Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13859 del 06/07/2020

Cassazione civile sez. III, 06/07/2020, (ud. 17/01/2020, dep. 06/07/2020), n.13859

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – rel. Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 31334/2018 proposto da:

S.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PILO

ALBERTELLI 1, FAX 0698933754 – TEL 0644233842), presso lo studio

dell’avvocato LUCIA CAMPOREALE, rappresentato e difeso dall’avvocato

S.S. difensore di se medesimo;

– ricorrente –

contro

PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, CONSIGLIO DI STATO, in persona

dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA

GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende;

– controricorrenti –

e contro

– intimati –

avverso la sentenza n. 207/2018 della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI,

depositata il 09/03/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

17/01/2020 dal Consigliere Dott. GABRIELE POSITANO.

Fatto

RILEVATO

che:

con atto di citazione del 31 ottobre 2011 l’avvocato S.S. evocava in giudizio la Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Consiglio di Stato deducendo di avere proposto davanti al Consiglio di Stato 72 ricorsi nel periodo tra il 1999 e 2010, avverso altrettante pronunzie del Tar Sardegna, e che nel maggio dell’anno 2011, gli erano stati notificati gli avvisi di trattazione di tutti e 72 i ricorsi, fissati in due sole udienze ravvicinate, quella del 15 novembre 2011, per 33 ricorsi e, quella del 16 dicembre 2011, per 39 ricorsi. Aggiungeva di avere segnalato ai relatori l’opportunità di distribuire i ricorsi in più udienze e l’impossibilità di svolgere le difese per un numero tanto elevato di cause. Tali richieste, e anche le successive, erano state disattese in considerazione della difficoltà di formazione dei collegi “con componenti che non si trovino in posizione di incompatibilità” nei confronti dell’attore. A causa del rigetto di ogni richiesta tesa a differire, o diversamente regolamentare, la trattazione dei predetti procedimenti, il professionista anticipava la volontà di agire in sede civile, richiedendo la dichiarazione di invalidità della fissazione della trattazione dei 72 ricorsi. Come anticipato, proponeva istanza cautelare ai sensi dell’art. 700 c.p.c., per la sospensione delle impugnate determinazioni;

si costituivano i convenuti eccependo l’inammissibilità della domanda, rilevando che i decreti di fissazione di udienza erano espressione del potere ordinatorio del giudice e non suscettibili di autonoma impugnazione. Eccepivano il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, trattandosi di atti adottati dal Consiglio di Stato;

con sentenza del 17 febbraio 2015, il Tribunale ordinario di Cagliari dichiarava inammissibile la domanda attorea per difetto dell’interesse ad agire. Secondo il Tribunale, anche a voler ritenere sussistente la giurisdizione del giudice ordinario, sulla base della pretesa violazione del diritto soggettivo di difesa, i decreti di fissazione dell’udienza erano atti endoprocessuali, espressione del potere ordinatorio del collegio, non autonomamente impugnabili, mentre l’attore avrebbe potuto proporre impugnazione avverso le sentenze emesse dal Consiglio di Stato;

avverso tale decisione l’avvocato S.S. proponeva appello davanti alla Corte territoriale di Cagliari, rilevando che il decreto di fissazione di udienza non era un atto processuale, ma un atto sostanzialmente amministrativo e che la possibilità di impugnare la successiva decisione del Consiglio di Stato avrebbe riguardato profili differenti da quelli dedotti in citazione, ribadendo che la fissazione dei ricorsi in due sole udienze aveva sostanzialmente privato il ricorrente del tempo necessario per illustrare, anche solo oralmente, le proprie difese. Con riferimento ai ricorsi ormai soggetti a perenzione, il Presidente del Consiglio di Stato non avrebbe dovuto fissare la trattazione, ma limitarsi a dichiararne la perenzione. Censurava, altresì, la quantificazione delle spese di lite oggetto di condanna. Si costituivano gli appellati chiedendo il rigetto del gravame;

la Corte d’Appello di Cagliari, con sentenza del 9 marzo 2018, confermava l’inammissibilità della domanda, ma non per carenza di interesse ad agire, ma per la natura di atto endoprocessuale del decreto di fissazione della trattazione dei ricorsi – e pertanto, l’eventuale nullità dell’atto endoprocessuale avrebbe dovuto essere fatta valere nell’ambito del processo al quale l’atto appartiene. Al contrario, con l’atto di citazione, si intendeva denunziare un cattivo esercizio, da parte del Consiglio di Stato, della propria giurisdizione. Nello stesso modo le valutazioni relative all’istanza di perenzione erano di competenza esclusiva del giudice amministrativo. Quanto alle spese, l’indicazione del valore della causa riportata in calce all’atto introduttivo aveva solo una finalità fiscale, mentre, trattandosi di una actio nullitatis, correttamente la causa era stata ritenuta dal Tribunale di valore indeterminato. Conseguentemente, rigettava l’appello, condannando l’avvocato S.S. al pagamento delle spese di lite;

avverso tale decisione propone ricorso per cassazione l’avvocato S.S. affidandosi a due motivi, illustrati da memoria inviata a mezzo posta e datata 2 gennaio 2020. Resistono con controricorso la Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Consiglio di Stato, per il tramite dell’Avvocatura Generale dello Stato.

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo si deduce, ai sensi art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione l’art. 24 Cost. e artt. 1,2 e art. 73, comma 1 del Codice del processo amministrativo, in ordine alla perenzione e alla violazione dei principi in materia di nullità o inesistenza degli atti. La Corte territoriale avrebbe errato nel qualificare il decreto di fissazione della trattazione dei ricorsi come atto endoprocedimentale, giurisdizionale, e non come atto amministrativo. In ogni caso, anche l’atto giurisdizionale, come quello amministrativo, possono essere impugnati in via generale per farne valere la nullità. Infine, erroneamente la Corte territoriale avrebbe affermato che l’attore aveva richiesto una pronunzia sulle attribuzioni del collegio in tema di istanza di perenzione. In realtà, l’art. 1 del Codice del processo amministrativo non consente di rimettere al Collegio del giudice amministrativo la delibazione sull’istanza di perenzione che, invece, è di competenza del Presidente. Pertanto, non ricorrerebbe un’attività processuale riservata al giudice amministrativo, ma un atto arbitrario e inesistente, legittimamente oggetto dell’azione di nullità proposta;

il motivo è inammissibile perchè generico. A fronte delle considerazioni giuridiche espresse dalla Corte territoriale, il ricorrente si limita a ribadire che il decreto di fissazione della trattazione dei ricorsi davanti al Consiglio di Stato avrebbe natura amministrativa e non giurisdizionale aggiungendo che, in ogni caso, indipendentemente dalla natura giuridica, sarebbe possibile richiederne la nullità davanti al giudice ordinario. Al contrario, va osservato che la denunzia di un presunto malgoverno da parte del Consiglio di Stato delle norme di diritto processuale resta all’interno del perimetro dell’esercizio della giurisdizione (Cass. Sezioni Unite n. 15395 del 2015 e Cassazione n. 30996 del 2017);

le argomentazioni del ricorrente non si confrontano in alcun modo con la motivazione della Corte d’Appello di Cagliari e non individuano le norme specificamente violate (Cass. Sezioni Unite, 21 marzo 2017 n. 7155);

nello stesso modo la censura è assolutamente generica nella parte in cui si contrappone all’argomentazione della Corte territoriale riguardo all’esistenza di una risalente giurisprudenza che consentirebbe, in via generale, di proporre una azione di nullità nei confronti di qualsiasi atto giurisdizionale. Una siffatta affermazione, astrattamente corretta, è sganciata da ogni riferimento concreto, e non consente di superare le argomentazioni del giudice di appello evidentemente ancorate al principio di estensione della nullità degli atti processuali alla sentenza, di cui all’art. 159 c.p.c. e della conversione dei motivi di nullità in motivi di impugnazione, ai sensi dell’art. 161 c.p.c., che trovano applicazione anche nel processo amministrativo;

nello stesso modo è inammissibile la censura relativa alla natura dell’attività processuale riservata al giudice amministrativo, in tema di valutazione della competenza, a provvedere sulla istanza di perenzione. Il ricorrente, da una parte assume che il giudice di appello avrebbe erroneamente qualificato la domanda come tesa a censurare la decisione di rimettere alla valutazione del Collegio l’istanza di perenzione, ma dall’altra ribadisce che siffatta valutazione del giudice amministrativo sarebbe tecnicamente arbitraria e, pertanto, sarebbe possibile richiedere al giudice civile di sindacare la decisione del giudice amministrativo di rimettere alla valutazione del Collegio l’istanza di perenzione;

come ribadito anche in questa sede, parte ricorrente intenderebbe sottoporre alla valutazione di legittimità del giudice ordinario, un’azione tesa a far dichiarare la nullità del decreto presidenziale in questione, quale cattivo esercizio del potere dell’organo di vertice della giustizia amministrativa. Ma siffatta domanda è inammissibile;

infatti, il ricorso con cui si prospetti un esercizio inadeguato della giurisdizione da parte del Consiglio di Stato, ponendo un problema che riguarda la specificazione interna del potere giurisdizionale che la legge assegna al giudice amministrativo è inammissibile, come affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte (Cass. Sezioni Unite n. 956 del 2017);

con il secondo motivo si deduce, ai sensi art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione di artt. 91 e 92 c.p.c. e del decreto ministeriale n. 140 e n. 55 del 2014 in tema di liquidazione delle spese. Contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d’Appello, il giudizio in questione non apparterrebbe alle cause di valore indeterminato;

il motivo è inammissibile poichè generico. La Corte territoriale ha correttamente affermato che l’indicazione del valore della causa espressa in calce all’atto introduttivo del giudizio, ai fini della determinazione del contributo unificato dovuto per legge, ha solo natura fiscale, dovendo trovare applicazione il criterio generale secondo cui il valore della causa è determinato a norma del codice di procedura civile. A fronte di tale argomentata motivazione parte ricorrente si limita a dedurre che la declaratoria di nullità di atti, privi di valore economico intrinseco, non consentirebbe il ricorso al valore indeterminato. Anche in questo caso l’argomentazione non si confronta in alcun modo con la puntuale motivazione del giudice di appello, che fa proprio l’orientamento costante di questa Corte secondo cui l’indeterminabilità del valore della causa dipende dall’intrinseca inidoneità della pretesa ad essere tradotta in termini pecuniari (Cass. n. 11056 del 2016 e altre conformi);

le memorie ex art. 380 bis c.p.c., quando – come nel caso di specie -pervengono a mezzo posta, devono essere dichiarate inammissibili ed il loro contenuto non può essere preso in considerazione, non essendo applicabile per analogia l’art. 134 disp. att. c.p.c., comma 5, disposizione che riguarda esclusivamente il ricorso ed il controricorso (Sez. 6-3, Ordinanza n. 31041 del 27/11/2019, Rv. 656294-01);

ne consegue che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile; le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo seguono la soccombenza. Infine, tenuto conto del tenore della decisione, mancando ogni discrezionalità al riguardo (Cass. Sez. U. 27/11/2015, n. 24245) dichiara che sussistono i presupposti per il pagamento del doppio contributo se dovuto.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese in favore dei controricorrenti, liquidandole in Euro 3.200,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza della Corte Suprema di Cassazione, il 17 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 6 luglio 2020

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