Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13880 del 01/06/2017

Cassazione civile, sez. I, 01/06/2017, (ud. 30/03/2017, dep.01/06/2017),  n. 13880

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI PALMA Salvatore – Presidente –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna – Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. ACIERNO Maria – rel. Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 29407/2015 proposto da:

B.G., elettivamente domiciliato in Roma, Via Cassiodoro

n. 1/a, presso l’avvocato Scarselli Giuliano, che lo rappresenta e

difende unitamente all’avvocato Brombin Francesca, giusta procura in

calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Br.Do., elettivamente domiciliata in Roma, Viale Bruno

Buozzi n. 82, presso l’avvocato Iannotta Antonella, rappresentata e

difesa dall’avvocato Ricchi Carlo, giusta procura a margine del

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1655/2015 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 29/09/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

30/03/2017 dal Cons. Dott. ACIERNO MARIA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale CERONI

Francesca, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito, per il ricorrente, l’Avvocato Scarselli Giuliano che si

riporta;

udito, per la controricorrente, l’Avvocato Ricchi Carlo che si

riporta.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Br.Do., nata il (OMISSIS), ha convenuto in giudizio dinanzi al Tribunale di Siena B.G. per chiedere che ne fosse accertata e dichiarata giudizialmente la paternità naturale, asserendo di essere nata da una relazione che quest’ultimo aveva avuto con sua madre, Br.Ma.Lu., nel (OMISSIS).

Il B., costituitosi in giudizio, ha affermato di non ricordare di aver avuto una relazione sessuale con Br.Ma.Lu., conosciuta in occasione delle lezioni di matematica che ella gli impartiva, e comunque di non essere stato informato di nulla all’epoca della nascita della presunta figlia, ma di essere stato ricontattato dalla donna soltanto nel (OMISSIS) con una lettera contenente riferimenti a fatti avvenuti nel (OMISSIS), poi nel (OMISSIS) con messaggi recapitati alla segreteria telefonica e infine nel (OMISSIS) da Br.Do. con una lettera in cui questa dichiarava di essere sua figlia e di avere bisogno di denaro.

Istruita la causa con le prove documentali (le lettere sopracitate), l’interrogatorio formale del convenuto e la testimonianza di Br.La., cugina dell’attrice, il Tribunale ha disatteso l’istanza di ammissione di consulenza tecnica d’ufficio ed ha rigettato la domanda in quanto non ha rinvenuto alcun elemento, nemmeno di natura indiziaria, relativo al presunto rapporto di filiazione tra B.G. e Br.Do., non potendosi dare rilievo alle dichiarazioni della madre, chiamata in causa dal B..

La Corte d’appello di Firenze, investita dell’impugnazione proposta da Br.Do., ha invece disposto la consulenza tecnica d’ufficio genetica, cui l’appellato ha rifiutato di sottoporsi per ragioni di salute. Con sentenza del 04/09/2015, in riforma della pronuncia di primo grado, la corte territoriale ha accolto la domanda di Br.Do. ed ha dichiarato la stessa figlia di B.G., disponendo le relative annotazioni a margine dell’atto di nascita.

In particolare la Corte territoriale ha rilevato, per quel che ancora interessa:

che l’ordinanza di ammissione della c.t.u. genetica non era viziata d’illegittimità in quanto essa trovava fondamento, da un lato, nell’esistenza di elementi di prova circa la sussistenza di una relazione tra lui e Br.Ma.Lu. in epoca compatibile con il concepimento; dall’altro, nella peculiarità dell’oggetto dell’accertamento, che richiede l’ausilio di specifiche indagini tecniche da parte di un accertamento peritale in funzione c.d. percipiente;

che il diniego opposto dal B. di sottoporsi ad esame peritale risultava ingiustificato anche alla luce del suo quadro clinico, attesa l’assoluta non invasività dell’indagine, consistente in un semplice prelievo salivare dalla mucosa boccale;

che tale rifiuto ingiustificato, valutato congiuntamente all’incontestata frequentazione tra il B. e Br.Ma.Lu. in epoca compatibile con il concepimento, integrava la prova della fondatezza della domanda di accertamento di paternità.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione, accompagnato da memoria ex art. 378 c.p.c., B.G.. Resiste con controricorso, anch’esso accompagnato da memoria, Br.Do..

Nel ricorso viene preliminarmente eccepita l’illegittimità costituzionale dell’art. 269 c.c., per contrasto con l’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’ingiustificata disparità del regime giuridico relativo alla maternità e alla paternità naturali. Infatti, mentre la donna può scegliere di non essere madre abortendo il feto ai sensi della L. n. 194 del 1978 o esercitando, alla nascita del figlio, il proprio diritto di rimanere anonima ai sensi del D.P.R. n. 396 del 2000, art. 30, l’uomo non ha diritto di scegliere di non essere padre, perchè non ha la possibilità di rimanere anonimo e non può sottrarsi all’azione di cui all’art. 269 c.c.. L’eccezione deve essere disattesa per manifesta infondatezza, in condivisione con quanto espresso sul punto dalle pronunce di questa Corte n. 12350 del 18/11/1992 e n. 3793 del 15/03/2002. Le situazioni della madre e del padre, che secondo il ricorrente sarebbero normativamente discriminate con asserita violazione del principio di eguaglianza ex art. 3 Cost., non sono paragonabili, perchè l’interesse della donna a interrompere la gravidanza ai sensi della L. n. 194 del 1978 o a rimanere anonima ai sensi del D.P.R. n. 396 del 2000, non può essere assimilato all’interesse di chi, negando la volontà diretta alla procreazione, pretenda di sottrarsi alla dichiarazione di paternità naturale. Non può pertanto lamentarsi alcuna disparità di trattamento, attesa la ragionevolezza della scelta legislativa di regolare in maniera differenziata situazioni tra loro diverse.

Il ricorrente censura altresì la sentenza impugnata con quattro motivi, deducendo:

1) nullità della sentenza per violazione e/o falsa applicazione degli artt. 118, 258, 260 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, perchè la Corte d’appello ha disposto l’esame genetico sul B. non con ispezione corporale ex art. 118 c.p.c., ma, illegittimamente, con consulenza tecnica d’ufficio, mancando di conseguenza di rispettare le garanzie che le norme processuali pongono a tutela della persona sottoposta a ispezione, in particolare i presupposti dell’indispensabilità dell’accertamento e dell’assenza di un grave danno per la parte. Tuttavia, pur non applicando dell’art. 118 c.p.c., comma 1, la sentenza applica illogicamente il secondo comma, utilizzando come argomento di prova il rifiuto di comparizione all’ispezione.

2) Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 118 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, perchè il secondo comma di detto articolo stabilisce che possono trarsi argomenti di prova dal rifiuto di consentire all’ispezione opposto dalla parte “senza giusto motivo”. La sentenza impugnata, oltre a non definire la clausola generale costituita dal “giusto motivo”, non ha dato alcun rilievo alle difficili condizioni di salute che impedivano al B. di sottoporsi all’esame, come attestato da due certificati medici. Dal combinato disposto dell’art. 30 Cost. , comma 4 (“la legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità”) e art. 32 Cost. (che riconosce il diritto fondamentale alla salute) ben può argomentarsi che il rispetto della salute psico-fisica del presunto padre è un limite che integra il “giusto motivo” ex art. 118 c.p.c., comma 2.

3) Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 196 e 356 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, perchè la Corte d’appello ha illegittimamente condiviso le conclusioni del c.t.u. sulla mancanza di un giusto motivo di rifiuto di sottoporsi all’esame biologico, malgrado il consulente stesso non abbia esaminato direttamente il ricorrente. Sarebbe stato necessario disporre una nuova c.t.u. per accertare se la sottoposizione del B. all’esame dovesse essere evitata per la sussistenza di un “grave danno” ex art. 118 c.p.c., comma 1, o fosse giustificato un suo rifiuto.

4) Omesso esame di un fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., n. 5, in relazione al comportamento processuale leale e collaborativo del B., che in primo grado ha chiamato in causa Br.Ma.Lu. e ha prodotto le lettere che gli erano state inviate. La Corte d’appello fonda la propria decisione unicamente sul rifiuto di sottoporsi all’esame biologico e sull’accertata frequentazione tra il B. e la Br. in epoca compatibile con il concepimento, ma omette di considerare il fatto decisivo costituito dal comportamento del ricorrente.

Il primo motivo è infondato.

Nei giudizi promossi per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale l’esame genetico sul presunto padre si svolge mediante consulenza tecnica c.d. percipiente, ove il consulente nominato dal giudice non ha solo l’incarico di valutare i fatti accertati o dati per esistenti, ma di accertare i fatti stessi. E’ necessario e sufficiente in tal caso che la parte deduca il fatto che pone a fondamento del suo diritto e che il giudice ritenga che l’accertamento richieda specifiche cognizioni tecniche, perchè la consulenza costituisca essa stessa fonte oggettiva di prova (Cass. n. 6155 del 13/03/2009, n. 4792 del 26/02/2013). Nei giudizi in questione tale mezzo istruttorio rappresenta, dati i progressi della scienza biomedica, lo strumento più idoneo, avente margini di sicurezza elevatissimi, per l’acquisizione della conoscenza del rapporto di filiazione naturale, e con esso il giudice accerta l’esistenza o l’inesistenza di incompatibilità genetiche, ossia un fatto biologico di per sè suscettibile di rilevazione solo con l’ausilio di competenze tecniche particolari (Cass. n. 14462 del 29/05/2008). Al contrario, gli artt. 118, 258 e 260 c.p.c., di cui il ricorrente asserisce la violazione, attengono all’ispezione corporale e sono pertanto estranei all’accertamento tecnico in questione, non costituendo il prelievo ematico (al pari del prelievo di saliva dalla mucosa buccale) un’ispezione corporale, ma un mezzo necessario per l’espletamento della consulenza genetica ed ematologica (Cass. n. 8733 del 09/04/2009).

Di conseguenza, priva di pregio è la censura di violazione di legge per aver fatto la sentenza impugnata applicazione dell’art. 118 c.p.c., comma 2, che dispone che il giudice possa “desumere argomenti di prova” dal rifiuto ingiustificato di eseguire l’ordine di ispezione, pur senza aver applicato il comma 1, che disciplina le forme e le garanzie del subprocedimento istruttorio di ammissione e assunzione dell’ispezione giudiziale. In realtà il diniego opposto dal B. rispetto all’indagine genetica disposta dalla Corte d’appello è stato considerato, unitamente ad altri elementi, come contegno processuale valutabile dal giudice ai sensi dell’art. 116 c.p.c., comma 2, alla stregua di argomento di prova (a pag. 7 della sentenza si legge infatti che “il comportamento difensivo della parte risulta suscettibile di valutazione ex art. 116 c.p.c.”). Con particolare riferimento alla materia de qua giurisprudenza consolidata, invero, ammette che il contegno processuale possa di per sè solo costituire la base di un ragionamento presuntivo e assurgere così a fondamento della decisione del giudice (ex multis, Cass. n. 9307 del 19/09/1997, n. 3976 del 19/03/2002, n. 18224 del 22/08/2006, n. 12971 del 24/07/2012).

Anche il secondo motivo è infondato.

Non è censurabile la sentenza impugnata per aver ritenuto ingiustificato il rifiuto del B. di sottoporsi all’esame genetico anche a fronte dei certificati medici attestanti il suo impedimento a sottoporsi ad accertamenti clinici ed ematologici. Del tutto correttamente la Corte territoriale ha condiviso, al riguardo, la valutazione del consulente tecnico d’ufficio che ha spiegato in modo esauriente che non di “accertamento clinico” o “esame ematologico” si trattava, ma di un semplice prelievo salivare eseguito mediante strofinamento di un tampone all’interno della bocca, rispetto a cui i suddetti certificati medici non segnalavano nessun tipo di specifica controindicazione. Pienamente condivisibile e del tutto adeguatamente argomentata l’esclusione del rilievo dei disturbi ansiosi-depressivi di cui il B. è affetto rispetto all’esame da svolgere, essendo tali disturbi legati all’esito complessivo del giudizio e non ad una specifica scansione processuale, come insindacabilmente accertato nella sentenza impugnata.

Il terzo motivo, con cui il ricorrente lamenta il mancato espletamento di un’ulteriore consulenza tecnica d’ufficio volta ad accertare ex ante la sussistenza del “grave danno” ex art. 118 c.p.c., derivante dalla sottoposizione del B. all’esame genetico, è manifestamente infondato in quanto, come illustrato supra, non di ispezione corporale si tratta, ma di consulenza tecnica (artt. 191 c.p.c. e segg.), per cui l’applicazione dell’art. 118 c.p.c., non è in questione. A identico rilievo soggiace la doglianza circa il mancato espletamento di una consulenza tecnica volta a verificare ex post la legittimità del rifiuto di sottoporsi all’esame. A tacere del fatto che non risulta che l’odierno ricorrente abbia formulato nel giudizio di merito alcuna specifica istanza in tal senso (il che introduce un profilo d’inammissibilità), deve sottolinearsi che la c.t.u. è un mezzo istruttorio rimesso all’apprezzamento officioso del giudice di merito, esercizio di una facoltà discrezionale (ex multis, Cass. n. 6144 del 13/03/2009). Vero è che, come spiegato nella sentenza richiamata dal ricorrente (Cass. n. 10894 dell’11/05/2007), tale potere discrezionale è censurabile in sede di legittimità ove la motivazione della sentenza sia affetta da vizi logici e giuridici, ma non è evidentemente questo il caso, mancando a monte (come rilevato pure a p. 34 del controricorso e non contrastato dal ricorrente nella memoria depositata) una qualsivoglia istanza di integrazione o rinnovazione della c.t.u. su cui il giudice avrebbe dovuto esprimersi.

Il quarto ed ultimo motivo, con cui il ricorrente si duole dell’omesso esame del proprio comportamento processuale leale e collaborativo, è inammissibile perchè mira a censurare nel merito l’accertamento dei fatti posto dalla Corte d’appello a fondamento della propria decisione. E’ pacifico, invero, che sia devoluta al giudice del merito l’individuazione delle fonti del proprio convincimento, e pertanto anche la valutazione delle prove, il controllo della loro attendibilità e concludenza, nonchè la scelta, fra le risultanze istruttorie, di quelle ritenute idonee ad acclarare i fatti oggetto della controversia, con l’unico limite dell’adeguata e congrua motivazione del criterio adottato (Cass. n. 9032 del 07/04/2017).

Nella specie, il ragionamento decisorio della sentenza impugnata è congruamente motivato e risulta privo di vizi logici e giuridici: rilievo fondamentale ha assunto l’ingiustificato rifiuto del B. di sottoporsi all’accertamento genetico, fatto dotato di così elevato valore indiziario da poter costituire esso solo la dimostrazione della fondatezza della domanda ex art. 269 c.c. (Cass. n. 6025 del 25/03/2015). Unitamente a ciò la Corte territoriale ha valutato la circostanza (incontestata) che il B. e la Br. si fossero frequentati in epoca compatibile con il concepimento, nonchè la testimonianza di Br.La., cugina dell’odierna controricorrente, la quale ha dichiarato essere noto in famiglia che la zia all’epoca avesse avuto una relazione con una persona molto più giovane di lei, quale poteva essere il B.. Peraltro, anche la condotta stragiudiziale dello stesso, consistente nell’aver ignorato le lettere inviategli da Br.Ma.Lu. e Do., è stata valorizzata, insindacabilmente, trattandosi di valutazione dei fatti, dal giudice di merito come ulteriore indizio del suo atteggiamento elusivo dell’accertamento dei fatti.

Per i rilievi che precedono il ricorso deve essere rigettato. Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo.

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 5000 per compensi, Euro 200 per esborsi, oltre accessori di legge.

In caso di diffusione omettere le generalità e i riferimenti geografici.

Si dà atto della sussistenza dei presupposti del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, ai fini del versamento da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale.

Così deciso in Roma, nella Camera di coniglio, il 30 marzo 2017.

Depositato in Cancelleria il 1 giugno 2017

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