Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13955 del 06/07/2020

Cassazione civile sez. I, 06/07/2020, (ud. 24/01/2020, dep. 06/07/2020), n.13955

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CRISTIANO Magda – Presidente –
Dott. TRIA Lucia – Consigliere –
Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –
Dott. FEDERICO Guido – rel. Consigliere –
Dott. MARULLI Marco – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 206-19 proposto da:
S.A., rappresentato e difeso dall’avv. Francesco Tartini,
elettivamente domiciliato presso lo studio dell’avv. Laura Barberio,
in Roma, via del Casale Strozzi n. 31;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO;
– intimato –
avverso la sentenza della Corte di Appello di Venezia depositata il
22 maggio 2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
24/1/2020 dal Consigliere Dott. GUIDO FEDERICO.

Fatto
RITENUTO IN FATTO
La corte d’appello di Venezia, con la sentenza n. 1352/18, pubblicata il 22 maggio 2018, confermando l’ordinanza di primo grado, ha rigettato la domanda proposta da S.A., cittadino proveniente dalla Guinea Bissau, il quale ha riferito che suo padre, imam del villaggio, era stato ucciso da un commando armato per ordine di K.Y., poichè durante i suoi sermoni aveva criticato manovre golpiste di cui era venuto a conoscenza; successivamente un commando armato, sempre su ordine di K.Y., aveva tentato di uccidere lo stesso richiedente: a causa di ciò egli si era diretto prima in Libia, paese caratterizzato da una situazione di guerra civile e violenza indiscriminata, dove si era trattenuto per circa sedici mesi, e successivamente, aveva raggiunto l’Italia.

La Corte territoriale, in particolare, ha rilevato la mancanza di credibilità della narrazione ed il fatto che, in ogni caso, era venuta meno la stessa fonte dei timori del richiedente, in quanto K.Y. era deceduto nell’aprile 2014; del resto pure la situazione politico-sociale della Guinea Bissau era sostanzialmente mutata; il giudice di appello rilevava, sotto altro profilo, che il richiedente aveva fatto riferimento alla situazione della Libia, che non era peraltro il suo paese di origine, ma solo un c.d. paese di transito.

La Corte riteneva inoltre che non fosse ravvisabile una situazione di violenza indiscriminata, secondo quanto richiesto dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), ed ha altresì respinto la richiesta di protezione umanitaria, rilevando la mancanza di una specifica situazione di vulnerabilità del richiedente.

Avverso detta sentenza, ha proposto ricorso per cassazione, con quattro motivi, il richiedente asilo.

Il Ministero dell’Interno non ha svolto attività difensiva.

Diritto
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione da parte della Corte territoriale del dovere di cooperazione istruttoria, imposto dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3 e art. 27, comma 1 bis.

Il motivo è inammissibile per difetto di decisività, in quanto non attinge la ratio della sentenza impugnata che ha escluso la credibilità del richiedente ed ha altresì rilevato il mutato contesto della situazione nel paese di origine del richiedente.

Ed invero, qualora le dichiarazioni del richiedente siano giudicate inattendibili alla stregua dei criteri di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 non occorre procedere ad approfondimento istruttorio officioso circa la prospettata situazione persecutoria nel paese di origine – con riferimento al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b) – salvo che ipotesi neppure allegata nella specie – la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori (Cass. 16925/2018).

Il secondo motivo denuncia violazione di legge, censurando la statuizione che ha affermato l’irrilevanza della situazione della Libia; secondo la prospettazione del richiedente, il giudice di appello avrebbe omesso di considerare che la Libia, pur non costituendo il paese di origine del richiedente, non poteva definirsi “paese di transito”, atteso che questi aveva ivi trascorso un periodo di ben 16 mesi.

Il motivo è infondato.

Nella domanda di protezione internazionale, l’allegazione da parte del richiedente che in un Paese di “transito” (nella specie la Libia) si consumi un’ampia violazione dei diritti umani, costituisce circostanza irrilevante ai fini della decisione, perchè l’indagine del rischio persecutorio o del danno grave in caso di rimpatrio va effettuata con riferimento al Paese di origine o alla dimora abituale ove si tratti di un apolide.

Il paese di transito potrà tuttavia rilevare (dir. UE n. 115 del 2008, art. 3) nel caso di accordi comunitari o bilaterali di riammissione, o altra intesa, che prevedano il ritorno del richiedente in tale paese, circostanza che nel caso di specie non risulta essere stata allegata (Cass. 31676/2018).

Ciò che rileva, dunque, non è la durata della permanenza, ma il fatto che si tratti di un paese diverso da quello di origine, cui, in caso – di rigetto della domanda di protezione ed in assenza di diversi accordi, va reindirizzato il richiedente.

Il terzo e quarto motivo denunciano la violazione di legge e l’omesso esame di un fatto decisivo, in relazione alla statuizione che ha rigettato la protezione umanitaria.

I motivi, che, per la loro connessione, vanno unitariamente esaminati, sono infondati.

Conviene premettere che, anche con riferimento alla protezione umanitaria è evidente che l’attendibilità della narrazione svolge un ruolo rilevante: ai fini di valutare se il richiedente abbia subito un’effettiva e significativa compromissione dei diritti fondamentali inviolabili, questa dev’essere necessariamente correlata alla condizione del richiedente, posto che solo la sua attendibilità consente di attivare poteri officiosi (Cass. 4455/2018).

Le censure sono peraltro generiche e non denunciano una specifica situazione di fragilità del richiedente.

Il motivo si limita infatti a rilevare la generale situazione del paese di origine del richiedente senza alcun concreto riferimento individualizzante e lamenta la mancata considerazione del periodo trascorso in Libia; anche con riferimento a tale periodo, peraltro, non risulta l’allegazione di una specifica situazione di gravissima sofferenza individuale e di privazione di diritti fondamentali che, per i suoi esiti, abbia cagionato una durevole situazione di fragilità del richiedente.

Il ricorso va dunque respinto e, considerato che il Ministero dell’interno non ha svolto difese, non deve provvedersi sulle spese del presente giudizio.

Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

P.Q.M.
La Corte, rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 24 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 6 luglio 2020

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