Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13907 del 06/07/2020

Cassazione civile sez. lav., 06/07/2020, (ud. 30/01/2020, dep. 06/07/2020), n.13907

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – rel. Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –

Dott. BOGHETICH Elena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10267-2016 proposto da:

UNIPOLSAI ASSICURAZIONI S.P.A., (Società incorporante MILANO

ASSICURAZIONI S.P.A.), in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ANTONIO SERRA 21,

presso lo studio dell’avvocato SALVATORE ALBERTO RASI, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato MARCO MICHELE DE

BELLIS;

– ricorrente principale –

contro

C.N., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA VENTI

SETTEMBRE 3, presso lo studio dell’avvocato DONATELLA ROSSI,

rappresentato e difeso dall’avvocato FRANCA PATRIZIA FORMICA;

– controricorrente – ricorrente incidentale –

e contro

UNIPOLSAI ASSICURAZIONI S.P.A.;

– ricorrente principale – controricorrente al ricorso incidentale –

avverso la sentenza n. 1623/2015 della CORTE D’APPELLO di MESSINA,

depositata il 07/01/2015, R.G.N. 1465/2013.

Fatto

PREMESSO

che con sentenza n. 1623/2015, pubblicata il 7 gennaio 2016, la Corte di appello di Messina, in riforma della sentenza del Tribunale della stessa sede, ha accertato la natura subordinata del rapporto di cui al contratto (per “prestazione coordinata e continuativa”) stipulato – con decorrenza 2/4/2002 e cessazione il 30/6/2002 – da C.N. con la Nuova MAA Assicurazioni S.p.A. (poi Milano Assicurazioni S.p.A.) per lo svolgimento di attività di gestione sinistri presso l’Ispettorato di Reggio Calabria e in seguito prorogato ripetutamente, fino al 30/6/2008; ha inoltre dichiarato la illegittimità del termine apposto a tale contratto, ai sensi del D.Lgs. n. 368 del 2001, artt. 4 e 5 per l’effetto condannando la compagnia a ripristinare il rapporto a far data dal 2/4/2002, a pagare al lavoratore l’indennità risarcitoria L. n. 183 del 2010, ex art. 32 (nella misura di otto mensilità) nonchè a corrispondergli le retribuzioni maturate dalla sentenza, oltre alla somma di Euro 16894,39 a titolo di differenze retributive;

– che avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione UnipolSai Assicurazioni S.p.A. (quale incorporante di Milano Assicurazioni), con cinque motivi, cui ha resistito il C. con controricorso;

– che con tale atto il lavoratore ha proposto altresì ricorso incidentale, affidato ad unico motivo, cui ha resistito a sua volta la società con controricorso.

Diritto

RILEVATO

che con i motivi del proprio ricorso UnipolSai Assicurazioni S.p.A. deduce: 1) con il primo, violazione e falsa applicazione degli artt. 2094 e 2697 c.c. e vizio di motivazione per avere la Corte di appello, nel procedere alla qualificazione giuridica del rapporto, omesso di considerare il nomen iuris adoperato dalle parti quale elemento utile a differenziare il rapporto di lavoro autonomo (coordinato e continuativo) da quello subordinato; 2) con il secondo, violazione e falsa applicazione degli artt. 2094 e 2697 c.c., nonchè dell’art. 132 c.p.c., n. 4, per non avere la Corte di appello correttamente individuato i criteri che valgono a distinguere il rapporto autonomo (coordinato e continuativo) dal rapporto di lavoro subordinato e, in particolare, ritenendo dimostrato l’assoggettamento al potere direttivo e di controllo del datore di lavoro, per non avere considerato che tale potere deve manifestarsi con l’emanazione di ordini specifici, reiterati e intrinsecamente inerenti alla prestazione lavorativa e non in mere direttive di carattere generale, come tali compatibili anche con un rapporto di natura autonoma; 3) con il terzo, violazione e falsa applicazione dell’art. 116 e art. 132 c.p.c., n. 4 e dell’art. 2697 c.c. per avere la Corte reso una motivazione carente e contraddittoria sotto diversi profili e inoltre per non avere indicato le ragioni per le quali le dichiarazioni di alcuni testi dovevano considerarsi determinanti mentre altre deposizioni erano ininfluenti; 4) con il quarto motivo, la ricorrente principale deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2094 e 2697 c.c., nonchè vizio di motivazione, nuovamente dolendosi del diverso rilievo immotivatamente assegnato in sentenza a talune testimonianze e non ad altre; 5) con il quinto, deduce infine violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. per avere il giudice di appello condannato al ripristino del rapporto e al pagamento dell’indennità risarcitoria L. n. 183 del 2010, ex art. 32 pur in assenza di domanda da parte del lavoratore, il quale aveva chiesto la reintegra nel posto di lavoro e il risarcimento del danno ai sensi della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18;

– che con l’unico motivo del ricorso incidentale, denunciando la violazione dell’art. 2099 c.c. e dell’art. 36 Cost., il lavoratore censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto che il calcolo della retribuzione base debba essere rapportato a tredici mensilità invece che a quattordici, diversamente da quanto stabilito dall’art. 118 c.c.n.l. di categoria e secondo i rilievi già formulati in proposito dal proprio consulente tecnico di parte;

osservato:

che il ricorso principale risulta inammissibile:

(a) là dove (con i motivi dal primo al quarto) deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., posto che la censura di violazione di tale norma “è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (sindacabile, quest’ultima, in sede di legittimità, entro i ristretti limiti del nuovo art. 360 c.p.c., n. 5)”: Cass. n. 13395/2018; conforme, fra altre: n. 15107/2013);

(b) là dove (con il terzo motivo) deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c., atteso che il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116, opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicchè la denuncia della violazione di dette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione di legge sostanziale o processuale bensì “un errore di fatto che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., n. 5, come riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 convertito, con modif., dalla L. n. 134 del 2012” (Cass. n. 23940/2017);

(c) là dove (con i motivi dal primo al quarto) denuncia ex art. 132 c.p.c., n. 4 e art. 360 c.p.c., n. 5 carenze relative al percorso motivazionale della sentenza impugnata, dovendosi ribadire, nel solco tracciato dalle Sezioni Unite con le sentenze n. 8053 e n. 8054/2014, che “in seguito alla riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 convertito, con modif., dalla L. n. 134 del 2012, non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del minimo costituzionale richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, individuabile nelle ipotesi – che si convertono in violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e danno luogo a nullità della sentenza – di mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale, di motivazione apparente, di manifesta ed irriducibile contraddittorietà e di motivazione perplessa od incomprensibile, al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un fatto storico, che abbia formato oggetto di discussione fra le parti e che appaia decisivo ai fini di una diversa soluzione della controversia” (Cass. n. 23940/2017 cit.; conf., fra le più recenti: n. 22598/2018);

(d) là dove (con i motivi terzo e quarto) denuncia una parziale considerazione delle prove testimoniali, attraverso l’immotivata omissione di alcune ed una valutazione di altre come ininfluenti, essendo del tutto pacifico che compete “in via esclusiva al giudice del merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllare l’attendibilità e la concludenza delle prove, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova” (Cass. n. 25608/2013, fra le molte conformi);

– che, ferma restando – con riguardo al primo motivo – l’intervenuta considerazione del nomen iuris utilizzato dalle parti (come è dato desumere da p. 4, 1 capoverso, e da p. 7, ultimo rigo, della sentenza impugnata), con conseguente inammissibilità del dedotto vizio di cui all’art. 360, n. 5 anche sotto questo specifico profilo; è da rilevare come la Corte di appello si sia puntualmente conformata al consolidato principio di diritto, per il quale “ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro, la prolungata esecuzione ed il nomen iuris, pur essendo elementi necessari di valutazione, non costituiscono fattori assorbenti, occorrendo dare prevalenza alle concrete modalità di svolgimento del rapporto di lavoro. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di appello, che aveva riconosciuto la subordinazione in un rapporto di lavoro iniziato di fatto, successivamente formalizzato come contratto di agenzia e protrattosi per oltre dieci anni, attribuendo rilevanza preminente alle sue modalità di esecuzione)”: Cass. n. 4884/2018, fra le più recenti;

– che, in definitiva, il ricorso principale, nel complesso delle censure svolte con i suoi primi quattro motivi, tende ad una rivisitazione del merito della causa, mediante una rilettura ed un diverso apprezzamento del materiale probatorio, e cioè, dietro lo schermo della violazione e falsa applicazione di norme di legge e del vizio di motivazione, mira a sollecitare a questa Corte il compimento di un’attività giurisdizionale che è estranea alle funzioni e al ruolo alla stessa assegnato nell’ordinamento e che è invece chiara prerogativa del giudice del merito;

– che il quinto motivo è infondato, posto che “non costituisce violazione dell’art. 112 c.p.c. l’accoglimento, anche d’ufficio, fatto dal giudice, di una domanda che rientri in quella, di maggiore ampiezza, ritualmente proposta dalla parte (alla quale, del resto, è sempre consentito procedere alla riduzione della pretesa originariamente formulata)”: ciò che “trova giustificazione nella ratio del citato art. 112, che è quella di garantire il contraddittorio, cioè di impedire che trovino accoglimento domande sulle quali controparte non sia stata in grado di difendersi; esigenza questa che non è in alcun modo frustrata allorquando il bene accordato sia comunque ricompreso nel petitum tempestivamente formulato e non esuli dalla causa petendi, intesa come l’insieme delle circostanze di fatto, indipendentemente dalla loro qualificazione giuridica, poste a fondamento della pretesa” (Cass. n. 475/2002 e successive conformi);

ritenuto:

pertanto che il ricorso principale deve essere respinto;

– che il ricorso incidentale risulta inammissibile, non riportando nè il testo della norma di fonte collettiva che ne sosterrebbe l’assunto, nè i rilievi del C.T. di parte (e, attraverso di essi, i termini esatti della questione criticamente proposta nei confronti delle conclusioni del C.T.U.), e comunque non confrontandosi specificamente con la motivazione sul punto della sentenza impugnata (cfr. p. 10, penultimo capoverso, in fine);

– che, tenuto conto delle ragioni di reciproca soccombenza, le spese sostenute dal C., liquidate per compensi professionali in Euro 5.000,00, vanno compensate in ragione di metà.

PQM

La Corte rigetta il ricorso principale; dichiara inammissibile il ricorso incidentale; compensa per metà le spese del presente giudizio, condannando per l’effetto la ricorrente principale al pagamento della somma di Euro 200,00 per esborsi e di Euro 2.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15 % e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale e del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale e per il ricorso incidentale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuti.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 30 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 6 luglio 2020

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