Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13935 del 24/06/2011

Cassazione civile sez. trib., 24/06/2011, (ud. 23/03/2011, dep. 24/06/2011), n.13935

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ADAMO Mario – Presidente –

Dott. BOGNANNI Salvatore – Consigliere –

Dott. PARMEGGIANI Carlo – Consigliere –

Dott. CARACCIOLO Giuseppe – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 9894/2006 proposto da:

ARAFIN SPA in persona dell’Amministratore unico pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA Via A. GRAMSCI 16, presso lo studio

dell’avvocato GIGLIO Antonella, che lo rappresenta e difende

unitamente all’avvocato LEONE MAURIZIO, giusta delega in calce;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– resistente con atto di costituzione –

avverso la sentenza n. 15/2005 della COMM. TRIB. REG. di MILANO,

depositata il 17/02/2005;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

23/03/2011 dal Consigliere Dott. FRANCESCO TERRUSI;

udito per il ricorrente l’Avvocato LEONE, che ha chiesto

l’accoglimento;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GAMBARDELLA Vincenzo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Arafin s.r.l. propose ricorso contro un avviso di rettifica ai fini Iva relativo all’anno 1994, con il quale le era stata contestata, nella qualità di cessionaria, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 41, comma 6, l’omessa fatturazione integrativa di un imponibile di L. 1,5 mld., con annessa occultazione del vero corrispettivo della compravendita di complesso immobiliare posto in (OMISSIS).

L’adita commissione tributaria provinciale di Milano respinse il ricorso e la sentenza, gravata con appello della società, fu confermata in sede regionale con la pronuncia n. 15/32/2005.

Il giudice d’appello ritenne corretta l’affermazione dei primi giudici che la pretesa erariale fosse supportata dalla rilevanza della documentazione di cui all’allegato p.v.c. della polizia tributaria. Codesta documentazione era consistita in un foglio manoscritto, con data coincidente con quella del preliminare di vendita, contenente l’indicazione di importi associabili (in base alle verbalizzate dichiarazioni del responsabile della società, raccolte dagli accertatori durante la verifica) all’effettivo costo della compravendita, accertato in L. 2,76 mld. a fronte di un dichiarato di L. 1,15 mld..

Per la cassazione di questa sentenza la società Arafin propone ricorso, sorretto da tre motivi articolati in plurime censure, illustrato anche da memoria.

L’agenzia delle entrate si è costituita tardivamente.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. – Il primo motivo denunzia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 4. Vi si sostiene che, con la valutazione di fondatezza della pretesa erariale in quanto “supportata dalle dichiarazioni raccolte dagli accertatori”, il giudice di merito avrebbe violato il divieto di prova testimoniale nei giudizi dinanzi alle commissioni tributarie.

Il motivo è destituito di fondamento.

Il divieto di ammissione della prova testimoniale nel giudizio davanti alle commissioni tributarie, sancito dalla disposizione sopra citata, si riferisce alla prova testimoniale da assumere nel processo.

Non implica, pertanto, l’inutilizzabilità, ai fini della decisione, delle dichiarazioni raccolte dall’amministrazione finanziaria nella fase procedimentale.

Tali dichiarazioni – nella specie rese da soggetti terzi rispetto al rapporto tributario (che attiene alla società) – hanno il valore probatorio proprio degli elementi indiziari, e qualora rivestano i caratteri di gravita, precisione e concordanza di cui all’art. 2729 c.c., danno luogo a presunzioni legittimamente utilizzabili in seno alla valutazione della prova degli elementi costitutivi della pretesa (cfr. tra le tante Cass. n. 5746/2010; n. 9402/2007; n. 903/2002).

2. – Il secondo motivo è articolato al suo interno in tre censure.

Denunzia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2, ult. periodo, e, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, vizi di motivazione.

Sotto il profilo della violazione di legge, si sostiene esser mancati, nelle presunzioni poste a fondamento dell’accertamento, i requisiti di precisione e concordanza.

Sotto i profili della motivazione, si ascrive alla sentenza (a) di avere reso una motivazione insufficiente e contraddittoria per il fatto di aver ritenuto che l'”accordo preliminare di vendita” si riferisse al preliminare rinvenuto dalla G.d.F., e quindi alla compravendita perfezionata con rogito registrato il 28.10.1994; (b) di aver omesso l’esame della palese diversità di date previste per il rogito nel preliminare, da un lato, e nell'”accordo preliminare di vendita”, dall’altro, nonchè delle risultanze di una perizia tecnica prodotta in giudizio.

Il motivo è inammissibile.

La censura di violazione di legge è rivolta contro l’avviso di accertamento, non contro la sentenza, e si risolve in apprezzamenti di merito (oltre tutto generici) riguardo alla consistenza del quadro indiziario ivi sintetizzato.

Le censure attinenti alla motivazione, quando non inammissibili per difetto di autosufficienza del ricorso (quanto al contenuto – non riprodotto – dei documenti affermati come decisivi, da assumere a parametro delle denunciate carenze motivazionali), non colgono la ratio decidendi della sentenza. La quale ha valorizzato, offrendone ampia e plausibile giustificazione logica, il contenuto della riscontrata documentazione, consistita in un foglio manoscritto con date coincidenti con quelle del preliminare di vendita, contenente l’indicazione di importi ritenuti – anche alla luce delle verbalizzate dichiarazioni di persona, indicata come “responsabile della società” – rappresentativi dell’effettività del prezzo.

Trattasi di valutazione di merito, congruamente motivata e, come tale, non sindacabile in questa sede.

3. – Col terzo motivo la società deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, omessa motivazione sul punto decisivo successivamente illustrato a mezzo della ulteriore censura formulata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, costituita dalla violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 17, comma 1, e art. 41, comma 6, del D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 6, comma 8 e art. 16, del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 3, comma 3.

Si sostiene che l’art. 41, comma 6, considera l’intero prelievo a carico del cessionario di beni (ivi compreso, dunque, quello relativo all’imposta) quale sanzione, ferme restando le obbligazioni verso l’erario del cedente. L’art. 6, comma 8, avrebbe quindi dovuto trovare applicazione, in virtù del principio del favor rei, anche riguardo al prelievo, stante che – assume la ricorrente – non potendo il prelievo essere effettuato a titolo di sanzione, lo stesso non avrebbe potuto essere preteso a titolo di imposta.

Osserva la Corte che la complessa censura testualmente ascrive alla sentenza di avere “totalmente omesso di considerare” il motivo di appello a mezzo del quale la questione afferente era stata prospettata dinanzi alla medesima commissione regionale.

In tal senso, peraltro, la censura, alludendo a un’omessa pronuncia sul motivo di gravame (e a disparte il fatto di essere stato il vizio dedotto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, anzichè – come sarebbe stato corretto – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4), difetta di autosufficienza.

La sentenza assume che la dedotta questione venne sollevata, non già con l’atto contenente il gravame, sebbene a mezzo di una irrituale “memoria aggiunta”. In simile enunciazione può considerarsi autoevidenziante un rilievo di novità della questione medesima, posto che – giova rammentare nell’ambito del contenzioso tributario la indicazione di specifici motivi di impugnazione costituisce un requisito essenziale dell’atto di appello, attesa la sua funzione di esattamente individuare i limiti della devoluzione.

Consegue che la ricorrente aveva l’onere di censurare siffatta affermazione della sentenza, e di rendere altresì il ricorso autosufficiente con riguardo alla sede processuale e alla esatta riproduzione del contenuto dell’atto nel quale la questione venne sollevata, al fine di consentire alla Corte di verificarne in primo luogo la ritualità e la tempestività (v. per utili riferimenti Cass. n. 24791/2008, n. 10593/2008)).

L’omessa osservanza del mentovato canone di autosufficienza rende il motivo inammissibile.

4. – In conclusione, il ricorso è rigettato.

Nulla per le spese in mancanza di attività difensiva dell’amministrazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Quinta Civile, il 23 marzo 2011.

Depositato in Cancelleria il 24 giugno 2011

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