Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13899 del 06/07/2020

Cassazione civile sez. VI, 06/07/2020, (ud. 20/02/2020, dep. 06/07/2020), n.13899

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. COSENTINO Antonello – Presidente –

Dott. CASADONTE Anna Maria – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 6735/2019 R.G. proposto da:

T.P., rappresentato e difeso dall’avv. Mario Panico, con

domicilio in Tricase, Piazza Cappuccini n. 30.

– ricorrente –

contro

G.R.M., rappresentato e difeso dall’avv. Antonio

Casarano, con domicilio in Alessano, Via Marcurano n. 141.

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Lecce n. 769/2018,

depositata in data 13.72018;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del giorno

20.2.2020 dal Consigliere Fortunato Giuseppe.

Fatto

FATTI DI CAUSA

G.R.M. ha ottenuto il decreto ingiuntivo n. 81/20111 per l’importo di Euro 21.829,43, a titolo di compensi per l’attività professionale prestata in favore dell’ingiunto dal 1997 al 2006.

T.P. ha proposto opposizione, contestando la domanda e chiedendo in via riconvenzionale il risarcimento del danno.

All’esito, il tribunale ha revocato il decreto ingiuntivo, rideterminando il compenso in Euro 1.149,69, previa compensazione con il danno patito dal cliente per le sanzioni irrogategli a causa delle infedeli dichiarazioni fiscali.

Su appello del G., la Corte leccese ha riformato la prima decisione.

Il Giudice distrettuale, rilevato che l’entità del compenso non era contestata, ha ritenuto che il risarcimento del danno derivante dall’errata compilazione delle dichiarazioni fiscali dovesse esser ridotto in misura pari alla differenza tra l’imposta dovuta e quella effettivamente versata (Euro 1239,32), osservando che nessuna sanzione era stata applicata all’appellato.

Ha riconosciuto al G. anche l’importo richiesto per l’attività svolta in occasione del perfezionamento di una transazione tra il T. e la Banca di Roma, ritenendo provato che il professionista fosse intervenuto nella fase conciliativa, propiziando la transazione per l’importo di Euro 200.000,00.

Quanto alla tenuta della contabilità in regime ordinario anzichè in forma semplificata, ha osservato che non poteva applicarsi la riduzione del 15% previste dalla tariffa, per il fatto che il commercialista aveva operato in un Comune con meno di 200.000 abitanti, non essendovi prova che le parti avessero concordato tale riduzione, da ritenersi meramente facoltativa.

La cassazione della sentenza è chiesta da T.P. sulla base di tre motivi di ricorso, illustrati con memoria.

G.R.M. ha depositato controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo censura la violazione degli artt. 2043 e 2059 c.c., e degli artt. 115 e 1116 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver la sentenza ridotto il risarcimento spettante al ricorrente per la compilazione delle dichiarazioni fiscali, senza riconoscere il danno non patrimoniale, pur configurandosi la commissione di un reato.

Il motivo è inammissibile.

Il ricorso non indica se e quando sia stato dedotta, nei gradi di merito, la sussistenza del danno non patrimoniale e se la domanda riconvenzionale contemplasse tale tipologia di pregiudizi, risultando dalla sentenza che il cliente aveva in realtà lamentato di essere stato esposto all’applicazione delle sanzioni tributarie, prospettando un danno di carattere economico.

Tale omissione non è sanabile con le deduzioni formulate nella memoria illustrativa ex art. 380 bis c.p.c., avendo questa Corte già stabilito che l’eventuale vizio del ricorso per cassazione non può essere superato da integrazioni, aggiunte o chiarimenti contenuti nella memoria di cui all’art. 380 bis c.p.c., comma 2, la cui funzione – al pari della memoria prevista dall’art. 378 c.p.c. – è di illustrare e chiarire le ragioni giustificatrici dei motivi debitamente enunciati nel ricorso e non già di integrarli (Cass. 30760/2018; Cass. 17603/2011).

2. Il secondo motivo denuncia la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per aver la sentenza omesso di considerare che, dalle prove assunte in giudizio (interrogatorio del resistente e prove per testi), era emerso che il G. aveva intrattenuto con la Banca solo pochi contatti telefonici ed aveva inviato due proposte, l’ultima delle quali respinta – anzichè accolta – dall’istituto di credito.

Il motivo è infondato.

La Corte d’appello, valutando le risultanze istruttorie, ha ritenuto che l’intervento del G. si fosse svolto in tutte le fasi delle trattative – non rilevando, quindi, che tali trattative fossero state avviate da altro professionista – ed aveva propiziato l’esito positivo dei contatti, definiti con transazione di Euro 200.000.

Nel censurare la decisione il ricorrente propone – in effetti – una diversa valutazione delle prove e quindi una questione non deducibile in cassazione se non che con riguardo alla logicità della motivazione, posto che non sussiste la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ove il fatto storico (l’impegno profuso – in concreto – dal professionista) sia stato comunque valutato, pur se la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze processuali, competendo al giudice prescegliere quelle ritenute idonee a fondare la decisione.

Per altro verso, riguardo alla eccepita violazione dell’art. 115 c.p.c., è sufficiente ribadire che la norma si limita a richiedere che la decisione si basi su elementi validamente acquisiti al processo, con divieto del giudice di utilizzare prove non dedotte dalle parti o acquisite d’ufficio al di fuori dei casi in cui la legge gli conferisce un potere officioso d’indagine (Cass. 27000/2016; Cass. 13960/2014). Parimenti, l’art. 116 c.p.c. viene in considerazione ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, o quando il giudice abbia disatteso il criterio di apprezzamento di una prova soggetta ad una specifica regola di valutazione (Cass. 11892/2016; Cass. 13960/2014; Cass. 26965/2007).

Esula dall’ambito applicativo di entrambe le predette disposizioni ogni questione che involga il modo in cui siano state valutati gli elementi acquisiti (Cass. 23940/2017; Cass. 24434/2016).

3. Il terzo motivo denuncia la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, sostenendo che l’obbligo di tenuta della contabilità in regime ordinario aveva durata triennale, alla scadenza della quale il resistente doveva farsi rilasciare una nuova autorizzazione, dovendosi altrimenti applicare il regime di contabilità semplificata.

Il motivo è infondato.

Ribadito quanto già osservato in merito ai presupposti affinchè possa denunciarsi la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., per il resto la censura pecca di specificità, poichè il fatto che, alla scadenza del primo triennio, occorresse una nuova autorizzazione, mai rilasciata, per tenere la contabilità in regime ordinario non risulta oggetto di discussione tra le parti e il ricorso non indica se e dove sia stata dedotta nei gradi di merito, essendo irrilevante che la circostanza sia stata menzionata nel ricorso in cassazione (come erroneamente sostenuto nella memoria illustrativa).

E’ principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte che i motivi di ricorso per cassazione devono investire, a pena di inammissibilità, questioni che abbiano già formato oggetto del “thema decidendum” nel giudizio di merito, essendo consentito dedurre nuove tesi giuridiche e nuovi profili di difesa solo quando si fondino su elementi di fatto già dedotti dinanzi al giudice di merito. Ove una determinata questione giuridica non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, per dar modo alla Corte di cassazione di controllare la veridicità di tale deduzione (Cass. 13547/ 13457; Cass. 713/2010; Cass. 19164/2007).

Tale onere di specificazione opera, infine, anche ove sia prospettata la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass. s.u. 8053/2014).

Il ricorso è quindi respinto, con aggravio di spese secondo soccombenza.

Si dà atto che sussistono le condizioni per dichiarare che il ricorrente è tenuto a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, se dovuto.

PQM

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, pari ad Euro 200,00 per esborsi ed Euro 2700,00 a titolo di compenso, oltre ad iva, c.p.a. e rimborso forfettario delle spese generali.

Dà atto che sussistono le condizioni per dichiarare che il ricorrente è tenuto a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 20 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 6 luglio 2020

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