Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 139 del 08/01/2020

Cassazione civile sez. II, 08/01/2020, (ud. 07/11/2019, dep. 08/01/2020), n.139

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIUSTI Alberto – Presidente –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – rel. Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 25157-2017 proposto da:

P.P., elettivamente domiciliato in ROMA, V.LE CARLO FELICE 103

ST BERCHICCHI, presso lo studio dell’avvocato GIAN LUCA CORLEONE,

che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

P.M., P.C., elettivamente domiciliate in ROMA,

VIA SISTINA, 121, presso lo studio dell’avvocato MARCELLO BONOTTO,

che le rappresenta e difende unitamente all’avvocato ANNA MATTIOLI;

P.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE DELLE

MILIZIE 1, presso lo studio dell’avvocato VITTORIO CIROTTI, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato STEFANO IGOR CURALLO;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1583/2017 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 17/07/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

07/11/2019 dal Consigliere Dott. ANTONIO SCARPA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

Sgroi Carmelo, il quale ha concluso per il rigetto del ricorso;

uditi gli Avvocati Corleone, Cirotti e Mattioli.

Fatto

FATTI DI CAUSA

P.P. ha proposto ricorso articolato in cinque motivi avverso la sentenza della Corte di Appello di Torino n. 1583/2017, depositata il 17 luglio 2017.

Resistono con distinti controricorsi P.G., nonchè M. e P.C..

Il giudizio ebbe inizio con citazione notificata il 1 settembre 1974 da P.P., il quale convenne innanzi al Tribunale di Asti il fratello G., le sorelle M. e C., figlie del secondo matrimonio del comune padre L., deceduto il (OMISSIS), e la loro madre, P.I., deducendo che il de cuius aveva disposto per testamento del proprio patrimonio, nominando erede universale il figlio G. e usufruttaria la moglie, restando pretermessi sia lui che le sorelle M. e C.. L’attore domandò perciò di accertare la sua qualità di erede e la lesione della propria quota di legittima da far valere sul patrimonio paterno, che avrebbe dovuto ricomprendere non solo i beni indicati in domanda, ma anche il terreno oggetto di vendita per atto pubblico del 5 febbraio 1967 a favore di G., atto del quale si chiedeva l’accertamento della simulazione, nonchè, per collazione, i beni donati in vita dal comune genitore allo stesso G.. P.P. chiese quindi la divisione di tutti i beni immobili e mobili caduti in successione.

Con successivo atto di citazione notificato il 5/20 agosto 1976, tutte le parti del primo giudizio vennero convenute innanzi al medesimo Tribunale di Asti da P.A., sorella del defunto P.L., la quale, dando atto di rinunciare alle disposizioni testamentarie fatte dal padre, P.G. senior, e di voler ottenere la sola quota prevista ex lege a suo favore, chiedeva dichiararsi la nullità delle disposizioni contenute nei testamenti di P.G. senior (testamento pubblico del 12 maggio 1955, con il quale veniva costituito, tra l’altro, l’usufrutto a favore di M.C., moglie del testatore, premorta allo stesso; testamento pubblico del 6 ottobre 1972, con cui veniva costituito anche un prelegato a favore del nipote P.G.; testamento olografo pubblicato il 25 ottobre 1976, con cui veniva costituito l’usufrutto generale a favore della nuora P.I., vedova di P.L.). P.A. domandò, altresì, di dichiarare la simulazione dell’atto di compravendita del 12 novembre 1956, concretante, in realtà, una donazione del padre G. a favore del figlio L., nonchè di condannare i coeredi P., M., C., G. e P.I. a conferire i beni loro pervenuti in qualità di eredi di P.L., ai fini della determinazione dell’eredità di P.G. senior e della divisione pro quota tra gli aventi diritto.

Il Tribunale di Asti sospese il primo giudizio promosso da P.P. e, con sentenza n. 388/1980, decise su alcune delle domande avanzate da P.A., la quale, proposto gravame innanzi la Corte d’Appello di Torino, ottenne dalla stessa, con sentenza n. 305/1983, la determinazione della quota del patrimonio del padre P.G. senior a lei spettante, riconosciuta non gravata da alcun usufrutto. Con altra sentenza non definitiva del 23 dicembre 1988 il Tribunale di Asti deliberò la formazione dei due lotti da attribuire agli eredi di P.G. senior, A. e P.L., ovvero agli eredi di quest’ultimo. Proposto ulteriore gravame, la Corte di Appello di Torino, con sentenza n. 1037/1998, passata in giudicato, provvide alla formazione di due lotti denominati A) e B), assegnandoli rispettivamente ad P.A. e agli eredi di P.L.. Riassunto il primo giudizio incardinato da P.P. il 1 settembre 1974, il Tribunale di Asti, con sentenza non definitiva del 15 gennaio 2003, dichiarò P.P. illegittimamente pretermesso nel testamento olografo di P.L.; dispose che venissero ricompresi nell’asse ereditario in questione anche l’immobile di (OMISSIS), e l’azienda di bottaio di cui alla scrittura privata del 1963 prodotta dal convenuto P.G.; dichiarò P.P. erede nudo proprietario pro indiviso al 50% con P.G. dei 2/4 dell’asse ereditario. Con sentenza n. 769/2005 del 10 maggio 2005 la Corte di Appello di Torino, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Asti 15 gennaio 2003, accertò la spettanza a P.P. della quota di riserva pari ad 1/6 dell’intero patrimonio di P.L., di cui il 37,9% circa in nuda proprietà ed il resto in piena proprietà, confermando per il resto l’impugnata pronuncia. Con sentenza n. 9360/2012 del 15 maggio 2012 la Corte di cassazione rigettò il ricorso di P.P., che aveva censurato la decisione della Corte d’Appello di Torino per aver escluso che, qualora vi siano più legittimari pretermessi ed uno o più tra di essi abbiano rinunciato alle loro ragioni successorie, possa ammettersi un accrescimento delle relative e rispettive quote in favore dell’altro o degli altri legittimari egualmente pretermessi, i quali, invece, abbiano azionato i loro diritti. La Corte di Cassazione, premessa l’applicabilità l’art. 542 c.c., comma 2, nel testo previgente alla riforma di cui alla L. 19 maggio 1975, n. 151, e perciò determinando in 1/6 la quota di riserva spettante a ciascuno dei figli del “de cuius”, confermò l’esclusione di un incremento di tale quota per effetto della tacita rinuncia delle legittimarie P.M. e P.C. all’esercizio dell’azione di riduzione, richiamando l’insegnamento di Cass. Sez. U, 09/06/2006, n. 13429.

Nel frattempo, nel 2007 era stata intrapresa da P.G. nei confronti di P., M., C. ed P.I. (quest’ultima poi deceduta nel (OMISSIS)) altresì la causa per lo scioglimento della comunione dei beni del lotto B attribuito dalla Corte di Appello di Torino, con sentenza n. 1037/1998, agli eredi di P.L.. In relazione a tale causa, il Tribunale di Asti, con sentenza non definitiva del 23 gennaio 2012, individuò i beni compresi nell’asse, disponendo di procedersi alla vendita degli immobili specificatamente individuati, e accertò le quote di spettanza nelle misure di 1/2 per P.P. e di 1/6 per P., M. e P.C.. La sentenza 23 gennaio 2012 del Tribunale di Asti è stata confermata dalla sentenza n. 294/2015 del 7 febbraio 2015, resa dalla Corte d’Appello di Torino, ed in relazione ad essa è stato proposto ricorso per cassazione da P.P., contraddistinto con R.G. 11907/2015.

Con sentenza del 4 giugno 2014 il Tribunale di Asti ha definito il giudizio incardinato da P.P. con citazione del 1 settembre 1974, addivenendo, previa pronuncia di scioglimento della comunione, all’assegnazione in favore del medesimo P.P. della quota a lui spettante della successione del padre P.L., e confermando la legittimazione passiva di M. e P.C.. P.P. propose appello innanzi alla Corte di Torino, lamentando che il Tribunale di Asti, nella sentenza del 4 giugno 2014, non avesse tenuto conto sotto vari profili del giudicato formatosi in conseguenza delle pronunce del Tribunale di Asti 15 gennaio 2003, della Corte di Appello di Torino 10 maggio 2005 e della Corte di Cassazione n. 9360/2012 del 15 maggio 2012. Altro motivo di appello formulato da P.P. attenne alla legittimazione riconosciuta a M. e P.C. ed alla responsabilità ex art. 96 c.p.c. delle stesse. L’appellante ritenne, inoltre, che sussistesse un’erronea applicazione dell’art. 727 c.c. in relazione alla divisione e assegnazione dei beni in causa, adducendo violazioni compiute in sede di c.t.u. Infine, l’appello di P.P. lamentò la scorretta ripartizione delle spese di divisione.

La Corte di Appello di Torino, con la sentenza n. 1583/2017 del 17 luglio 2017, dapprima negò la ravvisabilità di alcuna delle cause rituali di estromissione in capo alle convenute M. e P.C., avendo piuttosto le stesse un effettivo e diretto interesse in causa, riconducibile ai loro diritto sul patrimonio del defunto P.G. senior, anch’esso oggetto del presente giudizio.

Quanto alla doglianza dell’appellante P.P. circa la mancata ricomprensione nel compendio divisionale dei beni facenti parte dell’asse del defunto P.G. senior, la Corte d’Appello ha replicato che la propria sentenza n. 1037/1998 aveva definitivamente accertato la composizione del patrimonio ereditario di P.G. senior, patrimonio che, a causa della premorienza, non sarebbe mai entrato, per la rispettiva quota di legge, in quello del figlio P.L., al quale, invece, erano succeduti per rappresentazione i figli P., G., M. e C., oltre alla defunta coniuge P.I..

La Corte di Torino ha, pertanto, confermato come restassero esclusi dal compendio ereditario da dividersi in questo giudizio i beni provenienti dalla successione di P.G. senior, quali risultanti dalla divisione ottenuta a seguito dell’azione proposta da P.A., e compresi nel lotto A) definitivamente assegnato dalla sentenza della Corte di Appello di Torino n. 1037/1998, passata in giudicato, nonchè nel lotto B), assegnato agli eredi di P.L. e a loro volta oggetto del giudizio iniziato nel 2007 da P.G. ed attualmente investito dal ricorso per cassazione contraddistinto con R.G. 11907/2015.

La Corte di Appello di Torino, nella sentenza n. 1583/2017 del 17 luglio 2017, aggiunse che il Tribunale di Asti aveva correttamente chiarito che le quote da attribuire ai fratelli P. per rappresentazione del padre L. nella successione del nonno P.G. senior erano state individuate nella sentenza n. 498/1988 dello stesso Tribunale, passata in giudicato. Inoltre, la sentenza qui impugnata negò le censure di nullità della espletata CTU e rigettò le istanze di rinnovazione della stessa, come anche le censure di violazione degli artt. 720 e 727 c.c. e le doglianze circa la regolamentazione delle spese di lite.

Le parti hanno presentato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c. per l’udienza pubblica del 20 dicembre 2018.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Deve dapprima rigettarsi l’istanza di riunione tra il presente giudizio di cassazione e quello contraddistinto come R.G. 11907/2015, avanzata dal ricorrente P.P.. Si tratta di ricorsi proposti contro sentenze diverse pronunciate in separati giudizi, di cui l’uno (R.G. 25157/2017) ha ad oggetto anche la divisione del patrimonio ereditario di P.G. senior, operata tra l’erede P.A. e i discendenti, subentranti per rappresentazione, dell’ulteriore erede premorto P.L., mentre l’altro (R.G. 11907/2015) ha ad oggetto la divisione della rispettiva porzione all’interno della stirpe di P.L.. La riunione richiesta, pur attenendo a cause connesse, non garantisce l’economia ed il minor costo dei due giudizi, nè favorirebbe la loro ragionevole durata.

Il Collegio rileva, peraltro, come P.P. abbia allegato in ricorso che l’impugnata sentenza della Corte di Appello di Torino n. 1583/2017 gli è stata notificata a mezzo PEC in data 31 agosto 2017. Le copie cartacee del messaggio di posta elettronica certificata, pervenuto il 31 agosto 2017 dall’avvocato Curallo, difensore di P.G., nonchè della relazione di notifica e del provvedimento impugnato, sono state prodotte dal ricorrente, il quale ha poi adempiuto in data 31 ottobre 2019 all’ulteriore onere di attestare con propria sottoscrizione autografa la conformità agli originali digitali della copia del messaggio e dei suoi allegati formata su supporto analogico, ai sensi della L. n. 53 del 1994, art. 9, commi 1 bis e 1 ter. All’udienza pubblica del 20 dicembre 2018 il Collegio ravvisò l’opportunità di rinviare la trattazione del ricorso in attesa del pronunciamento delle Sezioni Unite di questa Corte sulla questione rimessa con ordinanza interlocutoria della Sesta – 3 Sezione, 09/11/2018, n. 28844. La questione è stata così decisa da Cass. Sez. U, 25/03/2019, n. 8312, secondo cui il deposito in cancelleria, nel termine di venti giorni dall’ultima notificazione, di copia analogica della relata di notificazione telematica della decisione impugnata – e del corrispondente messaggio PEC con annesse ricevute – senza attestazione di conformità del difensore L. n. 53 del 1994, ex art. 9, commi 1-bis e 1-ter, oppure con attestazione priva di sottoscrizione autografa, non determina l’improcedibilità del ricorso per cassazione laddove, come avvenuto nel caso in esame, gli intimati, nel costituirsi con tempestivo controricorso, non abbiano disconosciuto D.Lgs. n. 82 del 2005, ex art. 23, comma 2, la conformità delle copie analogiche agli originali (senza che perciò la sanatoria conseguita dalla mancata contestazione in controricorso ai sensi dell’art. 23, comma 2, CAD possa più essere impedita dal rilievo successivo della mancata attestazione di conformità, qui operato dal controricorrente P.G. nella memoria ex art. 378 c.p.c. del 14 dicembre 2018). D’altro canto, come detto, il ricorrente ha poi comunque depositato l’asseverazione di conformità all’originale della copia analogica prima dell’udienza di discussione, come comunque fatto salvo da Cass. Sez. U, 25/03/2019, n. 8312.

I. Con il primo motivo di ricorso, P.P. lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c. e dell’art. 329 c.p.c., in quanto il provvedimento impugnato avrebbe violato il giudicato interno formatosi a seguito della pronuncia parziale del Tribunale di Asti del 15 gennaio 2003, che, dopo aver dichiarato il medesimo ricorrente P.P. illegittimamente pretermesso nel testamento olografo di P.L., aveva individuato quali beni dovessero essere ricompresi nell’asse ereditario oggetto di divisione (in particolare, l’immobile di (OMISSIS), e l’azienda di bottaio di cui alla scrittura privata del 1963 prodotta dal convenuto P.G.), mediante statuizione non scalfita dalla pronunce rese nei successivi gradi di giudizio dalla Corte di Appello di Torino e dalla Corte di cassazione.

Il secondo motivo di ricorso censura l’omesso esame circa “il fatto decisivo del giudizio rappresentato dall’eccezione di giudicato, che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”, non avendo la Corte di merito motivato il mancato accoglimento della predetta eccezione.

Con il terzo motivo di ricorso, il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 553 c.c. e ss., in quanto la Corte di Appello non avrebbe considerato che l’azione di riduzione promossa da P.A. e culminata nella sentenza n. 1037/1998 della stessa Corte di Appello di Torino, traeva origine dalla sola esigenza di determinare la quota di legittima della stessa attrice con riguardo alla eredità del padre P.G. senior, senza produrre alcun effetto reale sui beni invece compresi nel patrimonio del fratello P.L. e perciò nell’eredità di quest’ultimo.

1.1. I primi tre motivi di ricorso vanno esaminati congiuntamente, per l’evidente connessione, e vanno respinti. E’ inammissibile la censura di omesso esame di un fatto, alle stregua dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), ove, come avvenuto nel secondo motivo di ricorso, il “fatto” dedotto sia costituito non da un dato materiale, ma da un “giudicato esterno”, in quanto, ove il giudice di appello non si sia pronunciato o si sia pronunciato in maniera errata sull’eccezione di giudicato esterno proposta davanti a lui, la parte interessata ha, piuttosto, l’onere di denunciare il corrispondente vizio con il ricorso per cassazione, per violazione dell’art. 112 c.p.c. o dell’art. 2909 c.c.

Va ulteriormente premesso che le censure in esame denotano carenze di specifica indicazione degli atti su cui fondano, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e perciò non agevolano questa Corte nel procedere alle indagini ed agli accertamenti necessari per delibarne la fondatezza, non potendo altrimenti richiedersi in sede di legittimità un accesso immediato alle intere risultanze documentali di causa.

Il primo motivo di ricorso, nella sostanza, invoca l’effetto del giudicato esterno contenuto nella sentenza n. 40/2003 del Tribunale di Asti, con riferimento alla illegittima pretermissione di P.P. dal testamento di P.L. del 5 marzo 1971 ed alla inefficacia di due atti dispositivi (l’atto pubblico notaio K. del 5 febbraio 1967 e la scrittura privata 1 gennaio 1963) conseguente all’azione di riduzione proposta dal medesimo P.P. il 10-11 settembre 1974, azione che avrebbe comportato il recupero dei beni oggetto di detti atti dispositivi nel patrimonio ereditario di P.L.. Il ricorrente sostiene che i beni contemplati nella sentenza n. 40/2003 del Tribunale di Asti dovessero coincidere con quelli coinvolti nel presente giudizio.

Il presente giudizio, in ogni modo, attiene allo scioglimento della comunione ereditaria del defunto P.L. e della coniuge P.I., comunione intercorrente tra l’attore P.P., ed i fratelli G., C. e P.M.. L’oggetto di tale comunione ereditaria è stato in parte determinato nel giudizio originato dalla citazione del 9 febbraio 2007 di P.G. junior, avendo riguardo, in particolare, al “lotto B” attribuito ai medesimi eredi di P.L. per effetto della sentenza n. 1037/1998 della Corte di Appello di Torino, passata in giudicato. Quest’ultima sentenza definì la causa introdotta il 5/20 agosto 1976 da P.A., sorella del defunto P.L., la quale, dando atto di rinunciare alle disposizioni testamentarie fatte dal padre, P.G. senior, e di voler ottenere la sola quota prevista ex lege a suo favore, chiese di dichiarare la nullità delle disposizioni contenute nei testamenti di P.G. senior (testamento pubblico del 12 maggio 1955, con il quale veniva costituito, tra l’altro, l’usufrutto a favore di M.C., moglie del testatore, premorta allo stesso; testamento pubblico del 6 ottobre 1972, con cui veniva costituito anche un prelegato a favore del nipote P.G.; testamento olografo pubblicato il 25 ottobre 1976, con cui veniva costituito l’usufrutto generale a favore della nuora P.I., vedova di P.L.). P.A. domandò, altresì, di dichiarare la simulazione dell’atto di compravendita del 12 novembre 1956, concretante, in realtà, una donazione del padre G. a favore del figlio L., nonchè di condannare i coeredi P., M., C., G. e P.I. a conferire i beni loro pervenuti in qualità di eredi di P.L., ai fini della determinazione dell’eredità di P.G. senior e della divisione pro quota tra gli aventi diritto. L’adito Tribunale di Asti, con sentenza n. 388/1980, decise su alcune delle domande avanzate da P.A., la quale, proposto gravame innanzi la Corte d’Appello di Torino, ottenne dalla stessa, con sentenza n. 305/1983, la determinazione della quota del patrimonio del padre P.G. senior a lei spettante. Con altra sentenza non definitiva del 23 dicembre 1988 il Tribunale di Asti deliberò la formazione dei due lotti da attribuire agli eredi di P.G. senior, A. e P.L., ovvero agli eredi di quest’ultimo. Proposto ulteriore gravame, la Corte di Appello di Torino, con sentenza n. 1037/1998, passata in giudicato, provvide alla formazione di due lotti A) e B), assegnandoli, come detto, rispettivamente ad P.A. e agli eredi di P.L..

La Corte di Appello di Torino, nella sentenza n. 1583/2017 qui impugnata (pagina 13), proprio con riguardo alla doglianza dell’appellante P.P. circa la violazione del giudicato emergente dalla sentenza n. 40/2003 del Tribunale di Asti e la conseguente mancata ricomprensione nel compendio divisionale dei beni facenti parte dell’asse del defunto P.G. senior, ha evidenziato come, per la ricostruzione del patrimonio ereditario di P.G. senior, si dovesse far capo alla propria sentenza n. 1037/1998, considerando come, a causa della premorienza, esso non potesse dirsi entrato, seppur pro quota, nel patrimonio del figlio P.L., al quale, piuttosto, erano succeduti per rappresentazione i figli P., G., M. e C., oltre alla defunta coniuge P.I.. In particolare, non possono dirsi oggetto della comunione ereditaria di P.L., deceduto il (OMISSIS), il cui scioglimento venne domandato con la citazione notificata il 1 settembre 1974 da P.P., i beni provenienti dalla successione di P.G. senior individuati nel distinto giudizio di divisione correlato all’azione intentata da P.A., ovvero quelli compresi nel lotto A), assegnato dalla sentenza della Corte di Appello di Torino n. 1037/1998, passata in giudicato, nonchè nel lotto B), assegnato proprio agli eredi di P.L. e oggetto del diverso giudizio iniziato nel 2007 da P.G. (quello investito dal ricorso per cassazione contraddistinto con R.G. 11907/2015). Pertanto, la Corte di Torino, nella sentenza n. 1583/2017, ha confermato l’assunto della sentenza 4 giugno 2014, secondo cui le quote da attribuire ai fratelli P. per rappresentazione del padre L. nella successione del nonno P.G. senior dovevano ricavarsi dalla sentenza n. 498/1988 dello stesso Tribunale, passata in giudicato.

Il ricorrente P.P., nei suoi primi due motivi di ricorso, deduce che sia errato il presupposto fattuale di partenza, posto a base della sentenza della Corte di Torino, qui impugnata, secondo cui la massa ereditaria del de cuius P.L. dovesse determinarsi alla stregua del giudicato contenuto nella sentenza n. 1037/1998, resa nel contraddittorio tra P.A. e gli eredi tutti del medesimo P.L., opponendo a tale conclusione la portata della sentenza del 15 gennaio 2003 del Tribunale di Asti, la quale aveva inserito nell’asse ereditario di P.L. anche l’immobile di (OMISSIS), di cui al rogito 5 febbraio 1967, e l’azienda di bottaio di cui alla scrittura privata del 1 gennaio 1963. Tale statuizione non era stata riformata dalla sentenza n. 769/2005 del 10 maggio 2005 della Corte di Appello di Torino, per poi passare a sua volta in giudicato in seguito alla sentenza n. 9360/2012 del 15 maggio 2012 della Corte di cassazione, la quale rigettò il ricorso di P.P..

La sentenza del 15 gennaio 2003 del Tribunale di Asti pronunciò sulle domande contenute nella citazione notificata nel settembre del 1974 da P.P., figlio del primo matrimonio di P.L., il quale aveva disposto delle proprie sostanze con testamento olografo del 5 marzo 1971, istituendo erede universale il figlio P.G., nato dal secondo matrimonio con P.I.. Nella citazione del settembre 1974, P.P. aveva, dunque, dedotto la simulazione della vendita dal de cuius P.L. a P.G., con atto notarile del 5 febbraio 1967, di un appezzamento di terreno sito nella (OMISSIS), da collazionare all’asse ereditario, nonchè richiesto la collazione di tutti i beni donati in vita dal medesimo de cuius, ed in particolare del valore dell’azienda di bottaio e segheria trasmessa gratuitamente al figlio P.G.. Quel giudizio (e perciò anche il giudicato qui invocato) intercorse tra P.P., P.G., P.I., P.M. e P.C.. La sentenza 3 ottobre 1998, n. 1037/1998, della Corte di Appello di Torino, viceversa, pronunciò sulla domanda introdotta nell’agosto 1976 da P.A., sorella di P.L., nei confronti dei discendenti di questo, per lo scioglimento della comunione di P.G. senior, deceduto il (OMISSIS), nonchè per la declaratoria di simulazione della compravendita del 12 novembre 1956 – concretante, in realtà, una donazione intercorsa tra il padre G. ed il figlio L.. Dapprima il Tribunale di Asti, con sentenza del 23 dicembre 1988, e poi la Corte d’Appello, con la sentenza n. 1037/1998, provvidero alla formazione dei due lotti A) e B) da attribuire agli eredi di P.G. senior, A. e P.L., ovvero ai discendenti di quest’ultimo subentrati per rappresentazione.

Non ha alcun rilievo, al fine di giustificare la cassazione dell’impugnata sentenza, la questione che il ricorrente pone col suo terzo motivo circa la natura personale, e non reale, dell’azione di riduzione, essendo questa unicamente diretta a procurare al legittimario l’utile corrispondente alla quota di legittima, e perciò da proporre non contro chi al momento sia titolare del bene, che fu legato o donato, ma esclusivamente contro gli eredi, l’legatari o i donatari. Ciò che qui assume carattere decisivo è che, come già spiegato, la sentenza n. 1037/1998, della Corte di Appello di Torino, statuendo sulla domanda di P.A., definì, in modo divenuto irretrattabile, la consistenza dell’intero patrimonio del de cuius P.G. senior, nonchè, una volta eseguita la stima, i beni specificamente compresi nella porzione assegnata ai fratelli P. per rappresentazione del padre L..

A fronte di quanto invece ipotizza il primo motivo di ricorso, la sentenza 15 gennaio 2003 del Tribunale di Asti non può quindi considerarsi contraria (e perciò prevalente, secondo il criterio cronologico) all’altra sentenza 3 ottobre 1998, n. 1037/1998, della Corte di Appello di Torino, in quanto tra i due giudizi non vi era identità di soggetti e di oggetto, nè alcuna ontologica e strutturale concordanza di elementi.

Come da questa Corte già chiarito in precedenti pronunce, le cui interpretazioni vanno ribadite, per il combinato disposto degli artt. 469 e 726 c.c., la divisione ereditaria, quando vi è rappresentazione (quel che nella specie avvenne per la divisione del patrimonio ereditario di P.G. senior, intercorrente tra l’erede P.A. e i discendenti, subentranti per rappresentazione, dell’altro erede premorto P.L.) avviene per stirpi, procedendosi alla formazione di tante porzioni, una volta eseguita la stima, quanti sono gli eredi o le stirpi condividenti, mentre non è prevista l’ulteriore formazione di altrettante subporzioni all’interno di ciascuna stirpe, sempre che non si formi al riguardo un accordo fra tutti i partecipanti, non potendo i restanti condividenti essere tenuti a subire le remore e le spese di una suddivisione interna alla stirpe cui non appartengono e che quindi non li interessa in alcun modo (così Cass. Sez. 2, 29/10/1992, n. 11762; Cass. Sez. 2, 07/09/1977, n. 3894; Cass. Sez. 2, 09/03/1970, n. 604). Stabilito con sentenza quali siano i beni da dividere e formate le porzioni quanti siano gli eredi o le stirpi condividenti, le statuizioni relative all’appartenenza alla massa di detti beni ed alla loro concreta attribuzione diventano irrevocabili ed irretrattabili a causa della mancata impugnazione.

Non può rappresentare motivo di censura della impugnata sentenza n. 1583/2017 della Corte d’Appello di Torino la diversa estensione del patrimonio ereditario di P.L., che il ricorrente assume evincibile dalla sentenza 15 gennaio 2003 del Tribunale di Asti. Oggetto del giudizio di divisione promosso da P.G. junior con citazione del 9 febbraio 2007 sono stati la quota dell’eredità di P.G. senior attribuita ai discendenti di P.L., determinata in base alla sentenza della Corte di Appello di Torino nella sentenza n. 1037/1998 (il cosiddetto “lotto B”), nonchè i rimborsi delle spese sostenute da P.G. junior per alcune cose comprese nella comunione ereditaria di P.L.; nè risulta che P.P. avesse ampliato l’oggetto di tale giudizio chiedendo con apposita domanda riconvenzionale la divisione dell’intero asse.

Identicamente, per quanto specificamente indicato in ricorso ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, non risulta proposta nel giudizio in esame (derivante dalla domanda di divisione notificata nel settembre del 1974 da P.P.) alcuna eccezione di litispendenza o di riunione obbligatoria ex art. 273 c.p.c. fondata sulla pendenza della distinta azione intrapresa da P.G. junior nel febbraio 2007.

Il principio riguardante la natura unitaria del giudizio di divisione va, invero, riferito alla comunione ereditaria che venga sciolta nei modi e nelle forme di legge, ma non si estende alle ipotesi di divisione di singoli beni ereditari, nelle quali non venga fatta alcuna questione che possa in qualsiasi modo incidere circa la divisione degli altri beni ereditari, e, in particolare, circa l’eventuale appartenenza ad alcune parti, od altro titolo diverso da quello ereditario, di taluni beni apparentemente rientranti nell’eredità. In tal caso ciascuna divisione, anche se collegata con la successiva, ha una propria autonomia processuale, mentre sul piano del diritto sostanziale, ai fini della efficacia preclusiva di eventuali giudicati, assume rilievo il contenuto delle domande espresso nel petitum effettivamente richiesto nei diversi giudizi (Cass. Sez. 2, 16/06/1972, n. 1902).

II. Il quarto motivo del ricorso di P.P. censura la violazione degli artt. 720 c.p.c. e ss., in quanto sia il Tribunale di Asti, sia la Corte di Appello di Torino avrebbero errato nell’assegnare per intero a P.G. junior i principali cespiti immobiliari compresi nell’asse ereditario, essendo invece possibile scogliere la comunione assegnando in natura un porzione a ciascun condividente.

II.1. Il quarto motivo di ricorso va respinto.

La Corte d’appello di Torino ha evidenziato come P.P. concorresse per una quota pari ad 1/6 del patrimonio ereditario di P.L., sicchè tale porzione giustificava la mancata separazione in natura del compendio sulla base di frazioni altrimenti minimali.

La censura svolta è priva di specifiche argomentazioni intellegibili ed esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata debbano ritenersi in contrasto con l’indicata norma regolatrice della fattispecie.

E’ indubbio che, in tema di divisione giudiziale, l’indivisibilità o la disagevole divisibilità di un immobile, integrando un’eccezione al diritto di ciascun partecipante alla comunione di conseguire la sua parte di beni in natura (ex art. 718 c.c.), può ritenersi legittimamente predicabile solo nell’ipotesi in cui singole unità immobiliari siano considerate indivisibili o non comodamente divisibili, non potendo la disciplina sulla indivisibilità, di cui all’art. 720 c.c., trovare applicazione nella diversa ipotesi di una molteplicità di beni (Cass. Sez. 2, 29/11/2011, n. 25332). Nell’interpretazione di questa Corte si afferma tuttavia altresì che l’art. 718 c.c., in virtù del quale ciascun coerede ha il diritto di conseguire in natura la parte dei beni a lui spettanti, trova deroga, ai sensi dell’art. 720 c.c., non solo nel caso di mera “non divisibilità” dei beni, ma anche in ogni ipotesi in cui gli stessi non siano “comodamente” divisibili e, cioè, allorchè, pur risultando il frazionamento materialmente possibile sotto l’aspetto strutturale, non siano tuttavia realizzabili porzioni suscettibili di formare oggetto di autonomo e libero godimento, non compromesso da servitù, pesi o limitazioni eccessive, e non richiedenti opere complesse o di notevole costo, ovvero porzioni che, sotto l’aspetto economico-funzionale, risulterebbero sensibilmente deprezzate in proporzione al valore dell’intero (così, ad es., Cass. Sez. 2, 15/12/2016, n. 25888). La soluzione dell’attribuzione degli immobili ad uno dei coeredi avente diritto alla quota maggiore, in deroga al principio generale dell’art. 718 c.c., è dunque ispirata da criteri di opportunità e convenienza (arg. da Cass. Sez. 6 – 2, 20/03/2019, n. 7869; Cass. Sez. 2, 22/08/2018, n. 20961; Cass. Sez. 2, 19/05/2015, n. 10216). L’accertamento del requisito della comoda divisibilità del bene, ai sensi dell’art. 720 c.c., è perciò riservato all’apprezzamento di fatto del giudice del merito, incensurabile in sede di legittimità se non nei limiti di cui all’art. 360 n. 5, c.p.c., ove il ricorrente deduca, nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, l’omesso esame di un “fatto storico” di portata decisiva inerente all’aspetto strutturale del singolo bene, tale da giustificarne il frazionamento attuabile mediante determinazione di quote concrete suscettibili di autonomo e libero godimento, nonchè idoneo a consentirne il mantenimento della pregressa funzionalità, senza alcun sensibile deprezzamento del valore delle singole porzioni apportate proporzionalmente al valore dell’intero (cfr. Cass. Sez. 2, 21/05/2003, n. 7961; Cass. Sez. 2, 07/02/2002, n. 1738).

III. Il quinto motivo di ricorso censura l’omesso esame della “richiesta di rendiconto sui beni oggetto di divisione”, in particolare “dei frutti naturali e civili dei terreni e del peso pubblico”. Si espone che la sentenza parziale n. 40/2003 del Tribunale di Asti aveva rinviato alla definitiva la decisione sulla domanda di rendiconto, che invece era poi stata trascurata dalla sentenza definitiva n. 365/2014 del medesimo Tribunale. La Corte d’appello avrebbe a sua volta “omesso l’esame della conseguente doglianza”.

III.1. Il quinto motivo di ricorso è inammissibile.

Nell’ambito dei rapporti tra coeredi, la resa dei conti di cui all’art. 723 c.c., oltre che operazione inserita nel procedimento divisorio, può anche essere oggetto di domanda distinta ed autonoma rispetto alla domanda di scioglimento della comunione. Ove, come assume il ricorrente essere avvenuto nel caso in esame, il giudice di primo grado non provveda sulla domanda di rendiconto proposta da un coerede, il vizio di omessa pronuncia deve costituire oggetto di uno specifico motivo di appello, che quanto meno evidenzi la mancata adozione in sentenza di una decisione sulla domanda ritualmente proposta. Intendendo il ricorrente lamentare che neppure la Corte d’appello di Torino abbia dato risposta al puntuale motivo d’appello sulla domanda di rendiconto, occorreva farne denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, o comunque quanto meno mediante univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile la censura che sostiene che sia stato omesso l’esame di una circostanza di fatto decisiva (arg. da Cass. Sez. U, 24/07/2013, n. 17931; Cass. Sez. 2, 22/01/2018, n. 1539).

IV. Il ricorso va dunque rigettato e, secondo soccombenza, il ricorrente va condannato a rimborsare le spese del giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo, in favore delle controricorrenti P.M. e P.C., nonchè del controricorrente P.G..

Sussistono i presupposti processuali per il versamento – ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater – da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione, se dovuto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a rimborsare alle controricorrenti P.M. e P.C. le spese sostenute nel giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 6.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre a spese generali e ad accessori di legge; nonchè a rimborsare al controricorrente P.G. le spese sostenute nel giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 6.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre a spese generali e ad accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione Seconda civile della Corte Suprema di Cassazione, il 7 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 8 gennaio 2020

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