Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1392 del 21/01/2011

Cassazione civile sez. trib., 21/01/2011, (ud. 15/06/2010, dep. 21/01/2011), n.1392

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PIVETTI Marco – rel. Presidente –

Dott. D’ALONZO Michele – Consigliere –

Dott. PARMEGGIANI Carlo – Consigliere –

Dott. VIRGILIO Biagio – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 26786/2006 proposto da:

R.G., C.C., M.R., CLEAN SERVICE

DI GIUSEPPINA RENDINA & C. SNC, elettivamente domiciliati in ROMA

VIA

DELLA MERCEDE 11, presso lo studio dell’avvocato ORAZI Fabrizio, che

li rappresenta e difende, giusta delega in calce;

– ricorrenti –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E FINANZE in persona del Ministro pro

tempore, AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliati in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende ope

legis;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 14/2006 della COMM. TRIB. REG. di POTENZA,

depositata il 20/02/2006;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

15/06/2010 dal Presidente e Relatore Dott. MARCO PIVETTI;

udito per il ricorrente l’Avvocato ORAZI FABRIZIO, che ha chiesto

l’accoglimento;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE

NUNZIO Wladimiro, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza depositata il 20 febbraio 2006, la Commissione tributaria regionale, di Potenza, riformando la pronunzia della Commissione tributaria provinciale n. 82 del 2 novembre 2004 e accogliendo l’appello contro di essa proposto dall’amministrazione finanziaria, respinse l’impugnazione proposta dalla Clean Service di Giuseppina Rendina e C. s.n.c. contro l’avviso di accertamento IVA 1996 n. (OMISSIS) che aveva rettificato – sulla scorta dei parametri di cui alla L. n. 549 del 1995, art. 3, comma 181, e al DPCN del 29 gennaio 1996 – il reddito di impresa da L. 16.359.000 a L. 51.938.000 determinando il volume d’affari in L. 52.751.000. In particolare erano state richieste alla società L. 6.760.000 a titolo di maggiore imposta, una pari somma a titolo di sanzione e L. 1.352.000 a titolo di interessi. La Commissione tributaria provinciale aveva accolto il ricorso della contribuente osservando che l’accertamento era sfornito di prova in quanto era basato esclusivamente sugli indici presuntivi basati sui c.d. parametri. La Commissione tributaria regionale ritenne invece che l’accertamento basato sui parametri rappresenta un accertamento analitico che determina una presunzione grave, precisa e concordante tale da comportare l’inversione dell’onere della prova circa la difformità del reddito reale rispetto a quello presunto. Poichè la società Clean Service non aveva fornito adeguati elementi di supporto alle sue contestazioni, l’accertamento doveva essere confermato.

Contro la sentenza della Commissione tributaria regionale hanno proposto ricorso per cassazione sia la Clean Service di Giuseppina Rendina e C. s.n.c., sia i soci R.G., C. C. e M.R. prospettando tre motivi di censura.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Deve essere disposta la separazione del presente procedimento da quello iscritto al n. 26750 del 2006, al quale era stato erroneamente riunito in udienza e che viene deciso con altra sentenza.

2. Deve essere dichiarato inammissibile il ricorso proposto dai soci R.G., C.C. e M.R., poichè le stesse, a quanto risulta dalla sentenza impugnata, non sono state parti del giudizio di secondo grado. Le relative spese possono essere compensate per giusti motivi.

3. Con il primo motivo di ricorso la Clean Service di Giuseppina Rendina e C. s.n.c. deduce l’illegittimità della sentenza impugnata per non aver la stessa rilevato l’inapplicabilità del D.P.C.M. 29 gennaio 1996, emanato senza il preventivo parere del Consiglio di Stato in violazione L. n. 400 del 1988, art. 17.

Il motivo è infondato. Questa Sezione, con sentenza n. 27656 del 2008, confermata di recente da Cass. 16055 del 2010 ha affermato che il D.P.C.M. 29 gennaio 1996, non viola la L. 23 agosto 1988, n. 400, art. 17, per essere stato emanato senza il parere preventivo del Consiglio di Stato, in quanto non è un atto di natura regolamentare – nè attuativo di legge, ai sensi del primo comma, nè delegificante, ai sensi del comma 2 -, non essendo espressione di una potestà normativa, secondaria rispetto a quella legislativa, attribuita all’amministrazione, e non disciplina in astratto tipi di rapporti giuridici mediante una regolazione attuativa o integrativa della legge, ma è solo un provvedimento amministrativo a carattere generale, in quanto espressione di una semplice potestà amministrativa, essendo rivolto alla cura concreta di interessi pubblici, con effetti diretti nei confronti di una pluralità di destinatari non necessariamente determinati nel provvedimento, ma determinabili.

4. Con il secondo ed il terzo motivo di ricorso – che possono essere esaminati congiuntamente – si denunzia la violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 56, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, della L. n. 241 del 1990, art. 3, della L. n. 212 del 2000, art. 7, della L. n. 549 del 1995, art. 3, comma 181, e segg., e del D.P.C.M. 29 gennaio 1996, nonchè carenza della motivazione.

Le censure relative alla motivazione dell’atto di accertamento sono infondate, anche in ragione del fatto che il ricorso non riproduce il tenore letterale dell’atto impositivo. Deve comunque essere precisato che l’atto di accertamento è adeguatamente motivato quando enuncia le ragioni poste dall’amministrazione finanziaria a base dell’accertamento stesso e le ragioni per le quali ha ritenuto di disattendere le prospettazioni del contribuente in modo idoneo ad individuare e delimitare l’oggetto del successivo eventuale sindacato giurisdizionale. La validità e la fondatezza fattuale e giuridica di tali ragioni rappresentano questioni di merito e non di forma, quale è invece la denunzia di carenza di motivazione dell’atto impositivo.

L’atto di accertamento, infine, deve enunciare le ragioni di fatto ma non le prove delle relative circostanze, le quali prove vengono in questione nell’eventuale successivo giudizio di impugnazione dell’accertamento.

La sentenza impugnata è tuttavia censurabile alla luce dei principi generali enunciati dalle Sezioni unite con la sentenza n. 26635 del 2009 circa il valore probatorio dei parametri ed il collegamento tra tale valore probatorio e il principio del contraddittorio.

Secondo la ratto decidendi di tale pronunzia – e tenuto altresì conto del carattere congiuntamente impugnatorio e di merito del giudizio di opposizione all’accertamento – l’amministrazione finanziaria, per far valere l’efficacia presuntiva dei parametri deve: a) mettere il contribuente in condizione di contraddire, nella fase amministrativa e/o nella successiva fase giudiziaria, circa la sussistenza delle condizioni che giustificano l’inclusione dell’impresa nell’area dei soggetti cui possono essere applicati gli “standards” o circa la specifica realtà dell’attività economica e gli specifici elementi che rendono ad essa inadeguati gli elementi presupposti dalla determinazione dei parametri di riferimento e di assolvere l’onere di provare (ovviamente nella successiva eventuale fase giudiziaria) quanto egli afferma al riguardo; b) replicare alle deduzioni del contribuente dando la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello “standard” prescelto ed esplicitando le ragioni (giuridiche, logiche e/o di fatto) per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente. Deve aggiungersi che nella fase giudiziaria (non in quella amministrativa, essendo l’amministrazione finanziaria vincolata dal D.P.C.M.) il contribuente può anche far valere l’eventuale erroneità del metodo o dei risultati delle rilevazioni ed elaborazioni statistiche che si sono concretizzate nei parametri (così Corte cost. n. 105 del secondo cui le censure riguardanti te concrete modalità applicative del metodo statistico e dei suoi correttivi, essendo rivolte avverso disposizioni subprimarie di attuazione, sono sottratte al controllo di quella Corte, ma sono sindacabili dal giudice competente per il merito; deve anche aggiungersi che tutti gli elementi e gli strumenti per l’accertamento concreto del fatto non possono essere sottratti al vaglio processuale).

Se nella fase amministrativa il contraddittorio non è stato attivato dall’amministrazione, l’accertamento basato sui parametri resterà sfornito della piena efficacia presuntiva ad esso altrimenti riconoscibile. E’ pur vero, infatti, come rilevato dalla citata sentenza della Corte costituzionale, che i “parametri” prevedono un sistema basato su presunzione semplice la cui idoneità probatoria è rimessa alla valutazione del giudice di merito, in assenza di previsioni “procedimentalizzate” circa la partecipazione del soggetto passivo alla fase istruttoria che precede l’emanazione dell’atto di accertamento e che un obbligo giuridico dell’amministrazione finanziaria di provocare il contraddittorio con il contribuente non può essere desunto da circolari amministrative, data la riserva di legge, di cui all’art. 23 Cost., riferibile anche alle norme procedimentali che disciplinano gli accertamenti presuntivi. Ma il contraddittorio costituisce un requisito essenziale per la razionalità di qualunque metodo di accertamento, sicchè, nell’effettuare la sua prudente valutazione circa l’efficacia probatoria presuntiva dei parametri è ragionevole – e risponde a criteri di esperienza e di correttezza – che il giudice di merito, uniformandosi all’insegnamento al riguardo impartito dalle Sezioni unite, tenga conto anche del fatto che il contribuente sia stato messo o meno nelle condizioni di fornire la sua versione della specifica realtà aziendale, così come deve tener conto sia della plausibilità delle controdeduzioni del contribuente sia della plausibilità delle repliche del fisco. L’accertamento giudiziale è governato infatti dal principio del libero convincimento del giudice e risponde quindi a regole di razionalità e ragionevolezza e non a regole formali, ove la legge non disponga altrimenti in modo espresso.

Se l’amministrazione finanziaria ha attivato il contraddittorio ma il contribuente non ha dedotto le sue ragioni, lo stesso potrà ugualmente opporsi all’accertamento ma nel giudizio graverà su di lui l’onere di smentire, anche sul piano probatorio, le presunzioni determinate dall’applicazione dei parametri, potendo l’Ufficio motivare l’accertamento sulla sola base dell’applicazione degli “standards”, una volta che non vi siano state contestazioni alle quali replicare. Dal momento che è lo stesso articolo 3, comma 181, a stabilire espressamente che “gli accertamenti (…) possono essere effettuati (…) utilizzando i parametri, è chiaro che le presunzioni determinate dai parametri hanno, per legge, quei caratteri di gravità, concordanza e precisione che consentono di ritenerle sufficienti, in mancanza di elementi di convincimento in contrario, a fondare su di esse l’accertamento, sia in sede amministrativa che in sede giudiziale.

Se il contribuente ha prospettato le sue ragioni ma l’amministrazione finanziaria le ha disattese in tutto o in parte, il giudice deve accertare il reddito apprezzando liberamente le deduzioni e le prove fornite dalle parti – ivi compresi gli indizi forniti dall’applicazione dei parametri, proprio in ragione del loro carattere statistico-probabilistico (nella misura in cui il contribuente non abbia opposto – in sede amministrativa o nel giudizio – validi elementi di convincimento contro la loro efficacia indiziante in generale – con riferimento ad esempio alla verità e alla idoneità dei dati che furono oggetto di rilevazione e alla correttezza dei criteri di inferenza ad essi applicati per accertare probabilisticamente i fatti non rilevati – ovvero con riferimento alla loro capacità di essere congrui strumenti di accertamento del caso concreto) e deve quindi decidere la causa applicando le normali regole sull’onere della prova.

Nella specie è pacifico che il contraddittorio nella fase amministrativa vi è stato e che in tale sede il contribuente ha dedotto le ragioni per le quali i parametri non potevano essere utilizzati per determinare il volume d’affari della sua impresa in ragione della localizzazione dell’azienda in una zona povera, spopolata e fortemente arretrata.

La sentenza impugnata ha al riguardo fornito un’argomentazione generica e del tutto insufficiente a motivare la decisione di disattendere tale contestazione, essendosi limitata ad affermare che le circostanze esposte dalla società sono insufficienti, senza dire perchè lo sono. L’amministrazione controricorrente sostiene, dal canto suo, che ogni variabilità dipendente dalla localizzazione è già tenuta in conto dai parametri, ma tale deduzione non è stata illustrata ed essa non appare evidente dalla lettura del citato D.P.C.M. e dei relativi allegati. E comunque quel che qui vale è che su di essa la Commissione tributaria regionale non ha motivato.

La sentenza impugnata deve pertanto essere cassata, ed il giudice del rinvio dovrà accertare se, sulla base delle allegazioni delle parti e delle prove da esse fornite, le contestazioni che la società ricorrente, nel corso della fase amministrazione e nel corso del giudizio, ha opposto all’accertamento presuntivo ad essa applicato con il ricorso ai parametri di cui in atti siano fondate in fatto e siano idonee a smentire le presunzioni di cui sopra.

P.Q.M.

– dichiara inammissibile il ricorso proposto da R.G. in proprio, C.C. e M.R.;

– compensa le spese del giudizio tra dette parti e l’Agenzia delle entrate ;

– rigetta il primo motivo del ricorso proposto dalla s.n.c. Clean service di Giuseppina Rendina e C.;

– accoglie per quanto di ragione il secondo e il terzo motivo e di conseguenza cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese, ad altra sezione della Commissione tributaria regionale di Potenza.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 15 giugno 2010.

Depositato in Cancelleria il 21 gennaio 2011

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