 27/7/2009 n. 17458; 23/11/2007 n. 24448; 23/8/2007 n. 17923;

26/6/2006 n. 14751; 18/5/2006 n. 11624).

Nella specie, come correttamente posto in evidenza dalla corte di appello, l’acquisto dell’usufrutto da parte dei coniugi Z. è avvenuto a seguito di partecipazione ad un’asta pubblica e successiva aggiudicazione, il che esclude in radice la possibilità di ritenere detto acquisto frutto di rapporti diretti tra il promittente alienante (la R.) e il terzo proprietario del bene (il fallimento) e di un obbligo da quest’ultimo assunto nei confronti del primo di vendere il bene al promissario acquirente (i coniugi Z.).

Coerentemente, pertanto, la corte di appello ha ritenuta errata la decisione del giudice di primo grado con la quale, in accoglimento della domanda principale proposta dalla R., era stato affermato che “l’acquisto diretto dell’usufrutto da parte dei convenuti era riconducibile all’attività posta in essere dall’attrice” (pagina 7 sentenza impugnata).

Va però rilevato che con la sentenza di primo grado il tribunale aveva anche aggiunto che al medesimo risultato di riconoscimento del diritto della R. di conseguire l’importo pattuito “si dovrebbe comunque pervenire anche ritenendo che la prestazione diretta alla acquisizione dell’usufrutto da parte dell’attrice non sia stata possibile per l’indebita intromissione dei convenuti nella gara d’asta”.

La detta domanda di risarcimento del danno – al contrario di quanto sostenuto dai coniugi Z. nel controricorso – è stata implicitamente, ma chiaramente, riproposta R. nel giudizio di secondo grado con la formulata richiesta di conferma della sentenza di primo grado con la quale era stata accolta la pretesa risarcitoria.

Ciò posto va osservato che le doglianze mosse dalla R. – con riferimento alla mancata conferma della sentenza di primo grado per la parte relativa all’accoglimento della domanda risarcitoria formulata sotto i vari profili ampiamente riportati nei due motivi di ricorso – sono fondate.

Va al riguardo evidenziato che questa Corte, in tema di esecuzione del contratto, ha avuto modo di affermare più volte che la buona fede si atteggia come un impegno od obbligo di solidarietà – imposto, tra l’altro, dall’art. 2 Cost. – tale da imporre a ciascuna parte comportamenti che, a prescindere da specifici obblighi contrattuali, ed a prescindere altresì dal dovere extracontrattuale del “neminem laedere”, siano idonei (senza rappresentare un ap- prezzabile sacrificio a suo carico) a preservare gli interessi dell’altra parte.

In particolare, l’obbligo della buona fede in sede di esecuzione del contratto deve ritenersi violato non solo nel caso in cui una parte abbia agito con il doloso proposito di recare pregiudizio all’altra, ma anche qualora il comportamento da essa tenuto non sia stato, comunque, improntato alla diligente correttezza ed al senso di solidarietà sociale che integrano, appunto, il contenuto della buona fede. (sentenze 4/5/2009 n. 10182; 17/2/2004 n. 2992; 4/3/2003 n. 3185; 16/10/2002 n. 14726; 5/11/1999 n. 12310). Nella specie dalla scarna e sintetica motivazione della sentenza impugnata non è dato comprendere se i detti principi siano stati tenuti presenti e considerati dalla corte di appello nell’accogliere il motivo di gravame con il quale gli appellanti coniugi Z. avevano sostenuto sia che inadempiente era stata la R. per non essersi questa attivata per procurare ad essi coniugi l’acquisto dell’usufrutto, sia che tale risultato era stato raggiunto con la loro diretta partecipazione all’asta nell’inerzia della promittente alienante.

In proposito la corte di merito si è limitata ad escludere ogni valenza alla acquisita documentazione attestante sia la richiesta della R., rivolta agli organi fallimentari, di acquisto dell’usufrutto a trattativa privata, sia la comunicazione inviata dalla promittente alienante ai prommissari acquirenti circa la sua intenzione di partecipare all’asta. Sul punto il giudice di secondo grado ha fatto esclusivo riferimento al fatto della mancata presentazione di offerte da parte della R.. La detta argomentazione – come risulta palese – evidenzia un iter logico insufficiente rispetto agli elementi di valutazione acquisiti e ritenuti dal giudice di primo grado idonei ad accogliere la domanda risacitoria proposta dalla R. sulla base del dedotto comportamento inadempiente dei coniugi Z. per essere questi – partecipando all’asta e acquistando direttamente il bene in questione non consentendo in tal modo alla promettente alienante di acquistare il detto bene da trasferire poi ai promissari acquirenti – venuti meno agli obblighi (anche di correttezza e buona fede) assunti con il contratto preliminare di vendita di cosa altrui. In particolare, tra l’altro, la corte territoriale non ha tenuto conto ai fini dell’accertamento del corretto comportamento della R. – di numerose circostanze di fatto pacifiche quali: i tentativi della promittente alienante di acquistare dal fallimento l’usufrutto dell’immobile; la menzionata comunicazione di partecipare all’asta; i rapporti tra le parti prima dello svolgimento dell’asta; le modalità di svolgimento dell’asta quali risultanti dal relativo verbale; la presenza del rappresentante della R. durante lo svolgimento dell’asta. Parimenti il giudice del gravame non si è occupato della sussistenza o meno – sulla base delle dette circostanze di fatto da valutare alla luce del contenuto e della natura degli obblighi assunti dalle parti con la stipula del contratto preliminare – sia di un interesse della R. ad avanzare una offerta in aumento rispetto a quella formulata dai Z., sia di un comportamento corretto e in buona fede di questi ultimi.

In definitiva le valutazioni svolte dalla corte di appello non possono ritenersi convincenti in quanto non sorrette da una sufficiente consapevolezza della possibile incidenza nella fattispecie della operatività dei principi di correttezza e buona fede sanciti dagli artt. 1175 e 1375 c.c..

Con il primo motivo del ricorso incidentale i coniugi Z. – M. denunciano: a) violazione dell’art. 112 c.p.c. e parziale nullità della sentenza impugnata e del relativo procedimento a seguito dell’omessa pronuncia in ordine al capo c) dell’atto di appello; b) vizi di motivazione; c) mancata applicazione degli artt. 112 e 345 c.p.c.. Deducono i ricorrenti incidentali che la corte di appello ha omesso di esaminare la richiesta formulata al punto e) dell’atto di appello volta ad ottenere la condanna della R. alla restituzione degli importi di L. 11.700.000 e di L. 192.730.000 versati in esecuzione della sentenza di primo grado.

Il motivo deve ritenersi logicamente assorbito dall’accoglimento – nei limiti sopra indicati – dei due motivi del ricorso principale posto che della richiesta formulata dai coniugi Z. al punto c) dell’atto di appello dagli stessi proposto dovrà eventualmente occuparsi il giudice del rinvio ove ritenga, in accoglimento del gravame, di riformare la sentenza di primo grado con la quale i detti coniugi erano stati condannati a pagare alla R. la somma complessiva di L. 182.650.000.

Con il secondo motivo del ricorso incidentale – proposto in via subordinata nell’ipotesi di mancata conferma della sentenza di appello – i coniugi Z. – M. denunciano violazione di norme di diritto e vizi di motivazione sostenendo la nullità del patto relativo all’usufrutto in quanto in contrasto con la L. Fall., art. 216, artt. 1343, 1344, 1346 e 1418 c.c.. Deducono i ricorrenti incidentali che la stessa corte di appello ha ritenuto come possibile la presenza del fallito R.U. al momento della redazione della pattuizione 31/12/1991 relativa all’usufrutto escludendo però tale presenza come dimostrativa della partecipazione del fallito alla trattativa. Le conclusioni della corte di appello sono errate dovendosi invece dichiarare la nullità della detta pattuizione per illiceità della causa. Il giudice di appello ha omesso di considerare il significato del documento n. 4 prodotto dalla stessa R. e che, in correlazione al documento n. 2 prodotto da essi coniugi, avrebbe dovuto portare alla conclusione che il fallito era stato non solo presente al patto ma addirittura era la parte interessata alla vendita a terzi dell’usufrutto violando il disposto della L. Fall., art. 216. Da ciò la violazione dell’art. 1344 c.c. dato che la pattuizione ha avuto causa illecita essendo finalizzata a sottrarre al fallimento la differenza tra l’importo pattuito con essi coniugi e quello ottenibile dal fallimento per la liberalizzazione dell’usufrutto.

Il motivo è in parte infondato ed in parte inammissibile. La motivazione sviluppata nell’impugnata sentenza a sostegno della riconosciuta validità del patto raggiunto dalle parti in relazione all’usufrutto è ineccepibile e si sottrae alle critiche che le sono state mosse con la censura in esame.

Al riguardo va osservato che, come sopra riportato nella parte narrativa che precede, cha la corte di appello ha prima escluso – sulla base ed alla luce di un insindacabile accertamento in fatto in ordine al contenuto ed alla valutazione del documento “prodotto dagli appellanti sub 7” con particolare riferimento alla firma ivi apposta e cancellata del fallito R.U. – la partecipazione di quest’ultimo all’accordo in questione raggiunto solo dalla parti in lite e vincolante esclusivamente per queste. 11 giudice di appello ha poi coerentemente escluso l’incidenza sulla validità dell’accordo di una “eventuale” presenza del fallito. La corte di merito, inoltre, non ha mancato di porre in evidenza che al momento della formalizzazione dell’accordo la possibilità della vendita all’asta dell’usufrutto (poi decisa dal fallimento) non era stata neanche ipotizzata dalla parti per cui non poteva avere alcuna influenza ai fini della soluzione della sollevata questione relativa alla validità dell’accordo.

La Corte di merito è pervenuta alle conclusioni sopra precisate (e dai ricorrenti criticate) attraverso argomentazioni complete ed appaganti, improntate a retti criteri logici e giuridici, nonchè frutto di un’indagine accurata delle risultanze processuali. Il procedimento logico – giuridico sviluppato nell’impugnata decisione a sostegno delle riportate affermazioni e conclusioni è ineccepibile in quanto coerente e razionale.

L’evidente, infatti, che con il patto in esame la promittente alienante si è limitata ad assumere l’impegno di fare quanto possibile per acquistare dal fallimento l’usufrutto con una legittima richiesta – previa offerta del prezzo ritenuto congruo – rivolta agli organi fallimentari e non certo ad ottenere tale risultato attraverso meccanismi illeciti. D’altra parte gli stessi organi fallimentari hanno ritenuto di non accettare l’offerta come formulata dalla R. preferendo scegliere la procedura della vendita a mezzo asta.

Va infine rilevato che le critiche concernenti l’asserito omesso o errato esame della documentazioni prodotta dalle parti non sono meritevoli di accoglimento, oltre che per l’incidenza in ambito di apprezzamenti riservati al giudice del merito, anche per la loro genericità in ordine all’asserita erroneità in cui sarebbe incorso il giudice di appello nell’interpretare e valutare le dette risultanze istruttorie.

Le censure in esame non riportano il contenuto specifico e completo di tali documenti.

In proposito è sufficiente ribadire che nel giudizio di legittimità il ricorrente che deduce l’omessa o l’erronea valutazione delle risultanze probatorie ha l’onere (in considerazione del principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione) di specificare il contenuto delle prove mal (o non) esaminate, indicando le ragioni del carattere decisivo dell’asserito errore di valutazione: solo così è consentito alla Corte di Cassazione accertare – sulla base esclusivamente delle deduzioni esposte in ricorso e senza la necessità di indagini integrative – l’incidenza causale del difetto di motivazione (in quanto omessa, insufficiente o contraddittoria) e la decisività delle prove erroneamente valutate perchè relative a circostanze tali da poter indurre ad una soluzione della controversia diversa da quella adottata. Il mancato esame di elementi probatori, contrastanti con quelli posti a fondamento della pronuncia, costituisce vizio di omesso esame di un punto decisivo solo se le risultanze processuali non o mal esaminate siano tali da invalidare l’efficacia probatoria delle altre risultanze sulle quali il convincimento si è formato, onde la “ratio decidendi” venga a trovarsi priva di base.

Le censure mosse dai ricorrenti sono carenti sotto l’indicato aspetto e tale omissione non consente di verificare l’incidenza causale e la decisività dei rilievi al riguardo mossi dai coniugi Z..

Pertanto, in base a quanto precede, devono essere accolti i due motivi del ricorso principale, va invece rigettato il secondo motivo del ricorso incidentale e dichiarato assorbito il primo motivo di tale ricorso. La sentenza impugnata va quindi cassata in relazione ai motivi accolti e la causa rinviata ad altra sezione della corte di appello di Venezia che la quale la riesaminerà tenendo conto dei rilievi sopra esposti, uniformandosi ai principi di diritto sopra enunciati e provvedendo a colmare le evidenziate carenze, lacune ed incongruità di motivazione. Al giudice del rinvio si rimette anche la pronuncia sulle spese di questo giudizio di legittimità.

P.Q.M.

la Corte, riunisce i ricorsi, accoglie nei sensi di cui in motivazione i due motivi del ricorso principale, assorbito il primo motivo del ricorso incidentale, rigetta il secondo motivo del ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, ad altra sezione della corte di appello di Venezia.

Così deciso in Roma, il 11 maggio 2010.

Depositato in Cancelleria il 10 giugno 2010

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