Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13906 del 06/07/2020

Cassazione civile sez. lav., 06/07/2020, (ud. 30/01/2020, dep. 06/07/2020), n.13906

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – rel. Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –

Dott. BOGHETICH Elena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 9233-2016 proposto da:

GRAN SASSO DI V.Q. S.N.C., in persona del legale

rappresentante V.Q. elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE

MAZZINI 140, presso lo studio dell’avvocatò ENRICO DE SANTIS, che

la rappresenta e difende unitamente all’avvocato LORENZO DE SANTIS;

– ricorrente –

contro

S.S., T.M., elettivamente domiciliate in ROMA,

VIALE MAZZINI 114/B, presso lo studio dell’avvocato GIOVAMBATTISTA

FERRIOLO, che le rappresenta e difende unitamente all’avvocato

FERDINANDO EMILIO ABBATE;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 8317/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 28/12/2015 R.G.N. 10121/2011.

Fatto

PREMESSO

che con sentenza n. 8317/2015, depositata il 28 dicembre 2015, riformando la decisione di primo grado, la Corte di appello di Roma ha ritenuto sussistente, fra T.M. e la Gran Sasso s.n.c. di V.Q., nonchè fra S.S. e la medesima società, un rapporto di lavoro di natura subordinata in relazione allo svolgimento di prestazioni di cameriera a tempo parziale per due giorni a settimana nel periodo ottobre 2002 – agosto 2007, quanto alla T., e nel periodo settembre 2004 – luglio 2007, quanto alla S., condannando la società al pagamento delle conseguenti differenze retributive;

– che avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione la società con quattro motivi, cui hanno resistito con controricorso le lavoratrici.

Diritto

RILEVATO

che con il primo motivo viene dedotta violazione dell’art. 415 c.p.c., comma 4, posto che il ricorso di primo grado era stato notificato ben oltre il termine di dieci giorni dalla pronuncia del decreto di fissazione dell’udienza, e omesso esame, da parte della Corte di appello, della relativa questione di improcedibilità della domanda;

– che, con il secondo, viene dedotto il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3 per avere la Corte male interpretato le risultanze istruttorie;

– che, con il terzo, viene dedotto il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4, atteso che il giudizio di appello era proseguito malgrado l’eccezione preliminare di improcedibilità per violazione dell’art. 415 c.p.c.;

– che, con il quarto, viene dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697,1175 e 1375 c.c., nonchè vizio di motivazione, per avere la Corte posto a fondamento della propria decisione una parte soltanto delle dichiarazioni testimoniali;

osservato:

che il primo e il terzo motivo di ricorso, da esaminarsi congiuntamente per il rapporto di stretta connessione che li unisce, non possono trovare accoglimento;

– che, al riguardo, e in primo luogo, deve ritenersi, per quanto attiene alla censura di omessa pronuncia, che la Corte territoriale, procedendo all’esame dei motivi di appello e deliberando nel merito, abbia implicitamente rigettato l’eccezione di improcedibilità della domanda, una ipotetica statuizione contraria risultando incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della decisione assunta (Cass. n. 17956/2015, fra le molte conformi);

– che, nel considerare infondata l’eccezione, la Corte si è uniformata al principio di diritto, per il quale la notifica del ricorso oltre i dieci giorni previsti dall’art. 415 c.p.c., comma 4, ma nel rispetto del termine di cui al comma successivo, sottrae il ricorso alla sanzione della improcedibilità;

– che non è di ostacolo a tale esito interpretativo il principio della ragionevole durata del processo, che imporrebbe – secondo le considerazioni svolte, peraltro in via incidentale, dalla richiamata Sez. U n. 20604/2008 – di ritenere il termine ordinatorio non libero ma semplicemente prorogabile per disposizione del giudice, intervenuta su richiesta della parte o d’ufficio, sempre prima della scadenza, conseguendone, in difetto, la decadenza dalla facoltà di compiere l’atto;

– che, infatti, a circoscrivere la portata di tale orientamento è intervenuta (sull’analogo termine posto, con riguardo al giudizio di secondo grado, dall’art. 435 c.p.c.) la pronuncia della Corte costituzionale n. 60/2010, la quale ha precisato che l’esigenza di una interpretazione costituzionalmente orientata, che valga a limitare, in ossequio al principio di ragionevole durata del processo, la “libertà” di differimento di un termine ordinatorio, può venire meno con riguardo alle ipotesi in cui, come nella specie, la funzionalità del processo, in una con il diritto di difesa, sia garantita dall’operatività a valle di un termine perentorio entro il quale l’atto processuale, il cui compimento sia fissato in relazione ad un termine da qualificarsi ordinatorio, debba essere posto in esse necessariamente a pena di decadenza e conseguente improcedibilità dell’azione (Cass. n. 9222/2015);

– che su tali premesse è stato ribadito che “nel rito del lavoro, la violazione del termine di dieci giorni entro il quale l’appellante, ai sensi dell’art. 435 c.p.c., comma 2, deve notificare all’appellato il ricorso, tempestivamente depositato in cancelleria nel termine previsto per l’impugnazione unitamente al decreto di fissazione dell’udienza di discussione, non produce alcuna conseguenza pregiudizievole per la parte, perchè non incide su alcun interesse di ordine pubblico processuale o su di un interesse dell’appellato, sempre che sia rispettato il termine che, in forza del medesimo art. 435 c.p.c., commi 3 e 4, deve intercorrere tra il giorno della notifica e quello dell’udienza di discussione” (Cass. n. 23426/2013; conforme n. 3959/2016);

– che il secondo motivo è inammissibile, non indicando le norme di diritto di cui si assume la violazione o falsa applicazione e comunque risolvendosi nella richiesta di una nuova e diversa lettura e valutazione delle risultanze istruttorie e cioè di un’attività che è estranea alle funzioni e al ruolo assegnati alla Corte di legittimità;

– che egualmente inammissibile risulta il quarto motivo, il quale, dietro lo schermo della violazione o falsa applicazione di norme di diritto, si sostanzia anch’esso unicamente nella richiesta di un diverso apprezzamento del materiale probatorio e, in particolare, delle risultanze delle prove testimoniali e dei conteggi posti dalla Corte di appello a sostegno della determinazione delle differenze retributive e per t.f.r. spettanti alle lavoratrici;

– che, in proposito, deve riaffermarsi il consolidato principio, per il quale compete in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllare l’attendibilità e la concludenza delle prove, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova (Cass. n. 25608/2013, fra le molte conformi);

ritenuto:

conclusivamente che il ricorso deve essere respinto;

– che le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo;

– che di esse va disposta ex art. 93 c.p.c. la distrazione in favore dei procuratori delle controricorrenti, avv. Giovambattista Ferriolo e avv. Ferdinando Emilio Abbate, come da loro dichiarazione e richiesta.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% e accessori di legge, somma di cui dispone la distrazione in favore dei procuratori delle controricorrenti.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 30 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 6 luglio 2020

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