Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13881 del 09/06/2010

Cassazione civile sez. II, 09/06/2010, (ud. 29/04/2010, dep. 09/06/2010), n.13881

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PICCIALLI Luigi – Presidente –

Dott. MAZZACANE Vincenzo – rel. Consigliere –

Dott. PETITTI Stefano – Consigliere –

Dott. PARZIALE Ippolisto – Consigliere –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

C.M. (OMISSIS), C.L.

(OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIALE

PINTURICCHIO 214, presso lo studio dell’avvocato VERINI SUPPLIZI

ALDO, che li rappresenta e difende;

– ricorrenti –

contro

R.B., R.C., R.L., elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA OTRANTO 47, presso lo studio dell’avvocato

DE MARTINO ROBERTO, che li rappresenta e difende;

– controricorrenti –

e contro

D.D.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 5136/2004 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 02/12/2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

29/04/2010 dal Consigliere Dott. MAZZACANE Vincenzo;

udito l’Avvocato VERINI SUPPLIZI Aldo, difensore dei ricorrenti che

ha chiesto di riportarsi al ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CENICCOLA Raffaele, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 29-11-1988 L.A. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma C.L. e C.M.L. e, premesso di essere proprietaria di un immobile sovrastante la trattoria di proprietà dei convenuti, chiedeva che, accertata la illiceità delle immissioni moleste provenienti dalla trattoria, venisse disposta la loro eliminazione con la condanna delle controparti al risarcimento dei danni.

I convenuti costituitisi in giudizio contestavano il fondamento della domanda attrice di cui chiedevano il rigetto.

A seguito della morte dell’attrice si costituivano in giudizio quali suoi eredi R.B., R.C., R.L. e D.D..

Il Tribunale adito con sentenza del 28-3-2002 rigettava la domanda di spostamento della cucina in un diverso ambiente del ristorante di proprietà dei convenuti, e condannava questi ultimi al risarcimento dei danni liquidati in L. 62.000.000 nonchè al pagamento delle spese di lite.

Proposta impugnazione da parte di L. e C.M.L. cui resistevano B., C., R.L. e la D. che introducevano altresì un appello incidentale la Corte di Appello di Roma con sentenza del 2-12-2004, in parziale riforma della sentenza impugnata, confermata nel resto, ha determinato l’ammontare del danno al cui risarcimento erano stati condannati i C. in Euro 22.104,36 con gli interessi legali a decorrere dalla data della sentenza di primo grado (ritenendo che gli appellanti non erano responsabili per le immissioni successive all’11- 12-1997, allorchè l’azienda era stata da essi ceduta), ed ha rigettato l’appello incidentale.

Avverso questa sentenza M.L. e C.M. hanno proposto un ricorso per Cassazione affidato a cinque motivi cui B., C. e R.L. hanno resistito con controricorso; D.D. non ha svolto attività difensiva in questa sede.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo i ricorrenti, deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. degli artt. 844 – 1226 e 2043 c.c. nonchè omessa o insufficiente motivazione, assumono che, mentre la L. prima e successivamente i suoi eredi avevano formulato una domanda ex art. 844 c.c. a tutela della proprietà chiedendo l’attribuzione di un indennizzo commisurato alla perdita di valore dell’immobile oggetto delle immissioni moleste, la sentenza impugnata ha erroneamente ritenuto che correttamente il primo giudice aveva statuito sulla diversa domanda di risarcimento danni relativi al peggioramento della qualità di vita degli occupanti l’appartamento soprastante il ristorante gestito dagli esponenti, domanda sulla quale, secondo il giudice di appello, era stato da questi ultimi accettato il contraddittorio all’udienza dell’1-10-1999.

La censura è infondata.

La Corte territoriale ha rilevato che all’udienza del 1-10-1999 gli attori avevano chiesto l’accertamento della illiceità delle immissioni moleste con la rimozione dell’attività di cucina dal locale gestito dai C., la condanna dei convenuti al risarcimento del danno in conseguenza delle suddette immissioni, e solo in via subordinata la condanna dei convenuti ad un indennizzo commisurato al deprezzamento dell’immobile a causa delle immissioni;

considerato poi che a tali conclusioni occorreva fare riferimento, non avendo i convenuti manifestato di non accettare il contraddittorio, correttamente il Tribunale aveva esaminato soltanto le domande formulate in via principale, e non anche quella relativa all’indennizzo conseguente alla perdita di valore dell’immobile.

Pertanto illogicamente i ricorrenti, non avendo contestato di aver accettato il contraddittorio sulle conclusioni formulate dalle controparti, assumono che contraddittoriamente la sentenza impugnata ha ritenuto che era nei poteri del giudice di primo grado di statuire sulla domanda principale di risarcimento danni.

Deve poi rilevarsi l’erroneità dell’assunto dei ricorrenti secondo cui, poichè la domanda proposta dalla L. rientrava nell’ambito dell’art. 844 c.c. nell’indennizzo previsto da tale norma non potevano essere compresi gli eventuali danni subiti dalle persone fisiche; premesso che, come si è già esposto, gli attori avevano proposto una domanda di natura risarcitoria in conseguenza di immissioni ritenute illecite, è evidente che tale prospettazione, implicando l’accertamento del superamento della soglia di normale tollerabilità di cui all’art. 844 c.c., comportava l’esigenza di accertare l’illiceità del fatto generatore del danno a terzi secondo lo schema dell’azione generale di risarcimento danni di cui all’art. 2043 c.c. (Cass. 10-5-2006 n. 10715; Cass. 13-3-2007 n. 5844), nell’ambito della quale, ovviamente, sono compresi anche gli eventuali danni che abbia subito la persona fisica del proprietario, come riconosciuto anche dalla pronuncia di questa Corte 19-5-1976 n. 1796 richiamata dai ricorrenti.

Con il secondo motivo i C., denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 844 – 2043 e 2051 c.c., censurano la sentenza impugnata per aver ritenuto irrilevante la circostanza che gli esponenti a decorrere dal 1-9-1991 avevano concesso in affitto a terzi la gestione del locale in questione (prima di cedere definitivamente l’azienda con contratto dell’11-12-1997), avendo affermato che l’obbligo di custodia e la relativa responsabilità verso i terzi in base all’art. 2051 c.c. non vengono meno per il proprietario che concede in affitto un immobile dove si svolga un’attività, posto che la temporanea sottrazione della cosa alla sua disponibilità era compatibile con l’obbligo, su di lui gravante, di effettuarvi visite periodiche e di eseguire gli opportuni interventi.

M.L. e C.M. assumono che l’obbligo di custodia per il proprietario di un bene non può estendersi sull’operato di coloro che lo detengono e che con la loro negligenza, all’insaputa del proprietario – locatore, pongono in essere comportamenti pregiudizievoli per i terzi; non era quindi possibile ritenere che gli esponenti, oltre ad avere l’obbligo di ispezionare l’azienda per assicurarsi che fosse gestita regolarmente, dovessero altresì controllare se e quando i conduttori aprissero le finestre della cucina per far arieggiare i locali invece di mettere in funzione l’impianto.

La censura è fondata.

Il giudice di appello ha ritenuto che il proprietario di un immobile concesso in locazione non resta dispensato dall’obbligo di vigilanza e di custodia connesso sia con quello di manutenzione e riparazione del bene sia con quello del corretto uso degli impianti in relazione agli analoghi poteri spettanti al conduttore, cosicchè le loro responsabilità verso i terzi per un evento riconducibile al mancato esercizio di quei poteri nell’ambito delle rispettive sfere di azione, sono concorrenti; pertanto nella fattispecie in relazione alla domanda intrapresa dalla L., che lamentava immissioni moleste eliminabili o comunque tollerabili con l’uso degli impianti esistenti, doveva affermarsi una responsabilità del locatore:

infatti, se l’affittuario avrebbe dovuto evitare le esalazioni fastidiose, i C. avevano il dovere di attivarsi concretamente per impedire situazioni dannose nei confronti dei terzi, eventualmente chiedendo la risoluzione del contratto di affitto per inadempimento da parte dell’affittuario ai suoi obblighi di corretta gestione.

Tale convincimento non può essere condiviso in quanto frutto di una non corretta linea di demarcazione delle rispettive responsabilità del locatore e del conduttore in ordine al danno cagionato a terzi dall’immobile oggetto di locazione.

Premesso infatti che ai fini della responsabilità ex art. 2051 c.c. per i danni da cose in custodia occorre la sussistenza del rapporto di custodia con la cosa che ha dato luogo all’evento lesivo, rapporto che postula l’effettivo potere sulla stessa, ovvero la sua disponibilità giuridica e materiale con il conseguente potere di intervento su di essa, si rileva che secondo l’orientamento consolidato di questa Corte, mentre il proprietario dell’immobile locato, conservando la disponibilità giuridica, e quindi la custodia, delle strutture murarie e degli impianti in esse conglobati, è responsabile in via esclusiva ai sensi degli artt. 2051 e 2053 c.c. dei danni arrecati a terzi da dette strutture ed impianti, con riguardo invece alle altre parti ed accessori del bene locato, rispetto alle quali il conduttore acquista detta disponibilità con facoltà ed obbligo di intervenire onde evitare pregiudizio ad altri, la responsabilità verso questi ultimi, secondo le previsioni dell’art. 2051 c.c., grava soltanto sul conduttore medesimo (Cass. S.U. 11-11-1991; Cass.18-12-1996 n. 11321; Cass. 3/80/2005 n. 16231).

Orbene, facendo applicazione di tali principi – ai quali si ritiene di accedere non sussistendo validi motivi per discostarsene – nella fattispecie, si osserva che il fatto che le immissioni lamentate dalla L. e provenienti dal sottostante ristorante fossero ascrivibili alla mancata attivazione dell’impianto di aerazione ed alla mancata chiusura delle finestre del locale cucina (come accertato in sede di merito) comporta l’impossibilità di ricondurre tali inconvenienti agli obblighi di controllo spettanti ai C. nei limiti sopra enunciati, considerato che la disponibilità sia dell’impianto di aerazione che delle finestre del locale cucina era ad essi estranea, trattandosi di accessori e di parti del bene locato strettamente connessi alla gestione del ristorante, oggetto quindi di diretto ed effettivo potere da parte dei conduttori; pertanto deve rilevarsi l’insussistenza della responsabilità dei C. per i danni subiti dalle controparti per l’intero periodo in cui questi ultimi avevano concesso in affitto la gestione del ristorante in questione.

Con il terzo motivo i ricorrenti, deducendo vizio di motivazione con riferimento agli artt. 116 e 132 c.p.c., assumono che erroneamente la sentenza impugnata ha affermato che dalle indagini peritali era risultato che il ricambio dell’aria non veniva effettuato regolarmente attraverso l’impianto di aerazione, ma mediante l’apertura delle finestre dalle quali si propagavano le esalazioni, ritenendo conseguentemente provato un fatto illecito protrattosi per 8 – 9 anni attraverso un solo riscontro neppure positivamente verificato dal C.T.U..

I C., premesso che la Corte territoriale non avrebbe dovuto tenere in nessun conto la seconda C.T.U. del geometra S. perchè effettuata il 22-5-1998, cioè dopo la cessione a terzi dell’azienda, sostengono che il giudice di appello si è limitato a valorizzare il rilievo del primo C.T.U. secondo cui “durante la lavorazione dei cibi, che si protrae fino a tarda ora, si è costretti ad aprire la porta di ingresso e la finestra del locale che affacciano su via (OMISSIS)”; in realtà tale affermazione era contenuta in un verbale di sopralluogo effettuato alle ore (OMISSIS), e pertanto la constatazione del perito costituiva solo una ipotesi non suffragata da nessun effettivo riscontro: essi poi evidenziano il contrasto di tale rilievo con l’accertamento inconfutabile dell’idoneità dell’impianto di aerazione a smaltire fumi ed odori, considerato che con l’impianto in funzione non vi era ragione di essere costretti ad aprire porte e finestre.

La censura è infondata.

La Corte territoriale ha rilevato che le due C.T.U. espletate nel primo grado di giudizio avevano chiaramente evidenziato che il ricambio dell’aria nel locale cucina non veniva fatto regolarmente attraverso l’impianto di aerazione, ma mediante l’apertura delle finestre che provocava l’immissione di esalazioni nel sovrastante appartamento di proprietà degli appellati; in proposito ha osservato che, essendo emerso dagli accertamenti peritali che l’impianto di aerazione era perfettamente funzionante e che se lo stesso rimaneva aperto durante gli orari di esercizio, mantenendo le finestre chiuse, non sussistevano immissioni termiche e da esalazione, doveva concludersi che tali precauzioni non venivano adottate, con la conseguente prova della propagazione dal locale cucina di esalazioni moleste nell’appartamento soprastante degli appellati.

Orbene l’apprezzamento in proposito espresso dal giudice di appello è immune dai profili di censura sollevati dai ricorrenti in quanto conseguenza logica di fatti regolarmente accertati; è invero elemento pacifico che l’appartamento di proprietà degli appellati era soggetto ad esalazioni moleste provenienti dal sottostante locale cucina del ristorante gestito dai C. (i quali nel giudizio di primo grado sostanzialmente non avevano contestato, quantomeno in via subordinata, le immissioni, ma piuttosto avevano eccepito che esse non superavano il limite della normale tollerabilità, come evincibile dalla stessa narrativa del ricorso in esame), ed è stato provato che l’impianto di aerazione installato nella suddetta cucina funzionava perfettamente; pertanto la sentenza impugnata, nel ritenere che le finestre non rimanevano chiuse durante gli orari di esercizio del locale, determinando così la propagazione di esalazioni moleste nell’appartamento soprastante di proprietà delle controparti, ha proceduto ad un accertamento di natura presuntiva che rientra nell’ambito dei poteri del giudice di merito, al quale come è noto è riservata la valutazione discrezionale della sussistenza sia dei presupposti per il ricorso a tale mezzo di prova, sia dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dalla legge per valorizzare elementi di fatto come fonti di presunzione, ovverosia come circostanze idonee a consentire illazioni che ne discendano secondo il criterio dell’id quod plerumque accidit”, con la conseguenza che tale valutazione è censurabile soltanto per vizi attinenti alla motivazione (Cass. 4-5-2005 n. 9225; Cass. 20-7-2006 n. 16728), nella specie insussistenti.

Infine si rileva l’inammissibilità del profilo di censura in ordine al rilievo che non sarebbe stato provato che, dopo la morte della L., l’appartamento di sua proprietà fosse stato abitato dai suoi eredi, trattandosi di una questione di fatto non trattata dalla sentenza impugnata; pertanto i ricorrenti avevano l’onere, in realtà non assolto, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare di aver dedotto la questione in sede di appello, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente lo avessero fatto, onde consentire a questa Corte di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione prima di esaminare l’oggetto della questione stessa.

Con il quarto motivo i ricorrenti, deducendo violazione dell’art. 1226 c.c. e vizio di motivazione, censurano la sentenza impugnata per aver illogicamente ritenuto adeguata la misura del danno liquidato dal primo giudice in via equitativa, pur rilevando che il criterio di quantificazione del danno riferito ad una quota del valore locativo dell’appartamento di proprietà delle controparti non appariva astrattamente valido; essi sostengono che in realtà per procedere alla liquidazione equitativa del danno, quest’ultimo deve essere certo nella sua esistenza ontologica, dovendo sussistere notevoli difficoltà solo nella sua quantificazione; inoltre il giudice di appello avrebbe dovuto indicare almeno sommariamente i criteri seguiti per ritenere il risarcimento “satisfattivo”.

Con il quinto motivo i ricorrenti, deducendo violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. e vizio di motivazione, affermano che erroneamente la Corte territoriale ha rigettato il motivo di appello.

Il con il quale essi avevano censurato la sentenza di primo grado per averli condannati al pagamento delle spese processuali ed alla refusione delle spese di C.T.U. nonostante la mancata loro soccombenza sulla domanda principale.

Gli enunciati motivi restano assorbiti all’esito dell’accoglimento del secondo motivo di ricorso.

In definitiva la sentenza impugnata deve cassata in relazione al motivo accolto, e la causa deve essere rinviata per un nuovo esame e per la pronuncia sulle spese del presente giudizio ad altra sezione della Corte di Appello di Roma.

P.Q.M.

LA CORTE Accoglie il secondo motivo di ricorso, rigetta il primo ed il terzo, dichiara assorbiti gli altri, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa anche per la pronuncia sulle spese del presente giudizio ad altra sezione della Corte di Appello di Roma.

Così deciso in Roma, il 29 aprile 2010.

Depositato in Cancelleria il 9 giugno 2010

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