Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13896 del 10/06/2010

Cassazione civile sez. II, 10/06/2010, (ud. 06/05/2010, dep. 10/06/2010), n.13986

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIOLA Roberto – Presidente –

Dott. MAZZIOTTI DI CELSO Lucio – Consigliere –

Dott. GOLDONI Umberto – rel. Consigliere –

Dott. PETITTI Stefano – Consigliere –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 6962/2005 proposto da:

M.A. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA G.

ZANARDELLI 23, presso lo studio dell’avvocato FILIPPUCCI FABRIZIO,

che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

MO.FR. (OMISSIS), S.A.A.C.

(OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA FOSSOMBRONE 92,

presso lo studio dell’avvocato DE TOMA TOMMASO, rappresentati e

difesi dall’avvocato BONADIES RICCARDO;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 27/2004 della CORTE D’APPELLO di BARI,

depositata il 30/01/2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

06/05/2010 dal Consigliere Dott. UMBERTO GOLDONI;

udito l’Avvocato FILIPPUCCI Fabrizio, difensore del ricorrente che ha

chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito l’Avvocato DI GIOIA Giovan Candido, con delega depositata in

udienza dell’Avvocato BONADIES Riccardo, difensore del resistente

che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SCARDACCIONE Eduardo Vittorio, che ha concluso per rigetto del

ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con citazione del 1995, i coniugi Mo.Fr. e S.A.A.C., a seguito di divergenze al riguardo, convenivano di fronte al tribunale di Trani M.A., proprietario di un fondo confinante con altro di loro proprietà, per la determinazione della consistenza dei due fondi in questione, la declaratoria di esclusiva della loro proprietà sul fondo come determinato e l’apposizione dei relativi ceppi.

Il M., costituitosi, non si opponeva alla domanda.

Espletati gli accertamenti tecnici ritenuti del caso, l’adito tribunale, con sentenza del 2001, determinava le relative estensioni dei fondi e regolava le spese.

Avverso tale decisione proponeva appello il M., cui resistevano i Mo. – S., spiegando a loro volta appello incidentale per le attribuzione delle spese.

Con sentenza in data 16/30.1.2004, la Corte di appello di Bari respingeva l’impugnazione principale ed accoglieva quella incidentale; osservava, per quanto qui ancora interessa, la Corte distrettuale che le risultanze della CTU, di cui l’appellante aveva chiesto la rinnovazione, erano state raggiunte in esito a tre consulenze di ufficio ed a sei consulenze di parte, e disattese soltanto dall’ultimo CTP del M., ma le ragioni per cui le risultanze fatte proprie dal primo giudice non sarebbero state raggiunte in esito a criteri validi, non erano specificate se non nella conclusionale, cosa questa che rendeva inammissibile il relativo motivo di impugnazione.

Ogni altra doglianza era poi smentita dall’esame delle domande hic et inde proposte, e il riferimento alle risultanze catastali risultava proposto in modo inammissibilmente generico, a fronte delle emergenze peritali.

Per la cassazione di tale sentenza ricorre il M. sulla base di due motivi; resistono con controricorso le controparti; entrambe le parti hanno presentato memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Va preliminarmente rilevato che l’eccezione di violazione dell’art. 366 c.p.c., sollevata in controricorso, per preteso difetto di autosufficienza nell’esposizione del fatto nel ricorso in esame non ha pregio; invero, tale requisito deve ritenersi assolto se e in quanto dall’esposizione del fatto, letta in correlazione con i motivi di ricorso, sia possibile avere una compiuta visione dello svolgimento dei fatti sostanziali e processuali che hanno caratterizzato la controversia; poichè tale esigenza risulta sostanzialmente adempiuta dal ricorso in esame, l’eccezione non può trovare accoglimento.

Il primo motivo di ricorso, intestato a “violazione di legge – omessa e/o insufficiente motivazione – contraddittorietà manifesta – erronea applicazione dell’art. 324 c.p.c.”, lascia francamente perplessi sulla compiuta comprensione della censura ivi svolta.

La Corte barese ha affermato essere l’impugnazione de qua inammissibile per mancanza di specificità dei motivi, sanzione processuale questa che deriva dalla chiara dizione dell’art. 342 c.p.c., che prevede che i motivi di appello devono essere specifici; non v’ha dubbio che la sentenza impugnata ha inteso riferirsi a tale disposizione, che impone all’appellante di individuare con chiarezza le statuizioni investite dal gravame e le censure in concreto mosse alla motivazione della sentenza di primo grado, accompagnandole con argomentazioni che confutino le ragioni addotte dal primo giudice, così da incrinarne il fondamento logico giuridico (v. tra le molte, Cass. 1.2.2007, n. 2217).

Ciò posto, risulta conseguente osservare che la pretesa confusione tra inammissibilità del gravame ed infondatezza del motivo non ha pregio alcuno, in ragione del fatto che la Corte pugliese ha evidenziato come, a fronte di un imponente apparato peritale assunto in prime cure, non era stato prospettato alcun concreto argomento di critica alla decisione assunta.

La generica deduzione della infondatezza della sentenza impugnata costituisce appunto genericità della doglianza, come tale inammissibile, ed è appena il caso di ricordare come l’interpretazione dell’atto di appello competa istituzionalmente al giudice del merito, mentre a questa Corte spetta unicamente di vagliare se le ragioni addotte a sostegno della decisione assunta al riguardo sia plausibile e tecnicamente corretta, cosa questa che può senza dubbio alcuno in base all’esame dell’atto di appello (v. Cass. SS. UU. 24.11.1992, n. 12518) essere verificata positivamente nel caso di specie, in ragione della insussistenza di una critica che abbia concretezza in relazione alla decisione assunta nella sentenza di prime cure, a nulla rilevando che solo nella comparsa conclusionale le ragioni della doglianza siano state precisate con migliore specificità, atteso che è l’atto introduttivo del gravame a fissare l’oggetto del giudizio e la esplicitazione della critica solo nella comparsa conclusionale, ove presa in esame, violerebbe il principio del contraddittorio.

Il motivo in esame è pertanto privo di pregio.

Con il secondo mezzo, intestato a “violazione di legge – omessa ed insufficiente motivazione – contraddittorietà manifesta – erronea applicazione degli artt. 112 e 342 c.p.c., e art. 990 c.c.”, si lamenta sostanzialmente che non si fosse dato conto della discrasia esistente tra il dato catastale e quello risultante dalla CTU, atteso che il confine ne risultava stabilito in maniera difforme.

Anche a tale riguardo, la Corte distrettuale ha evidenziato che nella comparsa di risposta io stesso M. aveva chiesto la determinazione della effettiva estensione dei due fondi, mentre la tesi secondo cui la CTU non potrebbe costituire prova di una diversa linea di demarcazione non può essere condivisa, atteso che è vero il contrario, stante che la CTU può assurgere a mezzo di prova ove, come nel caso di specie rappresenti un modo essenziale ed insostituibile per l’accertamento dei fatti (valutazione questa di merito, incensurabile come tale in questa sede).

Nè può essere condivisa la tesi (basata sulla dedotta violazione dell’art. 950 c.c.) secondo cui l’azione di regolamento di confini, avendo natura dichiarativa e ricognitiva, non potrebbe essere fonte di obbligo di rilascio di porzioni eventualmente risultate possedute indebitamente; la giurisprudenza di questa Corte (cons. Cass. 1.12.1997, n. 12139, richiamata opportunamente nella sentenza impugnata) ha infatti chiarito che l’actio finium regundorum ha in sè un effetto recuperatorio che, se non ne altera l’intrinseca natura, pure comporta conseguenze in ordine al rilascio di quanto indebitamente posseduto.

La reiezione di tale secondo mezzo comporta il rigetto del ricorso: le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro 2.200,00, di cui Euro 2.000,00 per onorari, oltre agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 6 maggio 2010.

Depositato in Cancelleria il 10 giugno 2010

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