Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13864 del 07/07/2016


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Cassazione civile sez. I, 07/07/2016, (ud. 07/06/2016, dep. 07/07/2016), n.13864

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SALVAGO Salvatore – Presidente –

Dott. CAMPANILE Pietro – Consigliere –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna C. – rel. Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 13188/2011 proposto da:

I.E.C.I. S.R.L. IMPIANTI ELETTRICI CIVILI ED INDUSTRIALI

(C.F./P.I. (OMISSIS)), in nome proprio e quale capogruppo

mandataria dell’ATI costituita con ACET S.P.A. ed ELETTRITALIA

S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, nonchè

S.I.P.A. S.R.L. IN LIQUIDAZIONE, in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliate in ROMA, VIA

DEI GRACCHI 187, presso l’avvocato MARCELLO MAGNANO DI SAN LIO,

rappresentate e difese dall’avvocato GIROLAMO RIZZUTO, giusta

procura in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

COMUNE DI PALERMO, (C.F. (OMISSIS)), in persona del Sindaco pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GIOSUE’ BORSI 4,

presso l’avvocato ELISABETTA ESPOSITO, rappresentato e difeso

dall’avvocato ADRIANA MASARACCHIA, giusta procura a margine del

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 564/2010 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 26/04/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

07/06/2016 dal Consigliere Dott. MARIA GIOVANNA C. SAMBITO;

udito, per le ricorrenti, l’Avvocato RIZZUTO GIROLAMO che si

riporta;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SORRENTINO Federico, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

L’ATI costituita tra la IECI (Impianti Elettrici Civili e Industriali) capogruppo mandataria, la Acet S.p.A. e la Elettritalia S.p.A. aggiudicataria del servizio di manutenzione ordinaria e di mantenimento in funzione degli impianti interni e semaforici del Comune di Palermo, e la SIPA S.r.l., subentrata nel contratto, convennero in giudizio, innanzi al Tribunale di Palermo, l’Ente committente, chiedendo che, previa disapplicazione delle penali illegittimamente applicate, il convenuto venisse condannato al pagamento delle riserve formulate e dei compensi revisionali, con gli interessi, anche anatocistici.

Il Tribunale adito, nel contraddittorio del Comune, accolse in parte la domanda, ma la decisione, appellata in via principale dal Comune ed incidentale dalla Capogrupo e dalla Sipa fu riformata, con sentenza del 26.4.2010, dalla Corte d’Appello di Palermo che, per quanto ancora interessa, ritenne che: a) l’importo di Lire 1.035.043.112, di cui il Comune aveva chiesto la condanna, non rispecchiava la somma di penalità ed addebiti che l’Ente aveva già trattenuto dai compensi ed erano stati reclamati in giudizio dall’Impresa, come dalla stessa sostenuto, ma costituiva il credito finale risultante dal collaudo in favore del committente, il quale, come accertato dal CTU, non aveva trattenuto per intero le penali e gli importi ai quali riteneva di aver diritto a titolo risarcitorio;

b) era provato l’inadempimento all’obbligo di pitturazione di 6.300 sostegni metallici, con addebito della somma di Lire 686.070.000, tenuto conto che dai verbali dei diciassette sopralluoghi – che l’Impresa aveva disertato – risultava constatata l’assenza dei necessari interventi di manutenzione per la presenza di segni evidenti di degrado e la diffusa ossidazione, e la Società non aveva dedotto nè provato di averli successivamente attuati; c) il corrispettivo per il servizio di apertura cabine non spettava, non essendo provato: non era stata prodotta l’ordinanza sindacale che lo aveva asseritamente disposto e la quantificazione era ad ogni modo arbitraria.

La Corte determinò, quindi, il danno subito dal Comune in Euro 137.495,71, il credito dell’impresa in Euro 200.739,46, oltre interessi dalla costituzione in mora ed anatocistici, e, computando le opposte partite, condannò l’appaltatrice a restituire al Comune la somma di Euro 963.568,05 pari alla differenza tra quanto dallo stesso versato in esecuzione della sentenza di primo grado e quanto spettante all’Impresa.

Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso le Società IECI, anche quale gruppo mandataria dell’ATI e la SIPA, con quattro mezzi, ai quali il Comune di Palermo resiste con controricorso. Le parti hanno depositato memorie.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo, deducendo la violazione e falsa applicazione degli artt. 75 e 182 c.p.c., del D.Lgs. n. 267 del 2000, artt. 6, 48 e 107, art. 82, comma 3, dello Statuto del Comune di Palermo, le ricorrenti lamentano che, nel valutare l’appello proposto ex adverso, la Corte territoriale ha, implicitamente, ritenuto correttamente instaurato il rapporto processuale, in base alla procura generale alle liti in Notar Pizzuto in favore dell’Avvocato, come si desume dal frontespizio dell’atto d’appello. Occorreva invece valutare, proseguono le ricorrenti, se il Sindaco fosse stato autorizzato a promuovere l’appello, giusta art. 83 dello Statuto della Città di Palermo, dal Dirigente responsabile dell’Avvocatura Comunale. 1.1. Il motivo è infondato: l’esame degli atti consentito alla Corte in ragione del vizio dedotto smentisce l’assunto delle ricorrenti, constando che il procuratore del Comune ebbe a depositare l’autorizzazione (dell’8.2.2006) a proporre impugnazione da parte del dirigente responsabile dell’Avvocatura comunale di cui all’art. 82, comma 3, dello Statuto, nel corso dell’udienza del 9.2.2006, (come da verbale, sottoscritto, del pari, dal cancelliere), atto necessario, per espressa scelta statutaria, ai fini della legittimazione processuale del Sindaco titolare della rappresentanza (Cass. SU. n. 12868 del 2005 e, per la Regione siciliana Cass. n. 13412 del 2006).

1.2. Senza dire, ad ogni modo, che in ipotesi di mancato deposito dell’atto autorizzatorio, la Corte d’appello piuttosto che rilevare l’inammissibilità dell’appello, come affermano le ricorrenti, avrebbe dovuto assegnare all’Ente un termine per la regolare la sua costituzione in giudizio, a norma dell’art. 182 c.p.c., comma 2, con effetti a tunc” (cfr. Cass. SU n. 9217 del 2010 e n. 4248 del 2016).

2. Col secondo motivo, le ricorrenti censurano la statuizione sub a) di parte narrativa, per vizio di motivazione. Evidenziano che la conclusione del CTU è stata recepita dalla Corte territoriale, che, “con grave compromissione del canone di logicità”, non ha tenuto conto che se il “vantato credito dell’amministrazione viene meno (per il venir meno dell’addebito in esito all’accoglimento della riserva) è altrettanto certo che, inversamente a ciò e proprio in esito all’accoglimento della riserva si concretizza e viene ad esistenza il credito dell’Appaltatore”. 2.1. Il motivo è infondato. La Corte territoriale non è affatto incorsa in vizio logico, avendo provveduto al computo delle opposte partite muovendo dagli elementi di fatto desunti dal certificato di collaudo, secondo cui le detrazioni effettivamente operate dalla DL per addebiti e penalità erano pari a Lire 261.738.404, laddove l’importo di Lire 1.035.043.112 costituiva il credito finale per l’Amministrazione, computati pagamenti e penali. Non solo, poi, non consta che tali dati siano stati contestati dalle ricorrenti in sede di merito (per esempio mediante istanza di chiarimenti da parte del CTU), ma sono dati per corretti dalle stesse a pag. 16 ult. periodo del ricorso.

3. Col terzo motivo, si deduce la violazione dell’art 2967 c.c. e vizio di motivazione, in relazione alla statuizione sub b) della narrativa. L’addebito della somma di Lire 686.070.000, affermano le ricorrenti, è stato ritenuto fondato, per esser la prova dell’an stata desunta dall’inerzia da esse mostrato rispetto alla richiesta di verifica disposte dal Comune e dalla sua mancata prova dell’avvenuto adempimento, laddove “l’inadempimento deve essere provato da chi lo assume”. Il vizio del ragionamento deduttivo, proseguono le ricorrenti, è ancora più evidente in relazione al quantum debeatur, considerato corretto “per l’assenza di contrarie allegazioni della Impresa”, con motivazione insufficiente ad illustrare le ragioni per le quali la Corte ha ritenuto di discostarsi dalle conclusioni del CTU. 3.1. Il motivo è infondato.

Va premesso che i giudici d’appello (ancorchè errando: trattandosi di inadempimento di prestazioni contrattuali, la prova dell’esatto adempimento spetta al debitore) hanno posto a carico del Comune l’onere della prova dell’an della posta in esame (pag. 9 sentenza, penultimo cpv.), sicchè la censura in diritto è inammissibile, in parte, per difetto d’interesse, ed, in parte, perchè lamenta l’errore nella ricostruzione delle risultanze processuali (in riferimento ad elementi presi in considerazione dalla Corte territoriale ed asseritamente privi di valenza probatoria), che costituisce il compito specifico del giudice del merito, incensurabile in sede di legittimità, ove congruamente motivato.

3.2. A tal riguardo, va rilevato che i giudici palermitani sono pervenuti alla loro conclusione, non solo, in ragione della mancata presenza delle Società nei diciassette sopralluoghi, ma, anche, tenuto conto dell’assenza di attività manutentiva, constatata in quelle occasioni, relativa ad una serie di vie e di piazze, analiticamente indicate, per una vastissima parte del territorio cittadino, e riscontrata in sede di collaudo, con ulteriore sopralluogo effettuato su alcune di dette vie; hanno, inoltre, argomentato sia dalla mancata risposta dell’Impresa alla contestazione di tali addebiti (da parte della DL) due mesi prima della cessazione del rapporto sia dal fatto che l’Impresa stessa non aveva neppure dedotto di avervi provveduto. Tale considerazioni sono sufficienti a reggere la statuizione di accoglimento delle relative penalità, tenuto conto che in relazione al relativo ammontare la sentenza è del pari congruamente motivata, in riferimento all’analisi progettuale dei costi predisposta per il nuovo appalto nel 1988. La circostanza che la Corte abbia, così, implicitamemente dissentito dalle conclusioni del c.t.u., di certo non ne inficia l’apprezzamento, in quanto il giudice del merito non è vincolato dal giudizio espresso dal suo ausiliare, nè ha l’obbligo di motivare esplicitamente il suo dissenso, tanto più quando, come nella specie, abbia preso in considerazione gli elementi di fatto da quello considerati e abbia ad essi riconnesso diversa rilevanza probatoria.

4. Con il quarto motivo, si censura la statuizione sub c) della narrativa per violazione e falsa applicazione degli artt. 116 e 167 c.p.c. e art. 2967 c.c., oltre che vizio di motivazione. La Corte non ha considerato che per il principio di non contestazione, l’atto presupposto (id est l’ordinanza sindacale del 10.6.1987) che aveva autorizzato l’esecuzione della prestazione non necessitava di prova.

Il Tribunale, proseguono le ricorrenti, aveva rigettato la richiesta per motivi di diritto (intempestività della riserva), pur avendo dato mandato al CTU di verificare il lavoro eseguito e la relativa quantificazione. 4.1. Il motivo, di non immediata intelligibilità, è infondato. Premesso che l’oggetto del ricorso per cassazione è costituito, solamente, dalla sentenza d’appello, di talchè le ragioni del rigetto della voce in esame contenuta nella sentenza di primo grado non sono qui rilevanti, l’asserita mancata contestazione dell’affidamento dell’incarico relativo al servizio di apertura cabine mediante ordinanza sindacale n. 5002/1 del 10.6.1987, della relativa esecuzione e del conseguente credito alla controprestazione non è in sè autosufficiente, non avendo le ricorrenti neppure accennato al tenore delle difese avversarie, laddove, al contrario, il Comune afferma di aver contestato (pag. 26 primo periodo) l’ammontare delle somme richieste e le ragioni della domanda.

Coerentemente, dunque, la Corte, nel valutare come non decisivo l’unico documento prodotto, ha ritenuto non dimostrata l’esecuzione di prestazioni in adempimento di un’ordinanza di contenuto non noto, non mancando di qualificare come totalmente arbitraria la quantificazione della relativa pretesa, senza che in parte qua le ricorrenti abbiano mossa censura alcuna.

5. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna le ricorrenti al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano in Euro 10.200,00, di cui Euro 200,00, per spese, oltre accessori.

Così deciso in Roma, il 7 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 7 luglio 2016

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