Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13872 del 06/07/2020

Cassazione civile sez. III, 06/07/2020, (ud. 12/02/2020, dep. 06/07/2020), n.13872

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 17188/2018 proposto da:

M.A., M.L., M.M., domiciliati ex lege

in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE,

rappresentati e difesi dall’avvocato ALESSANDRA COLAO;

– ricorrenti –

contro

AZIENDA OSPEDALIERA UNIVERSITARIA (OMISSIS), in persona del Direttore

della U.O. Affari Generali, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

CAIO MARIO 27, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO ALESSANDRO

MAGNI, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 674/2018 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 22/03/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

12/02/2020 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. M.M., A. e L., in proprio, nonchè quali successori nel processo di M.R., deceduto nelle more del giudizio di primo grado, ricorrono, sulla base di due motivi, per la cassazione della sentenza n. 674/18, del 22 marzo 2018, della Corte di Appello di Firenze, che – accogliendo il gravame esperito dall’Azienda Ospedaliera Universitaria (OMISSIS) (d’ora in avanti, “Azienza Ospedaliera”), avverso la sentenza n. 3396/14, del 3 novembre 2014, del Tribunale di Firenze – ha rigettato la domanda proposta dagli odierni ricorrenti volta a far accertare la responsabilità della predetta Azienda Ospedaliera, in relazione al decesso della proprio congiunta, T.L..

2. Riferiscono, in punto di fatto, i ricorrenti di aver convenuto in giudizio – in origine, insieme al loro padre, M.R. – la predetta Azienda Ospedaliera, lamentando che, in data (OMISSIS), T.L. (madre degli odierni ricorrenti e moglie di M.R.), ricoverata in attesa dell’esecuzione di un intervento di chirurgico di sostituzione di valvola mitrale, era deceduta a causa di un “violento shock emorragico”, in occasione di un intervento di taracotomia, resosi necessario a seguito dell’insorgenza di “emotorace massivo a destra”.

Assumevano, in particolare, gli allora attori che la morte della paziente era da ricondurre alla condotta colposa dei sanitari dell’Azienda Ospedaliera, i quali, dopo aver eseguito manovra di toracentesi per versamento pleurico, non avrebbero effettuato gli opportuni controlli successivi, omettendo di diagnosticare tempestivamente l’emotorace massivo che condusse la paziente alla morte. Radicato il giudizio, lo stesso veniva istruito anche a mezzo di CTU medico-legale, la quale, pur dando atto degli inadempimenti e dei ritardi compiuti dai sanitari, concludeva nel senso di non poter stabilire con certezza il rapporto eziologico tra la toracentesi espletata dai sanitari e l’emotorace massivo insorto, soggiungendo che l’evoluzione del quadro clinico non consentiva di affermare che un eventuale esame radiologico avrebbe evidenziato elementi tali da far supporre un’emorragia. Inoltre, l’errore commesso in sede di perizia autoptica, che ravvisava la causa della morte nello sfiancamento globale del cuore da anemia acuta metaemorragica, addebitandolo all’operazione di sostituzione della valvola mitrale (intervento, in realtà, programmato per il (OMISSIS), e dunque mai eseguito, essendo la T. deceduta il giorno precedente), veniva attribuito ad un mero difetto di comunicazione tra medici.

Il primo giudice accoglieva la domanda risarcitoria, pervenendo a tale conclusione sul presupposto che la relazione causa-effetto tra la toratocentesi e l’emotorace – sebbene la CTU avesse escluso la possibilità di affermarla con certezza – fosse, in mancanza di qualunque ipotesi alternativa, “l’unica sul tavolo”, ed inoltre che, “rispetto ad essa”, non risultava fornita prova, “che incombeva a parte convenuta”, della “inevitabilità della lacerazione, o per lo meno della corretta esecuzione della toratocentesi”.

Su gravame dell’Azienda Ospedaliera, il giudice d’appello riformava “in toto” la sentenza di primo grado, ritenendo insussistente la prova del nesso eziologico tra la condotta dei sanitari e il decesso della paziente, nonchè del carattere illecito della condotta dei medici, anche omissiva.

3. Avverso la decisione della Corte toscana hanno proposto ricorso per cassazione i germani M., sulla base – come detto di due motivi.

3.1. Con il primo motivo – proposto a norma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – si deduce la violazione degli artt. 2697,1218,1176 e 2236 c.c. e dell’art. 116 c.p.c., laddove il giudice d’appello ha ritenuto non raggiunta la prova in ordine al nesso di causalità e al carattere lesivo dell’operato medico (in relazione sia all’esecuzione della manovra di toracentesi, sia all’omesso esame radiologico successivo alla predetta manovra).

A ben vedere, il presente motivo si compone di una pluralità di doglianze.

Anzitutto, si censura l’errata distribuzione dell’onere probatorio tra le parti del giudizio, paziente (o, per esso, come nel caso di specie, i suoi eredi) e struttura ospedaliera, laddove il giudice d’appello ha posto in capo alla parte attrice l’onere di provare la sussistenza del nesso di causa tra la condotta del sanitario e il danno lamentato, dovendo, invece, essa limitarsi ad allegare un inadempimento qualificato del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato.

Inoltre, i ricorrenti lamentano la violazione delle norme e dei principi che regolano l’accertamento delle cause e (soprattutto) delle concause di un evento, nella parte in cui la sentenza ha affermato che non vi fossero elementi per “stabilire con certezza un rapporto di causa effetto tra la toracentesi e la comparsa di un emotorace”, e ciò “non potendosi escludere altre possibili cause alternative del decesso, stante le critiche condizioni di salute della T.”, rispetto a quella della lacerazione di un vaso sanguigno. La Corte territoriale, da un lato, non avrebbe applicato il principio del “più probabile che non” ai fini dell’accertamento dell’efficienza eziologica della condotta della convenuta, richiedendo, al contrario, un insolito grado di certezza nella causazione dell’evento, dall’altro, avrebbe individuato delle ipotetiche concause o cause alternative al decesso, mai allegate nè provate da alcuno, formulando una mera congettura. Inoltre, essa avrebbe fatto, erroneamente, ricadere sul danneggiato le conseguenze dell’incertezza circa l’accertamento del nesso di causa.

Si censura, poi, la sentenza della Corte toscana laddove ha escluso la lesività della condotta omissiva dei sanitari (consistita nella mancata esecuzione della radiografia di controllo post toracentesi, di norma eseguita ad un’ora di distanza dalla manovra stessa), in quanto, accedendo alle conclusioni della CTU (che pure ritiene “sicuramente censurabile la mancata esecuzione del controllo radiologico”), ha affermato che, anche nell’ipotesi in cui la radiografia fosse stata eseguita, non è certo che essa avrebbe evidenziato l’emorragia in atto. Pure in questo caso la sentenza avrebbe errato nella ripartizione dell’onere probatorio, dovendo porre a carico della struttura sanitaria l’onere di provare che l’esame omesso avrebbe dato un risultato negativo.

Infine, i ricorrenti censurano la sentenza laddove ha escluso il carattere lesivo della condotta dei sanitari, sul rilievo che dall’esame della cartella clinica è emerso il costante monitoraggio della paziente.

3.2. Con il secondo motivo – proposto a norma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – si deduce la violazione degli artt. 2697,1218,1176 e 2236 c.c. e dell’art. 116 c.p.c., laddove la sentenza ha gravato i danneggiati della prova della colpa medica.

I ricorrenti ritengono che il giudice d’appello avrebbe dovuto porre a carico della struttura sanitaria l’onere di provare di aver adempiuto diligentemente le proprie obbligazioni, ovvero di aver eseguito correttamente la toracentesi.

4. L’Azienda Ospedaliera ha resistito, con controricorso, all’avversaria impugnazione, chiedendone la declaratoria di inammissibilità ovvero, in subordine, di infondatezza.

Quanto al primo motivo di ricorso, esso sarebbe inammissibile, in quanto si risolverebbe in una critica dell’accertamento in fatto compiuto dal giudice di merito; insindacabile in sede di legittimità: Inoltre, la censura relativa all’errata ripartizione dell’onere probatorio sarebbe infondata alla luce degli insegnamenti di questa Corte (si richiama Cass. Sez. 3, sent. 19 luglio 2018, n. 19204).

In relazione al secondo motivo di ricorso, si osserva che esso finisce per censurare un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa, travolgendo, dunque, l’apprezzamento compiuto dal giudice in ordine alle stesse.

5. Entrambe le parti hanno presentato memoria, insistendo nelle rispettive argomentazioni.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

6. Il ricorso va accolto, per quanto di ragione.

7. Il primo motivo di ricorso è fondato, nei limiti di cui si dirà, ovvero in relazione alla censura di violazione dei principi in tema di ricostruzione del nesso causale.

7.1. Quanto, infatti, alla censura concernente la ripartizione dell’onere probatorio del nesso causale tra paziente danneggiato (o, come nella specie, i suoi eredi) e struttura sanitaria, va ribadito – nel senso della sua infondatezza – che, nei giudizi risarcitori da responsabilità sanitaria, si delinea “un duplice ciclo causale, l’uno relativo all’evento dannoso, a monte, l’altro relativo all’impossibilità di adempiere, a valle”. Orbene, il primo, “quello relativo all’evento dannoso, deve essere provato dal creditore/danneggiato, il secondo, relativo alla possibilità di adempiere, deve essere provato dal debitore/danneggiante. Mentre il creditore deve provare il nesso di causalità fra l’insorgenza (o l’aggravamento) della patologia”, ovvero la morte, “e la condotta del sanitario (fatto costitutivo del diritto), il debitore deve provare che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile la prestazione (fatto estintivo del diritto)” (così, in motivazione, tra le altre, Cass. Sez. 3, sent. 26 luglio 2017, n. 18392, Rv. 645164-01).

Ne consegue, dunque, che “la causa incognita resta a carico dell’attore relativamente all’evento dannoso, resta a carico del convenuto relativamente alla possibilità di adempiere. Se, al termine dell’istruttoria, resti incerti la causa del danno o dell’impossibilità di adempiere, le conseguenze sfavorevoli in termini di onere della prova gravano rispettivamente sull’attore o sul convenuto. Il ciclo causale relativo alla possibilità di adempiere acquista rilievo solo ove risulti dimostrato il nesso causale fra evento dannoso e condotta del debitore. Solo una volta che il danneggiato abbia dimostrato che l’aggravamento della situazione patologica (o l’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento)”, ovvero la morte del paziente, “è causalmente riconducibile alla condotta dei sanitari sorge per la struttura sanitaria l’onere di provare che l’inadempimento, fonte del pregiudizio lamentato dall’attore, è stato determinato da causa non imputabile” (così, nuovamente, Cass. Sez. 3, sent. n. 18392 del 2017, cit.; nello stesso senso anche Cass. Sez. 3, sent. 4 novembre 2017, n. 26824, non massimata; Cass. Sez. 3, sent. 7 dicembre 2017, n. 29315, Rv. 646653-01; Cass. Sez. 3, sent. 15 febbraio 2018, n. 3704, Rv. 647948-01; Cass. Sez. 3, ord. 23 ottobre 2018, n. 26700, Rv. 651166-01, nonchè, da ultimo, Cass. Sez. 3, sent. 11 novembre 2019, n. 28991, Rv. 655828-01).

Si tratta, peraltro, di conclusione – come è stato di recente sottolineato – che tiene conto della peculiare configurazione che il “sottosistema” della responsabilità per attività sanitaria riveste nell’ambito del sistema “generale” della responsabilità contrattuale.

Se, invero, nell’ambito di quest’ultimo, la “causalità materiale, pur teoricamente distinguibile dall’inadempimento per la differenza fra eziologia ed imputazione, non è praticamente separabile dall’inadempimento, perchè quest’ultimo corrisponde alla lesione dell’interesse tutelato dal contratto e dunque al danno evento”, non altrettanto può dirsi in ambito di responsabilità sanitaria, giacchè nel “diverso territorio del “tacere” professionale la causalità materiale torna a confluire nella dimensione del necessario accertamento della riconducibilità dell’evento alla condotta”. Qui, infatti, “l’interesse corrispondente alla prestazione è solo strumentale all’interesse primario del creditore” (che, nel caso del “facere” professionale del sanitario, è quello alla guarigione), giacchè oggetto della prestazione sanitaria è solo “il perseguimento delle “leges artis” nella cura dell’interesse del creditore” (o, altrimenti detto, il diligente svolgimento della prestazione professionale), di talchè, il “danno evento in termini di aggravamento della situazione patologica o di insorgenza di nuove patologie attinge non l’interesse affidato all’adempimento della prestazione professionale, ma quello presupposto corrispondente al diritto alla salute”. Ne consegue, pertanto, che non essendo l’aggravamento della situazione patologica o l’insorgenza di nuove patologie (ovvero la morte) “immanenti alla violazione delle “leges artis””, potendo “avere una diversa eziologia”, all’onere del creditore/danneggiato “di allegare la connessione puramente naturalistica fra la lesione della salute, in termini di aggravamento della situazione patologica o insorgenza di nuove patologie, e la condotta del medico”, si affianca – “posto che il danno evento non è immanente all’inadempimento”, anche quello “di provare quella connessione” (così Cass. Sez. 3, sent. n. 28991 del 2019, cit.).

Da quanto precede, dunque, deriva che – nel caso che occupa l’onere di provare il nesso tra la morte della T. e la condotta dei medici dell’Azienda Ospedaliera gravava sui suoi eredi, già attori ed odierni ricorrenti, sicchè, solo una volta assolto tale onere, assume rilievo quello della convenuta di dimostrare che l’inadempimento, fonte del pregiudizio lamentato dagli attori, è stato determinato da causa ad essa non imputabile.

Tali rilievi, tuttavia, se comportano il rigetto della prima censura in cui si articola il primo motivo di ricorso non pregiudicano l’esito dell’impugnazione proposta dai germani M..

7.2. Diverso, infatti, è l’esito della seconda censura in cui si articola il primo motivo di ricorso, ovvero quella di violazione della “regula iuris” relativa al riscontro del nesso di causalità materiale tra condotta del sanitario ed evento dannoso.

Si legge, infatti, nella sentenza impugnata – che recepisce, sul punto, le conclusioni della CTU – che l’esistenza di tale nesso, nella specie, è stata esclusa in assenza di elementi “che permettano (…) di stabilire con certezza un rapporto di causa effetto tra la toracentesi e la comparsa dell’emotorace” (fatto, quest’ultimo, certamente all’origine del decesso per “shock emorragico”). La sentenza, anzi, addirittura aggiunge che “il mancato riconoscimento di una lesione vascolare in sede operatoria” (omissione che l’ausiliario del giudice attribuisce alla necessità, per i sanitari, di concentrare tutti i loro sforzi, in quel momento, nel tentativo di salvare la vita del paziente), nonchè in sede autoptica – circostanza, per inciso, assai meno giustificabile, giacchè frutto di una grossolana superficialità, in quanto si è “supposta” la causa dell’emorragia nell’intervento di sostituzione della valvola mitrale solo programmato, ma in realtà mai effettuato, visto che il decesso della paziente precedette la sua esecuzione – si sono posti come “elementi che impediscono di stabilire in maniera inequivocabile che la causa dell’emotorace sia stata la toracentesi”.

Sul punto va, in primo luogo, respinta l’eccezione di inammissibilità della censura sollevata dalla controricorrente, secondo cui la doglianza tenderebbe ad una rivalutazione delle risultanze istruttorie.

Al riguardo, per contro, appare necessario rammentare che “l’errore compiuto dal giudice di merito nell’individuare la regola giuridica in base alla quale accertare la sussistenza del nesso causale tra fatto illecito ed evento è censurabile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”, restando, invece, inteso che “l’eventuale errore nell’individuazione delle conseguenze che sono derivate dall’illecito, alla luce della regola giuridica applicata, costituisce una valutazione di fatto, come tale sottratta al sindacato di legittimità, se adeguatamente motivata” (Cass. Sez. 3, sent. 25 febbraio 2014, n. 4439, Rv. 630127-01).

La censura degli odierni ricorrenti investe il primo di tali profili, visto che si addebita alla Corte territoriale di non aver applicato il principio del “più probabile che non”, ai fini della ricostruzione dell’efficienza eziologica della condotta della convenuta, avendo, anzi, essa addirittura applicato una regola probatoria che esige un “inedito” grado di certezza nella causazione dell’evento.

7.2.1. Tale doglianza è, come già rilevato, fondata.

7.2.1.1. Per pervenire a tale conclusione, tuttavia, appare necessario muovere da alcune, indispensabili, premesse.

In via preliminare, va qui evidenziato come – nel “territorio” della responsabilità civile, ampiamente intesa (ovvero come nozione comprensiva della responsabilità da fatto illecito ex art. 2043 c.c., non meno che da inadempimento contrattuale) – la verifica del nesso di causalità, tra la condotta del presunto danneggiante e l’evento di danno lamentato dal preteso danneggiato, costituisca, realmente, per riprendere un’ormai classica espressione della letteratura giuridica sul tema, un “cespuglio spinoso”.

La presente non è, certo, la sede per ripercorrere l’estrema complessità che il tema della causalità – prima ancora che sul piano giuridico, su quello epistemologico (se non filosofico “tout court”) ha, da sempre, rivelato. Si potrà, qui, solo accennare – sulla scorta di una rielaborazione del tema operata da una autorevole dottrina processualcivistica – come, secondo alcuni approdi della filosofia della scienza, la nozione di causa possa essere intesa, in una prospettiva cognitivistica, alla stregua di un “idealized cognitive model”, ovvero di una “modalità tipizzata con cui la mente umana organizza la conoscenza di eventi, persone e oggetti, e delle loro relazioni caratteristiche, in strutture che risultano significative nel loro insieme”. Analogamente, del resto, la causalità è ricostruita secondo un’impostazione in cui riecheggia la concezione humiana del nesso causale quale meccanismo psicologico, o meglio, specifica attitudine della mente (“la sola che possa spingersi al di là dei sensi, ed informarci dell’esistenza di oggetti che non vediamo nè sentiamo”) a stabilire una connessione regolare tra accadimenti – come, appunto, un “modello mentale”, utilizzato per interpretare i dati dell’esperienza.

Tuttavia, quanto qui interessa è – naturalmente – la nozione di causalità rilevante per il (ed agli effetti del) diritto, e ciò con particolare riferimento al sistema della responsabilità civile, ove la causalità assolve “alla duplice finalità di fungere da criterio di imputazione del fatto illecito e di regola operativa per il successivo accertamento dell’entità delle conseguenze pregiudizievoli del fatto che si traducono in danno risarcibile” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 16 ottobre 2007, n. 21619, Rv. 599816-01). Esistono, infatti, nella ricostruzione, a tali fini, del nesso causale – secondo le indicazioni fornite dalle Sezioni Unite di questa Corte – “due momenti diversi”, ovvero “la costruzione del fatto idoneo a fondare la responsabilità” (vale a dire, il momento della ricostruzione della “causalità materiale o di fatto”, altrimenti definita pure come “Haftungsbegrundende Kausalitat”), e “la successiva determinazione dell’intero danno cagionato, che costituisce l’oggetto dell’obbligazione risarcitoria”, ovvero l’operazione che, “collegando l’evento al danno, consente l’individuazione delle singole conseguenze dannose, con la precipua funzione di delimitare, a valle, i confini di una (già accertata) responsabilità risarcitoria”, ovvero il momento dell’apprezzamento della cosiddetta “causalità giuridica”, della “Haftungsausfullende Kausalitat”, nel quale un ruolo rilevate è svolto dall’art. 1223 c.c. (così, in motivazione, Cass. Sez. Un., sent. 11 gennaio 2008, n. 576, Rv. 600899-01; nello stesso senso, sempre in motivazione, già Cass. Sez. 3, sent. 21619 del 2007, cit., mentre per l’applicazione successiva di tali principi si vedano, nuovamente in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 21 luglio 2011, n. 15991, Rv. 618882-01, nonchè, più di recente, Cass. Sez. 3, sent. 21 gennaio 2020, n. 1164, Rv. 656634-01).

A venire in rilievo, nel caso oggetto del presente giudizio di legittimità (o meglio, nello scrutinio della censura che qui, partitamente, si esamina), è il primo di tali momenti.

7.2.1.2. Ciò premesso, va ulteriormente precisato – ancora una volta, sulla scorta dei “dicta” delle Sezioni Unite di questa Corte – che la ricostruzione della “problematica causale”, con riferimento alla suddetta “causalità materiale o di fatto, presenta rilevanti analogie con quella penale, artt. 40 e 41 c.p.”, giacchè “il danno rileva solo come evento lesivo” (così, in motivazione, Cass. Sez. Un., sent. n. 576 del 2008; per l’applicazione degli artt. 40 e 41 c.p., al nesso di causalità materiale dell’illecito civile si vedano anche Cass. Sez. 3, sent. 11 maggio 2009, n. 10741, Rv. 608391-01; Cass. Sez. 3, sent. 8 luglio 2010, n. 16123, Rv. 613967-01; Cass. Sez. 3, ord. 12 aprile 2011, n. 8430, Rv. 616864-01). Sino a che punto, tuttavia, possa predicarsi siffatta “analogia”, è quanto ha formato oggetto di puntualizzazione da parte della giurisprudenza di questa Corte, culminata nel riconoscimento di un criterio di ricostruzione del nesso causale – definito della “preponderanza dell’evidenza” (o anche del “più probabile che non”) – differente da quello, “oltre ogni ragionevole dubbio”, utilizzato nel sistema della responsabilità penale.

L’esito di tale percorso – dei cui effetti, rispetto al caso qui in esame, si dirà meglio di seguito – richiede, tuttavia, ulteriori puntualizzazioni.

Invero, si è già sottolineata, in passato, da parte di questa Corte, la natura “muta” della dizione contenuta nell’art. 40 c.p., giacchè essa – nello stabilire che l’evento dannoso o pericoloso deve porsi come “conseguenza” dell’azione o omissione del soggetto “candidato” al riconoscimento della responsabilità – non enuncerebbe, in realtà, “alcuna “regola” causale”, risolvendosi in “una mera enunciazione lessicale”, e ciò “se per regola correttamente si intende una proposizione che offre risposta al triplice interrogativo “quando, come, perchè”” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 17 settembre 2013, n. 21255, Rv. 628702-01). D’altra parte, quello di “conseguenza” – come è stato evidenziato, di recente, da un’attenta dottrina civilistica – “non è un concetto normativo e, dunque, rinvia a saperi extragiuridici”, sui quali “il diritto poi interviene con proprie autonome scelte di fondo che conducono alla rielaborazione in termini giuridici delle conclusioni offerte dall’applicazione del sapere extragiuridico cui, di volta in volta, si è attinto”. In questa stessa prospettiva teorica, dunque, la “causalità materiale” (o “di fatto”), si rivelerebbe essa stessa una “formula decettiva perchè suggerisce, in maniera contraria al vero, che si sia in presenza di una nozione pregiuridica, mentre si è al cospetto di un concetto normativo con aperture extrasistemiche che scaturisce dalla riformulazione giuridica di saperi che appartengono a sistemi normativi diversi dal diritto”. Non è, pertanto, un caso se le stesse ricostruzioni dommatiche e giurisprudenziali, che pure, “in applicazione dei principi penalistici, di cui agli artt. 40 e 41 c.p., ritengono che un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (cd. teoria della “condicio sine qua non”)” (così, nuovamente, Cass. Sez. Un., n. 576 del 2008, cit., che, peraltro, precisa come il principio dell’antecedente necessario trovi “il suo temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dell’art. 41 c.p., comma 2”, norma che ha la funzione di escludere il rilievo eziologico di quegli antecedenti che si collocano “fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto”), reputino di dover ricostruire il nesso di causalità materiale in base alla cd. teoria condizionalistica, “corretta” secondo il metodo della sussunzione sotto leggi scientifiche.

E’, quest’ultimo, un modello ricostruttivo in base al quale la relazione intercorrente tra due accadimenti viene – per richiamare la dottrina processualistica già in precedenza citata – “provata in via inferenziale, ossia dimostrando che esiste una legge “di copertura” riferibile al caso di specie”; un modello detto anche “nomologico-deduttivo”, in quanto l’inferenza “è “nomologica” perchè si fonda su una legge di copertura, ed è “deduttiva” perchè questa legge di copertura è – almeno in linea di principio – generale, e quindi include il caso particolare che è oggetto di considerazione”.

7.2.1.3. Senonchè, proprio seguendo una simile impostazione come sottolinea la dottrina civilistica, di cui pure si diceva – il tema della ricostruzione del nesso di causalità finisce, nuovamente, per “coinvolgere anche il problema epistemologico dei limiti della conoscenza scientifica”.

Invero, secondo quanto rilevato nuovamente – tra le altre – dalla dottrina da ultimo menzionata, la “rivoluzione realizzata dalla teoria eisteiniana della relatività, con la sua ridefinizione della concezione del tempo e della successione degli eventi”, in uno con lo sviluppo della “meccanica quantistica, la quale ha condotto al riconoscimento della natura statistica delle leggi ultime dei processi elementari”, costituiscono altrettanti fattori di un vero e proprio rovesciamento della nozione stessa di scoperta scientifica (o meglio, della sua “logica”). Ne è derivato, infatti, un nuovo paradigma, nel quale, al concetto di “verità” dell’ipotesi scientifica, è subentrato quello di “non falsificabilità” della stessa.

Orbene, “in un contesto epistemologico nel quale la scienza non è più sicura di sè e delle sue leggi” – per dirla con un autorevole dottrina civilistica – “la causalità da risultanza naturalistica o di esperienza, a seconda del contesto filosofico nel quale essa può essere innestata”, risulterebbe scadere “a mera valutazione assistita dal riferimento statistico”, sicchè non più di “causalità” in senso proprio sarebbe lecito discorrere, bensì di “un criterio ideale di collegamento tra fatti che mima quello causale, ma invece di accertarlo lo considera “als ob”, come se, in base a una valutazione che non è l’esito di una ricognizione puramente naturalistica, bensì un giudizio squisitamente orientato alla soluzione del problema di responsabilità”. Tale, dunque, sarebbe l’esito “inevitabile”, dell’avvenuta “assimilazione, all’interno della categoria “leggi scientifiche” delle leggi universali e delle leggi statistiche, in base all’idea che “tutte le leggi scientifiche debbono essere considerate probabilistiche””.

A tale ordine di considerazioni non è rimasta estranea neppure la giurisprudenza di questa Corte, la quale ha, da tempo, osservato che “lo stesso sintagma “accertamento del nesso causale” cela una prima, latente, insidia lessicale, dacchè ogni “accertamento” postula e tende ad una operazione logico-deduttiva o logico-induttiva che conduca ad una conclusione, appunto, “certa”; mentre un’indagine, per quanto rigorosa, funzionale a predicarne l’esistenza sul piano del diritto, si arresta, sovente, quantomeno in sede civile, sulle soglie del giudizio probabilistico (sia pur connotato da un diverso livello di intensità, dalla “quasi certezza” alla “seria ed apprezzabile possibilità)” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. n. 21619 del 2007, cit., nonchè, in senso analogo e sempre in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. n. 15991 del 2011, cit.).

Ciò, tuttavia, non equivale – come si è addebitato a questa Corte – ad una “svalutazione” del sapere scientifico, e quindi dell’apporto che esso è in grado di fornire, proprio in relazione alla ricostruzione di quell’elemento della fattispecie della responsabilità civile che è costituito dal nesso causale. Per contro, e specificamente nell’ambito del sottosistema della responsabilità da malpractice sanitaria (che viene in rilievo nel presente caso), questa Corte ha sottolineato la centralità dei saperi scientifici, dei quali il giudice può fruire pure attraverso il contributo di quell’ausiliario qualificato che è il consulente tecnico d’ufficio. Si è, infatti, affermato che, in materia di responsabilità sanitaria, “la consulenza tecnica è di norma “consulenza percipiente” a causa delle conoscenze tecniche specialistiche necessarie, non solo per la comprensione dei fatti, ma per la rilevabilità stessa dei fatti, i quali, anche solo per essere individuati, necessitano di specifiche cognizioni e/o strumentazioni tecniche; atteso che, proprio gli accertamenti in sede di consulenza, offrono al giudice il quadro dei fattori causali entro il quale far operare la regola probatoria della certezza probabilistica per la ricostruzione del nesso causale” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 20 ottobre 2014, n. 22225, Rv. 632945-01).

Il riconoscimento del carattere (spesso) soltanto “relativo” delle “certezze” espresse dalle leggi scientifiche, pertanto, non vuole – nè può essere – l’adesione a quel modello ricostruttivo, pure proposto da autorevole dottrina, soprattutto penalistica, e un tempo recepito anche dalla giurisprudenza civile di questa Corte (si veda, a titolo di esempio, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 28 aprile 1994, n. 4440), che affida la ricostruzione del nesso causale alla “certezza morale” del giudicante in ordine alla sussistenza di una legge di copertura, in grado di spiegare l’efficienza eziologica della condotta del (presunto) danneggiante. Una simile impostazione, nella quale riecheggia la teoria della “intime conviction du juge” di certa letteratura giuridica d’oltralpe, presta il fianco, infatti, alla facile obiezione – espressa dalla dottrina processuale, qui già più volte richiamata – secondo cui “non è chiaro il significato dell’aggettivo “morale”, riferito al convincimento del giudice intorno all’esistenza di una legge causale”, giacchè, se la ricostruzione del nesso di causalità pone “problemi di prova, e quindi di carattere conoscitivo, non è facile intendere quale possa essere la “moralità” del convincimento del giudice”.

In definitiva, come osserva sempre questa stessa dottrina, il problema della causalità materiale, si risolve nella “dimostrazione probatoria della verità di un enunciato”, ovvero quello che “descrive un nesso di causalità naturale e specifica” tra la condotta del supposto danneggiante e l’evento lesivo lamentato dal preteso danneggiato, sicchè, in ultima analisi, il cuore della questione consiste nell’individuare “i criteri secondo i quali il giudice, in presenza di elementi di prova che riguardano l’enunciato relativo all’esistenza di un nesso causale, stabilisce se tale enunciato ha o non ha ricevuto una adeguata conferma probatoria”. Come osservato da questa Corte, la verifica della sussistenza del nesso causale non è più “soltanto questione di ricostruzione dei fatti nel loro svolgersi fenomenologico, ma sempre ed anche vicenda “giuridica”, cioè questione anche di diritto, e, più precisamente, vero e proprio ragionamento probatorio sui fatti, allegati e non, dimostrati e non” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. n. 15991 del 2011, cit.).

Ragionamento da compiersi, evidentemente, in applicazione dell’art. 116 c.p.c., comma 1, senza, però, che ciò equivalga – come è stato ipotizzato – ad “avallare l’angoscia nichilistica di un libero convincimento che sembra rimasto una mera “scatola vuota””.

Difatti, se è vero – come sottolinea la dottrina processuale prima richiamata – che il principio del libero convincimento, mentre “ha un chiaro significato negativo, nel senso che svincola il giudice da regole legali di valutazione della prova”, esso “ha tuttora un significato positivo quanto mai incerto”, visto che “non indica in quale modo il giudice il giudice debba esercitare questo potere discrezionale” di valutazione della prova. Nondimeno, sempre secondo tale condivisibile impostazione, “il libero convincimento svincola il giudice da regole di prova legale, ma non lo esime dall’osservanza dei criteri di razionalità e controllabilità logica del ragionamento probatorio, soprattutto negli ordinamenti – come il nostro – nei quali egli è soggetto all’obbligo di motivare la sua decisione con argomenti idonei a fornire di essa un giustificazione razionale ed intersoggettivamente accettabile”.

Di ciò, del resto, si mostra ben consapevole questa Corte.

Invero, pur a fronte dell’avvenuta riduzione al “minimo costituzionale” – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), nel testo “novellato” dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, 134 – del proprio sindacato sulla parte motiva della sentenza impugnata, essa ha ribadito (tra l’altro, proprio con riferimento alla motivazione che abbia ad investire la ricostruzione del nesso causale) il proprio potere di “verificare l’estrinseca correttezza del giudizio di fatto sotto il profilo della manifesta implausibilità del percorso che lega la verosimiglianza delle premesse alla probabilità delle conseguenze”, e, pertanto, la possibilità di “sindacare la manifesta fallacia o non verità delle premesse o l’intrinseca incongruità o contraddittorietà degli argomenti, onde ritenere inficiato il procedimento inferenziale ed il risultato cui esso è pervenuto, per escludere la corretta applicazione della norma entro cui è stata sussunta la fattispecie” (così Cass. Sez. 3, sent. 5 luglio 2017, n. 16502, Rv. 644818-01).

7.2.1.4. Tuttavia, se discutere della causalità materiale (soprattutto, come si dirà meglio di seguito, di quella definita come “individuale”, o “specifica”) significa interrogarsi su di una regola probatoria, è proprio su questo piano che vanno apprezzate le differenti soluzioni offerte dalla giurisprudenza di legittimità, penale e civile, al problema della verifica del nesso causale, costituendo le stesse null’altro che il riflesso della diversità – morfologica e funzionale – dei due sistemi di responsabilità, con i quali il giudice si confronta.

Difatti, nella “ricostruzione del nesso causale, ciò che muta sostanzialmente tra il processo penale e quello civile è la regola probatoria, in quanto nel primo vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio” (cfr. Cass. Pen. S.U. 11 settembre 2002, n. 30328, Franzese), mentre nel secondo vige la regola della preponderanza dell’evidenza o “del più probabile che non”, stante la diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa, e l’equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti” (così, in particolare, in motivazione, Cass. Sez. Un., sent. n. 576 del 2008, cit.; in senso conforme, tra le più recenti, si vedano Cass. Sez. 3, ord. 27 settembre 2018, n. 23197, Rv. 65060201, in motivazione, nonchè Cass. Sez. Lav., sent. 3 gennaio 2017, n. 47, Rv. 642263-01).

Del resto, come osservato da questa Corte già prima del citato arresto delle Sezioni Unite, sempre al fine di chiarire la diversità – in sede civile e penale – delle regole probatorie in materia di causalità, queste ultime riflettono la differente morfologia e funzione dei due sistemi. Invero, quanto al profilo morfologico, deve considerarsi “come il baricentro della disciplina penale con riferimento al profilo causale del fatto sia sempre e comunque rivolto verso l’autore del reato/soggetto responsabile, orbitando, viceversa, l’illecito civile (quantomeno a far data dagli anni ‘60) intorno alla figura del danneggiato” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. n. 21619 del 2007, cit.). Quanto, poi, al profilo funzionale, più ancora che la constatazione – valida, invero, per il solo caso in cui venga in rilievo un’ipotesi di responsabilità per omissione – secondo cui una “valutazione del nesso di causa, fondata esclusivamente sul semplice accertamento di un aumento (o di una speculare, mancata diminuzione) del rischio in conseguenza della condotta omessa, è criterio ermeneutico che inquieta l’interprete penale, poichè realmente trasforma surrettiziamente la fattispecie del reato omissivo improprio da vicenda di danno in reato di pericolo (o di mera condotta), mentre la stessa preoccupazione non pare esportabile in sede civile, dove l’accento è posto, ormai, sul concetto di “danno ingiusto”” (cfr. ancora una volta, e nuovamente in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. n. 21619 del 2007, cit.), decisivo appare quanto osservato in dottrina. Ovvero, che i sistemi dell’illecito penale e del torto civile si caratterizzano, rispettivamente, “per la personalità quanto alla pena, come ora ci sollecita a rilevare l’art. 27 Cost., comma 1 e per la patrimonialità quanto al risarcimento”, giacchè se “quest’ultimo è essenzialmente riparazione, la pena è il negativo che si contrappone al negativo dell’illecito in sè”. Una conclusione da tenere ferma pur a fronte dell’avvenuto riconoscimento della non estraneità, al disegno costituzionale della responsabilità civile, del carattere “polifunzionale” della stessa, poichè tale esito “non significa che l’istituto aquiliano abbia mutato la sua essenza”, la quale resta principalmente quella riparatoria, visto che “questa curvatura deterrente/sanzionatoria” della responsabilità civile “esige una “intermediazione legislativa”, in forza del principio di cui all’art. 23 Cost. (correlato agli artt. 24 e 25), che pone una riserva di legge quanto a nuove prestazioni patrimoniali” (così, in motivazione, Cass. Sez. Un., sent. 5 luglio 2017, n. Rv. 644914-01, n. 16601, in tema di “punitive damages”).

7.2.1.5. Nè, d’altra parte, a contrastare tale conclusione, ovvero la necessità di mantenere distinte in sede civile e penale – giacchè espressione delle differenti caratteristiche dei due sistemi – le regole probatorie relative al riscontro del nesso causale, vale l’obiezione formulata proprio dalla dottrina da ultima citata.

Il rilievo critico, come noto, si basa sulla constatazione che l’azione civile di danno può essere esercita – a norma degli artt. 74 c.p.p. e segg. e dell’art. 185 c.p. – anche nel giudizio penale, sicchè la teorizzata (da questa Corte) “duplicità del criterio causale potrebbe avere come esito un fatto ritenuto in pari tempo causalmente rilevante e no”.

Al riguardo, tuttavia, deve rilevarsi che il vigente codice di procedura penale, scegliendo di limitare drasticamente i casi di sospensione del giudizio penale per pregiudizialità civile (art. 3), allargando, per converso, quelli di accertamento incidentale del giudice penale (art. 2), ha optato per “il principio di separatezza dei due giudizi” (così, da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 15 luglio 2019, n. 18918, Rv. 654448-02), nell’ambito del quale persino il rischio del contrasto di giudicati non costituisce (più) un’evenienza, per così dire, “patologica”, o meglio disfunzionale. Invero, corna ancora di recente ribadito dalla giurisprudenza costituzionale, nel processo penale l’azione civile “assume carattere accessorio e subordinato rispetto all’azione penale, sicchè è destinata a subire tutte le conseguenze e gli adattamenti derivanti dalla funzione e dalla struttura del processo penale, cioè dalle esigenze, di interesse pubblico, connesse all’accertamento dei reati e alla rapida definizione dei processi”, essendo, invero, “l’idea di fondo sottesa alla nuova codificazione”, quella “che la costituzione di parte civile non dovesse essere comunque “incoraggiata”” (così, da ultimo, Corte Cost., sent. 3 aprile 2019, n. 176).

Orbene, proprio tale “adattamento”, conosciuto dell’azione civile esercitata in sede penale, non è privo di conseguenze, nuovamente, sul piano delle “regole probatorie” (non escluse, ovviamente, quelle relative al riscontro del nesso causale).

Infatti, qualora il soggetto asseritamente danneggiato scelga peraltro, sempre con possibilità di esercitare lo “ius poenitendi”, dal momento che la revoca della costituzione di parte civile “non preclude il successivo esercizio dell’azione in sede civile” (art. 82 c.p.p., comma 4) – di far valere, nel processo penale, la propria pretesa risarcitoria, egli vede esaminata la propria domanda da un giudice la cui potestà decisoria non coincide con quella delineata dall’art. 115 c.p.c., comma 1, secondo cui, fatti salvi i diversi casi previsti dalla legge, la sua pronuncia interviene “iuxta alligata et probata partium”. Diversamente da quello civile, il giudice penale, nell’esercizio della propria “potestas iudicandi”, è invece legittimato con effetti, evidentemente, anche in ordine alla pretesa risarcitoria azionata dalla parte civile – ad avvalersi di un potere di “integrazione probatoria”, quello disciplinato dall’art. 507 c.p.p., che va oltre l’assunzione di “nuovi” mezzi di prova (come tale norma, nella sua formulazione letterale, parrebbe suggerire). Di tale potere, infatti, esso può avvalersi sia nel caso in cui le parti siano decadute dalla prova testimoniale per la mancata o tardiva indicazione dei testimoni nella lista prevista dall’art. 468 c.p.p., sia, persino, in quello in cui non vi “sia stata ad iniziativa di esse una qualunque attività probatoria” (Corte Cost., sent. 24 marzo 1993, n. 111). Difatti, la giurisprudenza costituzionale – come già, per vero, quella di questa Corte (cfr. Cass. Sez. Un. Pen., sent. dep. 21 novembre 1992, n. 11227, Rv. 191606-01), ha escluso che il vigente codice di procedura penale abbia riservato al giudice “essenzialmente un ruolo di garante dell’osservanza delle regole di una contesa tra parti contrapposte”, nell’ambito di un giudizio che “avrebbe la funzione non di accertare i fatti reali onde pervenire ad una decisione il più possibile corrispondente al risultato voluto dal diritto sostanziale, ma di attingere – nel presupposto di un’accentuata autonomia finalistica del processo – quella sola “verità” processuale che sia possibile conseguire attraverso la logica dialettica del contraddittorio e nel rispetto di rigorose regole metodologiche e processuali coerenti al modello”, modello del quale, pertanto, uno degli assi portanti sarebbe “l’operatività di un principio dispositivo sotto il profilo probatorio”. Per contro, si è ribadito che “fine primario ed ineludibile del processo penale non può che rimanere quello della ricerca della verità”, di talchè, “ad un ordinamento improntato al principio di legalità (art. 25 Cost., comma 2) – che rende doverosa la punizione delle condotte penalmente sanzionate – nonchè al connesso principio di obbligatorietà dell’azione penale” non possono ritenersi “consone norme di metodologia processuale che ostacolino in modo irragionevole il processo di accertamento del fatto storico necessario per pervenire ad una giusta decisione” (così, Corte Cost., sent. n. 111 del 1993, cit.).

Nel contesto, dunque, di un simile processo, che rigetta il principio dispositivo in materia di prova, deve ritenersi del tutto ragionevole – fugando i dubbi che sono stati, al riguardo, paventati dalla citata dottrina – che la “utilitas” tratta dalla parte civile, nel vedere esaminata la propria domanda risarcitoria da un giudice munito di un ampio potere officioso di “integrazione” della prova, risulti “controbilanciata” dalla necessità che quella prova, nella misura in cui investe (anche) il nesso causale tra la condotta del preteso responsabile e l’evento di danno lamentato dall’asserito danneggiato, venga raggiunta “oltre ogni ragionevole dubbio”.

7.2.1.6. Chiarite, pertanto, le ragioni dell’operatività – nel giudizio civile di danno – della regola probatoria del “più probabile che non”, occorre illustrarne le modalità di applicazione.

Essa – anche denominata, forse in modo preferibile, come “preponderanza dell’evidenza” – costituisce, in realtà (lo sottolinea, nuovamente, la dottrina processuale più volte richiamata), la “combinazione di due regole: la regola del “più probabile che non” e la regola della “prevalenza relativa” della probabilità”.

La regola del “più probabile che non”, in particolare – per riprendere tale impostazione dommatica – “implica che rispetto ad ogni enunciato si consideri l’eventualità che esso possa essere vero o falso, ossia che sul medesimo fatto vi siano un’ipotesi positiva ed una complementare ipotesi negativa”, sicchè, tra queste due ipotesi alternative, “il giudice deve scegliere quella che, in base alle prove disponibili, ha un grado di conferma logica superiore all’altra: sarebbe infatti irrazionale preferire l’ipotesi che è meno probabile dell’ipotesi inversa”. In altri termini, l’affermazione della verità dell’enunciato implica “che vi siano prove preponderanti a sostegno di essa: ciò accade quando vi sono una o più prove dirette – di cui è sicura la credibilità o l’autenticità – che confermano quell’ipotesi, oppure vi sono una o più prove indirette dalle quali si possono derivare validamente inferenze convergenti a sostegno di essa”.

Per parte propria, la regola della “prevalenza relativa” della probabilità, rileva – quanto al nesso causale, nel caso di cd. “multifattorialità” nella produzione di un evento dannoso (ovvero quando all’ipotesi, formulata dall’attore, in ordine all’eziologia dell’evento stesso, possano affiancarsene altre) – allorchè “sullo stesso fatto esistano diverse ipotesi, ossia diversi enunciati che narrano il fatto in modi diversi, e che queste ipotesi abbiano ricevuto qualche conferma positiva dalle prove acquisite al giudizio”, dovendo, invero, essere prese in considerazione “solo le ipotesi che sono risultate “più probabili che non”, poichè le ipotesi negative prevalenti non rilevano”. Orbene, ricorrendo tale evenienza, vale a dire se “vi sono più enunciati sullo stesso fatto che hanno ricevuto conferma probatoria, la regola della prevalenza relativa” – sempre secondo l’impostazione dottrinaria di cui sopra – “implica che il giudice scelga come “vero” l’enunciato che ha ricevuto il grado relativamente maggiore di conferma sulla base delle prove disponibili”.

Quello che viene, così, a delinearsi – per dirla, questa volta, con la giurisprudenza di questa Corte – è un modello di “certezza probabilistica”, nel quale “il procedimento logico-giuridico” da seguire “ai fini della ricostruzione del nesso causale” implica che l’ipotesi formulata vada verificata “riconducendone il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma (e nel contempo di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili in relazione al caso concreto (c.d. probabilità logica o baconiana)”, nel senso, cioè, che in tale “schema generale della probabilità come relazione logica va determinata l’attendibilità dell’ipotesi sulla base dei relativi elementi di conferma (c.d. evidence and inference nei sistemi anglosassoni)” (così, in motivazione, Cass. Sez. Un., sent. n. 576 del 2008, cit., nello stesso senso, più di recente, Cass. Sez. 3, sent. 20 febbraio 2015, n. 3390, Rv. 634481-01; Cass. Sez. 3, ord. 29 gennaio 2018, n. 2061, non massimata, Cass. Sez. 3, ord. n. 23197 del 2018, cit.).

La nozione di probabilità “baconiana”, o “logica”, si distingue, dunque, dalla probabilità “quantitativa” (i cui concetti e calcoli poco si prestano – come osservato dalla migliore dottrina processualistica – a essere applicati al ragionamento sulle prove), riferendosi al grado di conferma (ossia al cd. “evidential weight”, al peso probatorio) che l’ipotesi, relativa all’efficienza eziologica della condotta del preteso danneggiante a cagionare l’evento di danno lamentato dall’asserito danneggiato, riceve sulla base delle inferenze tratte dagli elementi di prova disponibili.

7.2.2. Orbene, alla luce di tutte le considerazioni che precedono, risulta, di tutta evidenza, il vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), in cui è incorsa – nel caso che occupa – la sentenza impugnata.

Essa, sul presupposto che la disposta CTU ebbe ad evidenziare che “l’emotorace, a seguito di toracentesi, è evenienza rara”, sicchè “la possibilità di ravvisare la causa dell’emotorace nella toracentesi può essere posta in dubbio”, ha escluso di poter “stabilire con certezza un rapporto di casa effetto” tra due accadimenti. Anzi, ha soggiunto che “il mancato riconoscimento di una lesione vascolare in sede operatoria e autoptica” (un esito questo, tuttavia, non del riscontro della inesistenza di tale lesione, bensì del fatto che i chirurghi e il medico legale – impegnati, rispettivamente, in tali sedi non effettuarono, per le ragioni già illustrate, verifiche di sorta, “atte ad identificare la fonte del sanguinamento” che determinò il decesso della paziente) avrebbe impedito “di stabilire in maniera inequivocabile che la causa dell’emotorace sia stata la toracentesi”.

Così argomentando, tuttavia, la Corte territoriale ha affidato il riscontro del nesso causale ad un criterio persino più rigoroso di quello utilizzato in sede penale, giacchè, in tale ambito, l’efficienza eziologica della condotta addebitata all’imputato è vagliata non già in termini di “certezza” (nè tantomeno di “inequivocabilità”), ma, come detto, secondo la regola probatoria che impone di affermarne la responsabilità “oltre ogni ragionevole dubbio”.

La sentenza impugnata ha, dunque, disatteso la “regula iuris” che impone di accertare il nesso di causalità materiale secondo il criterio – consono alla morfologia e alla funzione del sistema della responsabilità civile – del “più probabile che non” (o meglio, della “preponderanza dell’evidenza”), nel duplice significato che si è, dianzi, illustrato.

In particolare, essa avrebbe dovuto verificare, sulla scorta delle evidenze probatorie acquisite (anche a mezzo della disposta di consulenza tecnica d’ufficio), innanzitutto, se l’ipotesi sulla verità dell’enunciato relativo all’idoneità della toracentesi a cagionare l’emotorace presentasse un grado di conferma logica maggiore rispetto a quella della sua falsità (criterio del “più probabile che non”). Di seguito, essa avrebbe dovuto stabilire – in applicazione, questa volta, del criterio della “prevalenza relativa della probabilità” se tale ipotesi avesse ricevuto, sempre su un piano logico, ovvero nuovamente sulla base delle prove disponibili, un grado relativamente maggiore di conferma rispetto ad altrettante, differenti, ipotesi sulla eziologia tanto dell’emotorace, quanto del decesso della paziente (facendo la sentenza riferimento a non meglio precisate sue “critiche condizioni di salute” che avrebbero influito sul cd. “exitus”), ipotesi anch’esse, però, da riscontrare preliminarmente, nella loro verità, nello stesso modo, ovvero in applicazione del principio del “più probabile che non”.

8. Il secondo motivo resta assorbito dall’accoglimento del primo.

9. All’accoglimento del ricorso, nei termini indicati, segue la cassazione della sentenza impugnata e il rinvio alla Corte di Appello di Firenze, in diversa composizione, per la decisione nel merito, alla luce dei principi enunciati, in particolare, nel p. 7.2.2., oltre che per la liquidazione delle spese anche del presente giudizio.

PQM

La Corte accoglie il primo motivo di ricorso e dichiara assorbito il secondo, cassando, per l’effetto, la sentenza impugnata e rinviando alla Corte di Appello di Firenze, in diversa composizione, per la decisione nel merito, oltre che per la liquidazione delle spese anche del presente giudizio.

Così deciso in Roma, all’esito di adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 12 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 6 luglio 2020

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