Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13885 del 20/05/2021

Cassazione civile sez. I, 20/05/2021, (ud. 25/02/2021, dep. 20/05/2021), n.13885

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. VANNUCCI Marco – Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 15712/2020 proposto da:

N.K., rappresentato e difeso dall’Avv. Emanuele

Boccongelli, con studio in Roma, Corso Trieste, n. 10, presso il

quale elegge domicilio in virtù di procura speciale a margine del

ricorso per cassazione.

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro in carica,

domiciliato ex lege in Roma, Via dei Portoghesi, 12, presso gli

uffici dell’Avvocatura Generale dello Stato.

– intimato –

avverso il decreto del Tribunale di L’Aquila n. 1060/2020, pubblicato

il 29 aprile 2020;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

25/02/2021 dal Consigliere Dott. Lunella Caradonna.

 

Fatto

RILEVATO

Che:

1. Con decreto del 29 aprile 2020, il Tribunale di L’Aquila ha rigettato il ricorso proposto da N.K., cittadino proveniente dalla (OMISSIS), avverso il provvedimento di diniego della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale.

2. Il ricorrente ha dichiarato di avere lasciato il proprio paese di origine perchè il padre, capo di una organizzazione animista, aveva deciso di convertirsi al cristianesimo e aveva dato fuoco all’altare che utilizzava per le celebrazioni; che il padre, con la moglie e due figlie, erano morti a seguito di un incidente stradale, che la comunità di appartenenza aveva correlato alla conversione la morte del padre, vietando a lui e a suo fratello di seppellire i copri dei familiari defunti; che aveva timore di ritornare in Nigeria perchè sarebbe stato ucciso, insieme al fratello, dalla comunità di appartenenza; che era fuggito in Libia dove, imprigionato, era rimasto per due anni.

3. Il Tribunale ha ritenuto che l’audizione svolta davanti alla Commissione era stata condotta in modo analitico ed esaustivo, con la conseguenza che era superflua la rinnovazione dinanzi al Tribunale; che il racconto del richiedente era generico, vago e non dettagliato, avendo egli riferito di un generico timore di essere ucciso, per le motivazioni specificamente indicate alle pagine 15 e 16 del provvedimento impugnato; che non sussistevano i presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale, perchè il ricorrente non aveva riferito circostanze di fatto dalle quali desumere il concreto pericolo di subire atti di persecuzione, nè aveva riferito di essere direttamente minacciato dal pericolo di subire torture o condanne a morte; dalle fonti internazionali aggiornate al 2018, richiamate a pag. 17 del decreto impugnato, non emergeva nemmeno la sussistenza di un conflitto armato ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), poichè le violenze esistenti nel zona del Delta del Niger erano indirizzate al sabotaggio di impianti e al sequestro di dipendenti di compagnie petrolifere e non direttamente verso la popolazione; quanto alla protezione umanitaria non esisteva una situazione di particolare vulnerabilità, tenuto conto della sua inattendibilità, nè risultava che il richiedente avesse intrapreso un serio percorso di integrazione (il contratto prodotto era relativo a un rapporto di lavoro a tempo determinato cessato nel dicembre 2018), nè lo stesso apparteneva a una delle categorie per le quali era stabilito il principio di non respingimento.

4. N.K. ricorre per la cassazione del decreto con atto affidato ad un unico motivo.

5. L’Amministrazione intimata non ha svolto difese.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

1. Con il primo ed unico motivo il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 e art. 5, comma 1, lett. c) e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3 e art. 35 bis, comma 9, evidenziando che la Commissione territoriale aveva ritenuto credibile la vicenda personale, ma l’aveva ritenuta di natura privata e familiare; che il Tribunale non aveva fatto ricorso ai poteri officiosi per verificare se lo Stato di origine fosse stato in grado di offrire una protezione adeguata; che la decisione impugnata non si basava su fonti aggiornate; che non era stata tenuta in considerazione la circostanza riferita della sua permanenza in Libia dove era stato imprigionato in condizioni disumane.

1.1 Il motivo è inammissibile perchè del tutto generico e diretto a censurare l’accertamento di merito compiuto dal Tribunale sulla domanda di protezione internazionale, nonchè privo di specifiche indicazioni sull’interpretazione delle norme di diritto asseritamente violate e tantomeno delle ragioni della ravvisata violazione.

1.2 Inoltre, il vizio motivazionale del provvedimento impugnato è stato dedotto con riferimento alla pregressa formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, denunciando omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, anzichè l'”omesso esame circa un atto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”.

Ed invero, per effetto della nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come introdotta dal decreto L. 22 giungo 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, oggetto del vizio di cui alla citata norma è oggi esclusivamente l’omesso esame circa un “fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti”, con la conseguenza che il mancato esame deve riguardare un vero e proprio “fatto”, in senso storico e normativo, ossia un fatto principale, ex art. 2697 c.c., cioè un “fatto” costitutivo, modificativo impeditivo o estintivo, o anche un fatto secondario, vale a dire un fatto dedotto ed affermato dalle parti in funzione di prova di un fatto principale (Cass., 8 settembre 2016, n. 17761; Cass. 13 dicembre 2017, n. 29883), e non, invece, le argomentazioni o deduzioni difensive (Cass., SU, 20 giugno 2018, n. 16303; Cass. 14 giugno 2017, n. 14802), oppure gli elementi istruttori in quanto tali, quando il fatto storico da essi rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti (Cass., Sez. U., 7 aprile 2014, n. 8053).

1.3 Ciò posto, senza prescindere dalla ritenuta non credibilità del racconto del ricorrente non efficacemente censurata, la non riconducibilità dell’episodio narrato dal richiedente asilo ad una ipotesi di atto persecutorio e l’esclusione della sussistenza di una situazione Tel Paese di origine di un rischio di esposizione indiscriminata dei civili a danni gravi scaturenti da conflitto armato interno sono state contestate dal ricorrente in modo sommamente generico, esprimendo semplicemente il proprio dissenso dalle valutazioni formulate dal giudice del merito e argomentando, in modo non completo e parziale, che nella disamina della situazione politica dello Edo State, in Nigeria, il Tribunale aveva sottolineato diverse circostanze che dimostravano che l’assetto sociale e istituzionale del paese di origine del richiedente era suscettibile di mettere in pericolo la sua vita.

1.4 Occorre, poi, ribadire che “In tema di protezione internazionale, ai fini della dimostrazione della violazione del dovere di collaborazione istruttoria gravante sul giudice di merito, non può procedersi alla mera prospettazione, in termini generici, di una situazione complessiva del Paese di origine del richiedente diversa da quella ricostruita dal giudice, sia pure sulla base del riferimento a fonti internazionali alternative o successive a quelle utilizzate dal giudice e risultanti dal provvedimento decisorio, ma occorre che la censura dia atto in modo specifico degli elementi di fatto idonei a dimostrare che il giudice di merito abbia deciso sulla base di informazioni non più attuali, dovendo la censura contenere precisi richiami, anche testuali, alle fonti alternative o successive proposte, in modo da consentire alla Suprema Corte l’effettiva verifica circa la violazione del dovere di collaborazione istruttoria” (Cass., 21 ottobre 2019, n. 26728).

Più in particolare, è stato affermato che la ricerca delle COI è “integrazione istruttoria” (Cass., 19 giugno 2019, n. 16411) e non totale sostituzione del giudice alla parte nei suoi doveri di offrire, nei limiti delle possibilità date dalla sua peculiare condizione, fatti, riscontri ed elementi di prova, tanto che si è specificato, nella giurisprudenza di questa Corte, che il predetto dovere deve essere osservato in diretto riferimento ai fatti esposti ed ai motivi svolti in seno alla richiesta di protezione internazionale, non potendo per contro riferirsi a circostanze non dedotte (Cass., 21 novembre 2018, n. 30105).

Va data, dunque, continuità al principio secondo cui “In tema di protezione internazionale, il motivo di ricorso per cassazione che mira a contrastare l’apprezzamento del giudice di merito in ordine alle cd. fonti privilegiate, di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, deve evidenziare, mediante riscontri precisi ed univoci, che le informazioni sulla cui base è stata assunta la decisione, in violazione del cd. dovere di collaborazione istruttoria, sono state oggettivamente travisate, ovvero superate da altre più aggiornate e decisive fonti qualificate” (Cass., 18 febbraio 2020, n. 4037).

1.5 Anche in tema di protezione umanitaria il ricorrente si limita a censurare, sempre in modo estremamente generico, le valutazioni del Tribunale circa l’insussistenza di una condizione di personale vulnerabilità e, piuttosto, propone una critica di puro merito relativamente all’accertamento del fatto, inammissibile in sede di legittimità.

1.6 Sul punto, deve rammentarsi che il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari presuppone l’esistenza di situazioni non tipizzate di vulnerabilità dello straniero, risultanti da obblighi internazionali o costituzionali, conseguenti al rischio del richiedente di essere immesso, in esito al rimpatrio, in un contesto sociale, politico ed ambientale idoneo a costituire una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti fondamentali (Cass., 22 febbraio 2019, n. 5358).

La condizione di “vulnerabilità” del richiedente deve essere verificata caso per caso, all’esito di una valutazione individuale della sua vita privata in Italia, comparata con la situazione personale vissuta prima della partenza ed alla quale si troverebbe esposto in caso di rimpatrio (Cass. 15 maggio 2019, n. 13079).

Con particolare riferimento al parametro dell’inserimento sociale e lavorativo dello straniero in Italia, questo, tuttavia, può assumere rilevanza non quale fattore esclusivo, bensì quale circostanza che può concorrere a determinare una situazione di vulnerabilità personale da tutelare mediante il riconoscimento di un titolo di soggiorno (Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455).

E’ utile precisare che il fattore dell’integrazione sociale in Italia, peraltro genericamente allegato in ricorso, è recessivo, qualora difetti la vulnerabilità (Cass., Sez. U., 13 novembre 2019, n. 29459; Cass., 23 febbraio 2018, n. 4455).

1.7 Anche la censura sul giudizio di irrilevanza del periodo trascorso in Libia è inammissibile per difetto di specificità, mancando l’indicazione delle ragioni per le quali la valutazione dovesse estendersi anche alla condizione di tale Paese.

Al riguardo, va evidenziato che l’allegazione da parte del richiedente che in un Paese di transito si consumi un’ampia violazione dei diritti umani, senza evidenziare quale connessione vi sia tra il transito attraverso quel Paese ed il contenuto della domanda, costituisce circostanza irrilevante ai fini della decisione, perchè l’indagine del rischio persecutorio o del danno grave in caso di rimpatrio va effettuata con riferimento al Paese di origine o alla dimora abituale ove si tratti di un apolide, potendo il paese di transito rilevare, ai sensi dell’art. 3 della Direttiva UE n. 115/2008, solo nel caso di accordi comunitari o bilaterali di riammissione, o altra intesa, che prevedano il ritorno del richiedente in tale paese (Cass. 21 novembre 2019, n. 30408; Cass.,6 dicembre 2018, n. 31676).

2. In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile.

Nulla sulle spese poichè l’Amministrazione intimata non ha svolto attività difensiva.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 25 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 20 maggio 2021

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