Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13882 del 09/06/2010

Cassazione civile sez. II, 09/06/2010, (ud. 06/05/2010, dep. 09/06/2010), n.13882

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIOLA Roberto Michele – Presidente –

Dott. MAZZIOTTI DI CELSO Lucio – rel. Consigliere –

Dott. GOLDONI Umberto – Consigliere –

Dott. PETITTI Stefano – Consigliere –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 6736/2005 proposto da:

C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in

ROMA, VIALE CARSO 77, presso lo studio dell’avvocato PONTECORVO

Edoardo, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato MIGLIOR

DARIO;

– ricorrente –

contro

C.A. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA G. FERRARI 35, presso lo studio dell’avvocato MARZI Massimo

Filippo, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato BOLASCO

FRANCESCO;

– controricorrente –

e contro

A.F. (OMISSIS);

– intimata –

sul ricorso 10307/2005 proposto da:

A.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA DEL BABUINO 181, presso lo studio dell’avvocato CORTESE

DOMENICO, rappresentato, e difeso dagli avvocati DE MONTIS ELIO, DE

MONTIS ALDO, DE MONTIS ANNA MARIA;

– controricorrente ricorrente incidentale –

e contro

C.F. (OMISSIS), C.A.

(OMISSIS);

– intimati –

avverso la sentenza n. 439/2004 della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI,

depositata il 03/12/2004;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

06/05/2010 dal Consigliere Dott. LUCIO MAZZIOTTI DI CELSO;

udito l’Avvocato PONTECORVO Edoardo, difensore della ricorrente che

sì riporta agli atti;

udito l’Avvocato MARZI Massimo Filippo, difensore della resistente

che si riporta agli atti;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SCARDACCIONE Eduardo Vittorio, che ha concluso per il rigetto dei

ricorsi.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto notificato in data 11/12/1998 A.F. conveniva in giudizio innanzi al pretore di Cagliari C.F. al fine di ottenere la condanna della medesima al rilascio di un appartamento alla Via (OMISSIS) di detta città acquistato da essa attrice con atto (OMISSIS) stipulato con il proprietario C.A. e detenuto senza titolo dalla convenuta.

La C.F. si costituiva eccependo: il difetto di competenza del giudice adito; il difetto di legittimazione attiva dell’attrice;

l’infondatezza della domanda in forza del possesso dell’immobile da parte di essa convenuta, come ben noto alla A..

Interveniva volontariamente in giudizio C.A. assumendo che la sorella F. aveva la mera detenzione dell’immobile da lui acquistato dalla IN.Mar ed a lei concesso in via precaria.

Assumeva inoltre di aver ricevuto dalla A. il pagamento del saldo del prezzo per l’acquisto dell’immobile nel (OMISSIS).

Nel corso del giudizio la convenuta domandava l’accertamento della avvenuta usucapione dell’appartamento per effetto del possesso protrattosi dal 1977 al 1998.

Con sentenza 15/11/2002 il tribunale di Cagliari (subentrato al pretore) condannava C.F. al rilascio dell’immobile in questione in favore della A..

Avverso la detta sentenza la soccombente proponeva appello al quale resistevano il C.A. e la A.. Quest’ultima proponeva appello incidentale in via subordinata all’accoglimento del gravame della C.F..

Con sentenza 3/12/2004 la corte di appello di Cagliari rigettava il gravame osservando: che il primo motivo di appello era relativo al mancato accoglimento dell’eccezione di incompetenza per valore e per materia del pretore adito dalla A.; che la detta censura era infondata in quanto basata sul richiamo al principio della “perpetuatio iurisdictionis” non pertinente presupponendo per la sua applicazione la sussistenza di un giudice in capo al quale perpetuare la giurisdizione e non l’eliminazione di quel giudice; che peraltro il principio di economia processuale desumibile dall’articolo 111 Cost., vietava qualsiasi inutile reiterazione di attività processuali quali quelle che conseguirebbero da una eventuale applicazione delle regole sulla competenza nel caso di specie; che il secondo motivo di gravame concerneva il rigetto dell’eccezione di difetto di legittimazione attiva dell’attrice basato sulla circostanza che la A. non era proprietaria dell’immobile in contestazione al momento della proposizione dell’azione; che la doglianza era infondata confondendo l’appellante la legittimazione attiva e l’effettiva titolarità del diritto; che la “legittimatio ad causam” si risolveva nella titolarità del potere di promuovere un giudizio in ordine al rapporto sostanziale dedotto in causa indipendentemente dalla titolarità del rapporto controverso; che comunque la legittimazione attiva, costituendo condizione dell’azione, poteva sopravvenire nel corso del giudizio; che nella specie in corso di causa era intervenuto l’integrale pagamento del prezzo da parte della acquirente A.; che il terzo motivo investiva il mancato accoglimento della domanda riconvenzionale di accertamento della usucapione dell’immobile da parte della convenuta o, comunque, il mancato esame dell’eccezione di usucapione e la mancata assunzione della prova dedotta al riguardo; che era corretto quanto affermato dal primo giudice in merito alla tardività della domanda riconvenzionale di usucapione non formulata nella comparsa di risposta con la quale era stata proposta una eccezione di usucapione con riferimento ad una domanda che andava qualificata come rivendica e non di restituzione; che la detta eccezione riconvenzionale non era fondata; che l’onere probatorio del rivendicante poteva ritenersi assolto nel fallimento dell’avversa prova della prescrizione acquisitiva con la prova della validità del titolo, in base al quale il bene era stato trasmesso dal precedente titolare; che le emergenze processuali indicate come prova dell’intervenuta usucapione erano state malamente interpretate dalla convenuta; che la prova dedotta da quest’ultima in appello, non ammessa dal primo giudice e riproposta in appello, era inammissibile in quanto capitolata su apprezzamenti di carattere giuridico e non su fatti; che anche l’interrogatorio formale della A. era irrilevante riguardando aspetti privi di efficacia probatoria in relazione all’usucapione; che l’appello incidentale non doveva essere esaminato in quanto proposto in via condizionata all’accoglimento dell’appello principale.

La cassazione della sentenza della corte di appello di Cagliari è stata chiesta da C.F. con ricorso affidato a tre motivi illustrati da memoria. Hanno resistito con separati controricorsi C.A. e A.F. la quale ha proposto ricorso incidentale condizionato sorretto da un solo motivo.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso principale e quello incidentale vanno riuniti a norma dell’art. 335 c.p.c..

Con il primo motivo del ricorso principale C.F. denuncia violazione delle norme sulla competenza riproponendo l’eccezione di incompetenza per materia e per valore per aver la A. adito un giudice (il pretore) incompetente. La competenza del pretore è stata assorbita da quella del tribunale in virtù del D.Lgs. n. 51 del 1998, entrato in vigore il 2/6/1999 mentre l’atto di citazione della A. è stato notificato in data 11/12/1998 con conseguente applicabilità della normativa precedente alla riforma posto che il legislatore considera irrilevanti i mutamenti intervenuti dopo la proposizione della domanda. La “perpetuatio iurisdictionis” opera infatti anche con riguardo ai mutamenti normativi. Dalla rilevata incompetenza del giudice adito dalla A. deriva la nullità del procedimento di primo grado. Il pretore adito dalla A. non è stato considerato competente dalla norma sopravvenuta, ma è stato soppresso e la sua competenza assorbita dal tribunale. Ha quindi errato la corte di appello nel richiamare a sostegno della propria tesi sentenze della Cassazione relative a fattispecie diverse nelle quali il giudice inizialmente adito non era il pretore, ma il tribunale che, incompetente per la vecchia normativa, è divenuto successivamente competente per la nuova normativa.

Il motivo è infondato avendo la corte di appello correttamente applicato il principio più volte affermato da questa Corte secondo cui le norme sopravvenute in corso di giudizio che modifichino la giurisdizione e la competenza trovano applicazione anche nei giudizi pendenti se tale giurisdizione o competenza venga, per l’effetto, attribuita ai giudici dinanzi ai quali la causa pende, ovvero dinanzi ai quali la causa stessa dovrebbe essere ripresa o riassunta se fosse dichiarato che, al momento della domanda, essi mancavano della giurisdizione o della competenza che hanno esercitato (tra le tante sentenze 22/4/2003 n. 6393; 9/4/2001 n. 5279).

In particolare va ribadito che, intervenuta con il D.Lgs n. 51 del 1998, l’istituzione di giudice unico di primo grado, vengono a perdere rilevanza e base giuridica le questioni di competenza tra pretore e tribunale fondate sulla precedente disciplina in materia.

Ciò è giustificato, tra l’altro, da evidenti ragioni d’economia processuale, in quanto quelle stesse ragioni che hanno indotto, proprio con la nuova formulazione dell’art. 5 del citato D.Lgs., ad escludere la rilevanza dello ius superveniens nell’inversa ipotesi di giudice correttamente adito che diverrebbe incompetente in forza di norma sopravvenuta, sono ravvisabili (al contrario di quanto sostenuto dalla ricorrente principale con il motivo in esame) anche nel caso in cui la medesima norma attribuisca la competenza al giudice già investito della causa che ne fosse stato originariamente sfornito.

Con il secondo motivo la ricorrente principale denuncia violazione dell’art. 81 c.p.c., artt. 948, 1158 e 1523 c.c., e vizi di motivazione deducendo che la corte di appello ha errato nel rigettare l’eccezione di difetto di legittimazione attiva della A. la quale al momento della proposizione della domanda di rivendicazione non era proprietaria dell’immobile in contestazione, con conseguente mancanza di un presupposto processuale della detta azione. Infatti il presunto avvenuto pagamento del saldo del prezzo è una circostanza da provare documentalmente trattandosi di un fatto riguardante il trasferimento di un immobile.

La censura non è meritevole di accoglimento in quanto – come puntualmente rilevato dalla corte di appello – ai fini dell’accoglimento dell’azione di rivendicazione è sufficiente che le relative condizioni per la sua legittimazione sussistano al momento della pronuncia giudiziale e la qualità di proprietario, che legittima l’azione stessa, costituisce non già un presupposto processuale, che è necessario che sussista al momento della domanda, ma una condizione dell’azione la quale, estrinsecandosi nella manifestazione del potere di provocare, mediante l’esercizio dell’attività giurisdizionale, il riconoscimento di un diritto realmente spettante, basta che sussista al momento della decisione.

Al riguardo va osservato che questa Corte con la sentenza 16/6/2006 n. 13973, ha avuto modo di affermare che una delle due condizioni essenziali dell’azione di cui all’art. 948 c.c., è costituita dalla titolarità del diritto di proprietà in capo al rivendicante.

Va aggiunto che la sentenza di questa Corte 6/5/1994 n. 4421 – richiamata dalla ricorrente nel motivo in esame si riferisce ad una fattispecie diversa da quella in esame riguardando un soggetto non più proprietario al momento della proposizione della domanda avendo dimesso la titolarità del relativo diritto prima di detto momento e non più riacquistata.

Nella specie, invece, non è contestato che al momento della pronuncia impugnata la A. aveva acquisito la titolarità del diritto di proprietà dell’immobile in contestazione.

Con il terzo motivo la C.F. – denunciando violazione di legge e vizi di motivazione – sostiene che la corte di appello ha errato nel rigettare sia la domanda riconvenzionale di accertamento dell’usucapione in quanto proposta fuori termine, sia l’eccezione riconvenzionale di usucapione, sia la richiesta istruttoria di ammissione della relativa prova testimoniale. In particolare la corte di merito ha errato nel ritenere affievolito l’onere probatorio in capo alla A. rivendicante per effetto dell’eccezione di usucapione sollevata da essa C.F.. Nel giudizio di rivendicazione il convenuto non ha l’onere di fornire alcuna prova potendo avvalersi della tutela possessoria fondata sul principio “possideo quia possideo”. 11 giudice di secondo grado ha anche errato nel ritenere inammissibile la chiesta prova dell’usucapione affermando che ai testi venivano richiesti dei giudizi. Al contrario con la prova testimoniale si mirava a chiedere ai testi non di valutare la sussistenza o meno dei presupposti di un istituto giuridico, ma di riferire su un fatto. Comunque era stata provata l’intervenuta usucapione a favore di essa C.F.: in sede di interrogatorio formale, infatti, C.A. – dante causa della A. – ha dichiarato che essa ricorrente principale ha posseduto l’immobile in questione nel periodo dal 1977 al 1998;

Anche questo motivo, al pari degli altri, deve essere disatteso in quanto le censure ivi sviluppate sono in parte infondate ed in parte inammissibili.

Va innanzitutto rilevato che quando il convenuto opponga alla domanda diretta a far valere il diritto di proprietà su un bene determinato l’usucapione del bene stesso possono configurarsi una domanda riconvenzionale o un’eccezione. Ricorre la prima ipotesi quando il convenuto chieda l’accertamento del suo diritto di proprietà, al momento della decisione, sul bene in controversia; si e, invece, in presenza di un’eccezione se il convenuto si limiti ad opporre che, per effetto dell’usucapione, l’attore ha cessato di essere e quindi non e più attualmente titolare del diritto di proprietà di cui si discute. Nella specie la C.F. ha proposto ritualmente (sin dalla comparsa di risposta e di costituzione in primo grado) l’eccezione di usucapione e solo tardivamente la domanda riconvenzionale di usucapione. La detta eccezione di usucapione è stata correttamente ritenuta infondata dalla corte di appello all’esito di un insindacabile apprezzamento delle risultanze probatorie. Le censure al riguardo mosse dalla ricorrente, pur se titolate come violazione di legge e come vizi di motivazione, si risolvono essenzialmente nella prospettazione di una diversa analisi del merito della causa, inammissibile in sede di legittimità, nonchè nella pretesa di contrastare valutazioni dei fatti e delle risultanze probatorie effettuate dalla corte di appello la quale è pervenuta alle conclusioni sopra riportate nella parte narrativa che precede (e dalla C.F. criticate) attraverso complete argomentazioni, improntate a retti eri ter i logici e giuridici – nonchè frutto di un’indagine accurata e puntuale delle risultanze di causa riportate nella decisione impugnate – ed ha dato conto delle proprie valutazioni, circa i riportati accertamenti in fatto, espo- nendo adeguatamente le ragioni del suo convincimento.

Alle dette valutazioni la ricorrente contrappone le proprie, ma della mag-giore o minore attendibilità di queste rispetto a quelle compiute dal giudice del merito non è certo consentito discutere in questa sede di legittimità, ciò comportando un nuovo autonomo esame del materiale delibato che non può avere ingresso nel giudizio di cassazione. Dalla motivazione della sentenza impugnata risulta chiaro che la Corte di merito, nel porre in evidenza gli elementi probatori favorevoli alle tesi della A., ha implicitamente espresso una valutazione negativa delle contrapposte tesi della C.F..

Sono pertanto insussistenti gli asseriti vizi di motivazione e le dedotte violazioni di legge che presuppongono una ricostruzione dei fatti diversa da quella ineccepibilmente effettuata dal giudice del merito.

Per quanto poi riguarda la questione relativa all’onere della prova incombente all’attore che agisce in rivendicazione occorre partire dalla considerazione che, secondo l’orientamento prevalente nella giurisprudenza di questa S.C. che il Collegio condivide e fa proprio, l’onere probatorio gravante sull’attore in revindica non è, di regola, attenuato dalla proposizione da parte del convenuto di una domanda riconvenzionale (o di una eccezione) di usucapione, a meno che il convenuto non invochi un acquisto per usucapione il cui dies a quo sia successivo a quello del titolo di acquisto del rivendicante perchè in tal caso, attenendo il thema disputandum alla appartenenza attuale del bene al convenuto in forza dell’invocata usucapione e non già dell’acquisto da parte dell’attore, l’onere probatorio del rivendicante può legittimamente ritenersi assolto, nel fallimento della avversa prova della prescrizione acquisitiva, con la dimostrazione della validità del titolo in base al quale quel bene gli era stato trasmesso dal precedente titolare.

Non può condividersi l’orientamento più rigoroso, secondo il quale la mancata prova da parte del convenuto della invocata usucapione non attenua l’onere probatorio gravante sull’attore in revindica, in quanto l’invocare un proprio diritto sulla cosa rivendicata non implica comunque alcuna rinunzia al principio possideo quia possideo.

Quando, infatti, il convenuto in revindica, per paralizzare la domanda dell’attore, invoca l’avvenuta usucapione in suo favore, non si limita ad opporre la tutela che la legge garantisce al possessore anche se non espressione di un diritto di proprietà, ma deduce di possedere in quanto proprietario; nel caso in cui, poi, l’usucapione sia oggetto di una domanda riconvenzionale, chiede addirittura l’accertamento di tale diritto di proprietà con efficacia di giudicato. Poichè, peraltro, l’usucapione non può che maturare che nei confronti di chi è proprietario al momento dell’inizio del possesso utile, il convenuto in revindica che la invochi riconosce che l’attore è stato proprietario, per cui, da un lato, questi è esentato dall’onere probatorio da cui diversamente sarebbe gravato e, dall’altro, il convenuto non può che soccombere nei confronti dell’attore se non fornisce la prova della avvenuta usucapione.

Può quindi affermarsi che in tema di azione di rivendicazione, nel caso in cui il convenuto non contesti l’originaria appartenenza del bene conteso ad un comune dante causa, l’onere probatorio a carico dell’attore si riduce alla prova di un valido titolo di acquisto da parte sua e dell’appartenenza del bene medesimo al suo dante causa in epoca anteriore a quella in cui il convenuto assume di avere iniziato a possedere, ed alla prova che quell’appartenenza non è stata interrotta da un possesso idoneo ad usucapire da parte del convenuto (in tali sensi tra le ultime, sentenza di questa Corte 17/4/2009 n. 9303).

Nella specie la corte di appello ha ineccepibilmente applicato il detto principio ed ha coerentemente accolto la domanda proposta dalla A. dopo aver evidenziato che la C.F. aveva di fatto riconosciuto la proprietà del bene immobile in contestazione in capo al dante causa della A., ossia ad C.A. il quale a sua volta aveva acquistato il detto immobile dalla s.r.l. IN.MAR che in data 21/12/1972 (ossia in epoca anteriore a quella in cui la C.F. ha assunto di aver iniziato a possedere) aveva acquistato da tale P.G. il terreno sul quale era stato poi edificato il fabbricato in questione.

In ordine infine alle censure circa la motivazione posta dalla corte di appello a base della mancata ammissione della prova testimoniale, si impone il preliminare rilievo della genericità della loro formulazione, essendo omessa la puntuale indicazione delle specifiche circostanze sulle quali avrebbe dovuto svolgersi il detto mezzo istruttorio e riducendosi la doglianza ad una apodittica affermazione di rilevanza in re ipsa da riconoscere al contenuto dei capitoli di prova come articolati. Costituisce, invero, jus receptum che il ricorrente il quale, in sede di legittimità, denunci la mancata ammissione, da parte del giudice del merito, di una prova testimoniale, ha l’onere di indicare specificatamente le circostanze che formavano oggetto della prova al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività dei fatti da provare e, quindi, delle prove stesse che, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, la Corte di Cassazione deve essere in grado di compiere solo sulla base delle deduzioni contenute nell’atto, alle cui lacune non è consentito sopperire con indagini integrative.

Il ricorso principale va pertanto rigettato con la conseguente condanna della soccombente C.F. al pagamento delle spese del giudizio di cassazione in favore dei resistenti e liquidate per ciascuno nella rispettiva misura indicata in dispositivo.

Va infine dichiarato inammissibile (e non assorbito) il ricorso incidentale condizionato con il quale la A. chiede che, in caso di accoglimento del ricorso principale, C.A. venga dichiarato tenuto a rivalerla dalle conseguenze negative derivanti dall’emananda sentenza.

In proposito occorre rilevare che, come questa Corte ha avuto modo di precisare, presupposto della dichiarazione di assorbimento del ricorso incidentale condizionato conseguente al rigetto del ricorso principale è l’ammissibilità del ricorso incidentale medesimo.

Infatti, la dichiarazione di assorbimento del ricorso incidentale condizionato, che consegue all’accertamento dell’infondatezza del ricorso principale (condizionante), comporta pur sempre un apprezzamento del merito dell’impugnazione condizionata, il quale, a sua volta, implica l’ammissibilità di questa e la subordinazione dell’interesse ad impugnare del ricorrente incidentale alla riconosciuta fondatezza del ricorso principale. Se il ricorso incidentale è invece a priori inammissibile, la subordinazione dell’interesse ad impugnare all’accoglimento, anche parziale, del ricorso principale non vale ad impedire alla Corte di Cassazione l’esercizio del suo potere – dovere di accertarne e dichiararne l’inammissibilità, indipendentemente da qualunque eccezione sollevata dalle parti (tra le ultime, sentenza 28/2/2007 n. 4787).

Ciò posto va evidenziato che, come è pacifico nella giurisprudenza di legittimità, è inammissibile il ricorso incidentale condizionato con il quale la parte vittoriosa, sollevi (come appunto nella specie) questioni che il giudice di appello non abbia deciso in senso ad essa sfavorevole avendole ritenute assorbite in quanto tali questioni, in caso di accoglimento del ricorso principale, possono essere riproposte davanti al giudice di rinvio: quindi in merito a dette questioni manca la soccombenza, che costituisce il presupposto della impugnazione (sentenze 19/10/2006 n. 22501; 18/10/2006 n. 22346;

23/5/2006 n. 12153).

Nessun provvedimento va adottato in ordine alle spese del giudizio di cassazione tra la A. e C.A. posto che quest’ultimo non ha svolto attività difensiva in relazione al ricorso incidentale della A..

P.Q.M.

la Corte riunisce i ricorsi, rigetta il ricorso principale, dichiara inammissibile il ricorso incidentale, condanna la ricorrente principale al pagamento delle spese del giudizio di cassazione liquidate – in favore di C.A. – in complessivi Euro 200,00, oltre Euro 3.000,00 a titolo di onorari ed oltre accessori come per legge – in favore di A.F. – in complessivi Euro 200,00, oltre Euro 2.000,00 a titolo di onorari ed oltre accessori come per legge; nulla per le spese tra la A. ed il C.A..

Così deciso in Roma, il 6 maggio 2010.

Depositato in Cancelleria il 9 giugno 2010

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