Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13848 del 20/05/2021

Cassazione civile sez. trib., 20/05/2021, (ud. 12/03/2021, dep. 20/05/2021), n.13848

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – rel. Consigliere –

Dott. ROSSI Raffaele – Consigliere –

Dott. MAISANO Giulio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16569-2014 proposto da:

TELEPERFORMANCE FRANCE SAS, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE

CASTRO PRETORIO 122, presso lo studio dell’avvocato ANDREA RUSSO,

che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato TONIO DI

IACOVO;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 616/2013 della COMM. TRIB. REG. ABRUZZO SEZ.

DIST. di PESCARA, depositata il 17/12/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

12/03/2021 dal Consigliere Dott. FRANCESCO FEDERICI.

 

Fatto

RILEVATO

che:

La Teleperformance S.A. ricorre per la cassazione della sentenza n. 616/10/2013, depositata il 17.12.2013 dalla Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, Sez. staccata di Pescara, con la quale era stato confermato il diniego di rimborso del 50% del credito d’imposta, richiesto ai sensi della Convenzione contro le doppie imposizioni, art. 10 comma 4, lett. b), firmata a Venezia tra l’Italia e la Francia il 5.10.1989 e ratificata dalla Repubblica Italiana con L. 7 gennaio 1992, n. 20, entrata in vigore il 1 maggio 1992.

Ha rappresentato di essere società sedente in Francia e di detenere una partecipazione azionaria del 70% del capitale della società Promoplan Incentivazione e Promozione Vendite s.p.a., con sede in Italia, che relativamente all’anno d’imposta 2000 aveva conferito alla ricorrente, a titolo di dividendi, vecchie Lire 2.100.000.000, senza operare le ritenute alla fonte, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 27 bis, comma 3, ratione temporis vigente. Successivamente la società francese, assoggettata ad imposta in Francia, ai sensi della Convenzione Italia – Francia, art. 10, paragrafo 4, lett. b), aveva richiesto all’Amministrazione finanziaria italiana il rimborso di Euro 248.328,87. Tale importo era corrispondente al 50% del credito d’imposta relativo alla tassazione degli utili societari della società italiana partecipata, determinato previa detrazione del 5% sullo stesso credito d’imposta e del 5% sui dividendi percepiti. Sulla richiesta di rimborso si era formato il silenzio-rifiuto dell’Ufficio finanziario.

Era seguito il contenzioso, esitato dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Pescara nella sentenza n. 30/04/2012, di rigetto della domanda. L’appello, proposto dinanzi alla Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, sez. staccata di Pescara, era stato parimenti rigettato con la pronuncia oggetto del presente ricorso. Il giudice regionale, rilevando che i dividendi erano stati conferiti in regime di esonero dalla ritenuta alla fonte, del D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 27 bis, attuativa della Dir. n. 90/435/CEE cd. madre-figlia, e sostenendo che la contribuente non aveva dato prova dell’assoggettamento dei dividendi ad imposta nello Stato francese, ha ritenuto di escludere che la fattispecie incorresse in doppie imposizioni.

La società francese ha censurato la sentenza con tre motivi, chiedendo la cassazione della pronuncia con ogni consequenziale provvedimento.

Si è costituita l’Agenzia delle entrate, che ha contestato i motivi del ricorso, di cui ha chiesto il rigetto.

Nell’adunanza camerale del 12 marzo 2021 la causa è stata trattata e decisa. Sono state depositate memorie ai sensi dell’art. 380 bis-1 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo la ricorrente ha denunciato la violazione della Convenzione contro le doppie imposizioni, firmata tra l’Italia e la Franci, art. 10 comma 4, lett. b), a e ratificata con L. 7 gennaio 1992, n. 20; della Dir. 23 luglio 1990, n. 90/435/CEE; del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 27 bis, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non aver tenuto conto del diritto al rimborso del 50% del credito d’imposta, relativo ai dividendi ricevuti da una società partecipata con sede in Italia, ancorchè non operata alcuna ritenuta, ai sensi del D.P.R. n. 600 cit., art. 27 bis;

con il secondo motivo per nullità della sentenza, per violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 36, dell’art. 111 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per omessa motivazione sulla prova, allegata invece dalla contribuente, della sottoposizione dei dividendi ad imposizione nello Stato francese;

con il terzo per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per non aver esaminato la dichiarazione dei redditi dell’anno 2000 della società madre francese.

Il primo motivo, con cui la società denuncia la violazione dei principi Eurounitari e della disciplina convenzionale, posti a presidio del trattamento fiscale paritario delle società madri-figlie, quando la prima, percettrice di dividendi conseguiti dalla società figlia, non abbia sede nel medesimo Stato della seconda, va accolto nei termini appresso chiariti.

Illustrando innanzitutto il motivo, con esso la contribuente – che ha sede in Francia e che detiene una partecipazione qualificata di una società con sede in Italia – afferma che, quand’anche beneficiaria di dividendi conseguiti dalla società italiana ed esonerati dalla ritenuta alla fonte, come previsto dall’art. 27 bis cit., all’epoca vigente, può parimenti richiedere il rimborso del credito d’imposta. Nella prospettazione difensiva della ricorrente la somma da rimborsare deve corrispondere alla metà di quanto lo Stato italiano riconosce alle società madri nazionali percettrici di dividendi, previa detrazione dell’importo del 5% sull’ammontare del credito spettante e dell’ulteriore 5% sull’ammontare dei dividendi ricevuti. Ciò in applicazione del regime convenzionale vigente tra Italia e Francia contro le doppie imposizioni. Assume che la circostanza di aver goduto dell’esonero dalla ritenuta sui dividendi non esclude una scelta successiva, volta a chiedere il rimborso del credito d’imposta, nella misura prevista della Convenzione, e sempre previa la detrazione delle percentuali del 5% nei termini esposti, mancando una norma che lo impedisca. Evidenzia che a tal fine, a parte che la Convenzione non richiede quale presupposto la imponibilità dei medesimi dividendi in Francia, della loro tassazione ha comunque dato prova. In tal modo, prosegue, i due regimi, quello del rimborso del credito d’imposta, e quello dell’esonero dalla ritenuta sui dividenti, restano alternativi, ad un tempo assicurando un regime regolativo a tutela del divieto della doppia imposizione.

L’Amministrazione finanziaria di contro insiste nel rimarcare che quei dividendi erano stati conferiti alla società madre francese, senza che fossero stati assoggettati a ritenuta, e che non è possibile riconoscere alla società straniera la facoltà di scelta “ex post” della disciplina applicabile, optando per il rimborso del credito. Secondo la ricostruzione della controricorrente l’opposta interpretazione implicherebbe il cumulo dei benefici, ossia la contestuale esenzione dei dividendi dalla ritenuta e il rimborso del credito d’imposta.

Queste le rispettive posizioni, nell’inquadrare la fattispecie deve evidenziarsi che nel terzo “considerando” della Dir. n. 90/435/CE, si prende atto “che le attuali disposizioni fiscali che disciplinano le relazioni tra società madri e società figlie di Stati membri diversi variano sensibilmente da uno Stato membro all’altro e sono, in generale, meno favorevoli di quelle applicabili alle relazioni tra società madri e società figlie di uno stesso Stato membro; che la cooperazione tra società di Stati membri diversi viene perciò penalizzata rispetto alla cooperazione tra società di uno stesso Stato membro; che occorre eliminare questa penalizzazione instaurando un regime comune e facilitare in tal modo il raggruppamento di società a livello comunitario”. L’art. 3, ai fini della identificazione delle società madri e figlie per l’applicazione della direttiva, specifica che: “a) la qualità di società madre è riconosciuta almeno ad ogni società di uno Stato membro…. che detenga nel capitale di una società di un altro Stato membro una partecipazione minima del 25%; b) si intende per “società figlia” la società nel cui capitale è detenuta la partecipazione indicata alla lett. a)”. L’art. 4 prescrive che “I. Quando una società madre, in veste di socio, riceve dalla società figlia utili distribuiti in occasione diversa dalla liquidazione di quest’ultima, lo Stato della società madre: si astiene dal sottoporre tali utili ad imposizione, o li sottopone ad imposizione, autorizzando però detta società madre a dedurre dalla sua imposta la frazione dell’imposta societaria relativa ai suddetti utili e pagata dalla società figlia a fronte dei suddetti utili o, eventualmente, l’importo della ritenuta alla fonte prelevata dallo Stato membro in cui è residente la società figlia in applicazione delle disposizioni derogatorie dell’art. 5, nel limite dell’importo dell’imposta nazionale corrispondente”. L’art. 5, poi prescrive che “Gli utili distribuiti da una società figlia alla sua società madre, almeno quando quest’ultima detiene una partecipazione minima del 25% nel capitale della società figlia, sono esenti dalla ritenuta alla fonte”. L’art. 7, paragrafo 2, dispone che: “La presente direttiva lascia impregiudicata l’applicazione di disposizioni nazionali o convenzionali intese a sopprimere o ad attenuare la doppia imposizione economica dei dividendi, in particolare delle disposizioni relative al pagamento di crediti di imposta ai beneficiari dei dividendi”. Dunque a regole Euro-unitarie tese a tutelare dal rischio di doppie imposizioni fattispecie in cui società partecipanti a capitali di altre società, aventi sede però ad altri Stati comunitari, possono “affiancarsi”, secondo la disciplina all’epoca vigente, disposizioni nazionali o convenzionali, anche queste finalizzate a contrastare il pericolo di doppia imposizione. Ciò incontra il limite del rispetto della cornice giuridico-economica entro cui la medesima disciplina Euro-unitaria opera, ossia la tutela dalla doppia imposizione delle società madri investitrici in altri Stati comunitari, senza dunque sconfinare nel riconoscimento di ingiustificati benefici.

Riportando ora il testo, per quanto qui d’interesse, della Convenzione tra l’Italia e la Francia, l’art. 10, così prescrive: “1. I dividendi pagati da una società’ residente di uno Stato ad un residente dell’altro Stato sono imponibili in detto altro Stato. 2. Tuttavia, tali dividendi sono imponibili anche nello Stato di cui la società’ che paga i dividendi è residente ed in conformità della legislazione di detto Stato, ma, se la persona che percepisce i dividendi ne è l’effettivo beneficiario, l’imposta così applicata non può eccedere: a) il 5 per cento dell’ammontare lordo dei dividendi se l’effettivo beneficiario è una società assoggettabile all’imposta sulle società che ha detenuto direttamente o indirettamente nel corso di un periodo di almeno 12 mesi precedenti la data della delibera di distribuzione dei dividendi, almeno il 10 per cento del capitale della società che paga i dividendi; b) il 15 per cento dell’ammontare lordo dei dividendi, in tutti gli altri casi. Le disposizioni del presente paragrafo non riguardano l’imposizione della società per gli utili con i quali sono stati pagati i dividendi”. Il paragrafo 4, lett. b), riconosce che “Una società residente della Francia, indicata al paragrafo 2-a) o soggetta alla legislazione francese applicabile alle società madri che riceve da una società residente dell’Italia dividendi che darebbero diritto a un credito d’imposta se fossero ricevuti da un residente dell’Italia, ha diritto ad un pagamento da parte del Tesoro italiano di un ammontare pari alla metà di detto credito d’imposta diminuito della ritenuta alla fonte prevista al paragrafo 2”.

La Commissione regionale ha motivato il rigetto della domanda della società francese, affermando, alquanto apoditticamente per le ragioni appresso sviluppate, che: a) si era già avvalsa del regime dell’esenzione dalle ritenute alla fonte sui dividendi; b) non aveva fornito prova dell’imposizione in Francia dei dividendi di cui si discute.

Occorre allora comprendere se la decisione sia corretta, alla luce dell’interpretazione della normativa comunitaria, ed in concreto occorre valutare se il beneficio già conseguito con l’esonero dalle ritenute si ponesse in inconciliabile contrasto con la successiva richiesta di rimborso del credito d’imposta nelle modalità indicate dalla società ricorrente.

Prima di verificare il fondamento della domanda attorea occorre però soffermarsi sulla più recente giurisprudenza di questa Corte, elaborata alla luce dei principi Euro-unitari anche in considerazione degli arresti della Corte di Giustizia Europea. Sulla questione il giudice di legittimità, in riferimento al rapporto tra la direttiva CE e la Convenzione regolante i rapporti tra Italia e Regno Unito contro le doppie imposizioni, ha affermato che “in tema di imposte sui dividendi azionari corrisposti da una società figlia residente in Italia ad una società madre residente in Gran Bretagna, il credito d’imposta previsto dalla Convenzione contro le doppie imposizioni tra l’Italia e la Gran Bretagna, stipulata il 21 ottobre 1988, art. 10, par. 4, lett. b, (ratificata con L. n. 329 del 1990), non è escluso dal riconoscimento dei benefici (nella specie esenzione da ritenuta) della Dir. madre-figlia n. 453 del 1990, (attuata con il D.Lgs. n. 136 del 1993), atteso che detto riconoscimento, secondo l’interpretazione offerta dalla Corte di Giustizia (causa C-389/18, del 19 dicembre 2019, Brussels Securities), non elimina, necessariamente, il rischio della doppia imposizione economica nè della violazione del principio di neutralità fiscale. Sicchè, deve verificarsi in concreto se il meccanismo di tassazione previsto dallo Stato membro elimini effettivamente detto rischio, dovendosi evitare non soltanto la tassazione diretta dei dividendi in capo alla società madre, ma anche quella indiretta intesa come conseguenza dell’applicazione di meccanismi che, sebbene accompagnati da deduzioni o esenzioni, possono causare alla società madre un trattamento deteriore rispetto a quello che spetterebbe qualora le due società fossero dello stesso Stato, dovendo la percezione dei dividendi essere fiscalmente neutra per la società madre, con riguardo all’assoggettamento ad imposta, senza possibilità di opzione e senza esenzione ai sensi della Dir. 30 novembre 2011, n. 2011/96/UE, art. 2, a.iii),” (Cass., 31/01/2020, n. 2313; 19/11/2020, n. 26307, che hanno entrambe esaminato due fattispecie nelle quali il rifiuto del rimborso del credito d’imposta era stato motivato dalla Amministrazione finanziaria dalla esenzione dalla ritenuta sui dividendi, di cui la società madre estera aveva già beneficiato).

Nello specifico si è ritenuto che la questione dovesse trovare soluzione tenendo conto del principio, di matrice Euro-unitaria, della neutralità nella tassazione in rapporti transnazionali. E’ stata a tal fine valorizzata la sentenza della Corte di Giustizia del 19 dicembre 2019 (causa C-389/18, Brussels Securities c/Belgio), che, al contrario di quanto sostenuto dagli uffici finanziari, ha avvertito come la circostanza che la distribuzione del dividendo da parte della società figlia non fosse stata assoggettata a ritenuta in Italia non eliminava necessariamente il rischio di doppia imposizione economica e di violazione della neutralità fiscale. E a tal fine i citati precedenti di questa Corte, sebbene riferiti a fattispecie relative a società madre sedenti nel Regno Unito, possono essere mutuati nella presente controversia, atteso che, a parte le comuni regole Euro-unitarie, interpretate dalla Corte di Giustizia come appresso sarà meglio evidenziato, vi è una indiscussa affinità, se non una sovrapponibilità di molti dei principi regolatori delle Convenzioni bilaterali Italia/Regno Unito ed Italia/Francia. E’ sul punto significativo rammentare che nei due Stati erano presenti, al pari che in Italia, istituti disciplinanti il credito d’imposta, quale meccanismo cui ricorrere per ovviare alle conseguenze distorsive della doppia imposizione fiscale (l’imputation credit d’oltre Manica e l’avoir fiscal d’oltralpe). Con l’ulteriore considerazione, quanto alla necessità di provvedere alla tutela dalla doppia imposizione, che il sistema di tassazione francese dell’epoca prevedeva un trattamento impositivo dei redditi societari più favorevole ai gruppi societari con partecipazioni estere, di quanto lo fosse quello italiano.

D’altronde l’eliminazione della doppia imposizione “economica” (ipotesi in cui due Stati sottopongono a imposizione contribuenti diversi per lo stesso reddito) è ritenuta obiettivo tipico dell’UE (Avv. Gen., in causa C-389/18, note 15 e 30).

Ciò chiarito, la evocata pronuncia della Corte di Giustizia, formulando un principio di valore generale, ha affermato che: “La Dir. del Consiglio 23 luglio 1990, n. 90/435/CEE, art. 4, paragrafo 1, concernente il regime fiscale comune applicabile alle società madri e figlie di Stati membri diversi, come modificata dalla Dir. del Consiglio 22 dicembre 2003, n. 2003/123/CE, deve essere interpretato nel senso che osta a una normativa di uno Stato membro ai sensi della quale i dividendi che una società madre percepisce dalla sua società figlia debbano essere, in un primo tempo, inclusi nella base imponibile della società madre, prima di poter fare, in un secondo tempo, oggetto di una deduzione, nella misura del 95% del loro importo, la cui eccedenza può essere riportata agli esercizi successivi senza limiti nel tempo, deduzione che è prioritaria rispetto ad un’altra deduzione fiscale il cui rinvio sia limitato nel tempo”. Al punto 35) precisa che: “Inoltre, risulta precisamente dal terzo considerando della Dir. n. 435 del 1990, che essa mira ad eliminare, instaurando un regime fiscale comune, qualsiasi penalizzazione della cooperazione tra società di Stati membri diversi rispetto alla cooperazione tra società di uno stesso Stato membro e a facilitare in tal modo il raggruppamento di società a livello dell’Unione. Tale Direttiva tende così ad assicurare la neutralità, sotto il profilo fiscale, della distribuzione di utili da parte di una società figlia con sede in uno Stato membro alla sua società madre stabilita in un altro Stato membro (sentenze del 1 ottobre 2009, Gaz de France – Berliner Investissement, C247/08, EU:C:2009:600, punto 27 e giurisprudenza ivi citata, e dell’8 marzo 2017, Wereldhave Belgium e a., C-448/15, EU:C:2017:180, punto 25)”. Al punto 36) evidenzia che: “Al fine di assicurare l’obiettivo della neutralità, sotto il profilo fiscale, della distribuzione di utili da parte di una società figlia con sede in uno Stato membro alla sua società madre stabilita in un altro Stato membro, la Dir. n. 435 del 1990, mira ad evitare, in particolare, mediante la regola prevista al suo art. 4, paragrafo 1, primo trattino, una doppia imposizione di tali utili, in termini economici, vale a dire ad evitare che gli utili distribuiti siano colpiti, una prima volta, a carico della società figlia, e, una seconda volta, a carico della società madre (v., in tal senso, sentenze del 3 aprile 2008, Banque Federative du Credit Mutuel, C-27/07, EU:C:2008:195, punti 24, 25 e 27, nonchè del 12 febbraio 2009, Cobelfret, C-138/07, EU:C:2009:82, punti 29 e 30)”. D’altronde, nel punto 37, avverte che “la Dir. n. 435 del 1990, art. 4, paragrafo 1, primo trattino, vieta agli Stati membri di sottoporre ad imposizione la società madre a titolo di utili distribuiti dalla sua società figlia, senza distinguere a seconda che l’imposizione della società madre abbia come fatto generatore la percezione di tali utili o la loro ridistribuzione (v., in tal senso, sentenza del 17 maggio 2017, X, C-68/15, EU:C:2017:379, punto 79) e che rientra in tale divieto anche una normativa nazionale che, pur non assoggettando ad imposta i dividendi percepiti dalla società madre in quanto tali, può comportare che la società madre subisca indirettamente un’imposizione su tali dividendi (v., in tal senso, sentenza del 12 febbraio 2009, Cobelfret, C-138/07, EU:C:2009:82, punto 40)”, per concludere sull’argomento, al punto 38, che “infatti, una normativa di questo tipo non è compatibile nè con il testo nè con gli obiettivi e il sistema della Dir. n. 435 del 1990, poichè non consente di raggiungere pienamente l’obiettivo della prevenzione della doppia imposizione economica, quale previsto da tale Dir., art. 4, paragrafo 1, primo trattino, (v., in tal senso, sentenza del 12 febbraio 2009, Cobelfret, C-138/07, EU:C:2009:82, punti 41 e 45)”.

In altri termini è necessario l’esame, nel concreto, del meccanismo di tassazione applicato, per accertare non solo se sia stata effettivamente evitata la doppia imposizione, ma ne sia stato scongiurato il rischio, nel rispetto del principio di neutralità fiscale tutelato dalla Direttiva.

I principi enucleabili dall’arresto della Corte Europea dunque non vietano affatto alla società di richiedere il rimborso del credito, pur quando la società madre abbia beneficiato di utili sui quali la società figlia, appartenente ad altro Stato membro, non abbia applicato la ritenuta alla fonte sui dividendi. Anzi, astrattamente -sebbene con successiva verifica in concreto- spiegano la compatibilità dei due sistemi, che, soprattutto nei termini in cui l’odierna ricorrente intende quantificare l’importo del rimborso del credito d’imposta, al netto cioè della detrazione del 5% dal rimborso medesimo e dagli utili conferiti, si propongono quali strumenti alternativi, cui poter ricorrere anche con opzioni successive.

Sulla possibilità di formulare una opzione di rimborso in epoca successiva alla percezione dei dividendi, già esentati dalla ritenuta alla fonte, si è espressa questa Corte nella ipotesi riferita alla Convenzione Italia – Regno Unito (Cass., 26307 del 2020 cit.). Il giudice di legittimità – dopo aver rilevato che le modalità di quantificazione del rimborso sono riconosciute nella circolare del Ministero delle Finanze, 10 agosto 1994, n. 151/E che, in tema di istanze di rimborso del credito d’imposta avanzate da società madre britannica ai sensi della Convenzione, art. 10, ha ritenuto corretta l’applicazione della ritenuta (del 5%) tanto sull’ammontare del credito d’imposta, quanto, se non operata la ritenuta alla fonte, sull’ammontare dei dividendi distribuiti alla società madre residente nel Regno Unito – ha affermato anche che “assumere che il non essere stata operata la ritenuta da parte del sostituto sull’ammontare dei dividendi dallo stesso distribuiti alla società madre precluda il rimborso del credito d’imposta secondo la normativa di fonte convenzionale presuppone che sia stata espressa in quella sede un’opzione irrevocabile per un sistema (quello derivante dall’applicazione della direttiva madre-figlia) piuttosto che per l’altro (quello derivante dall’applicazione della disciplina convenzionale), che, in realtà non è prevista da alcuna norma”. Si tratta di un principio condiviso da questo collegio, a cui s’intende dare continuità.

Con riferimento poi all’applicazione della ritenuta del 5%, già la Corte di Giustizia, nel procedimento C-58-01 del 23 settembre 2003 (Ocè c/Regno Unito), alla domanda se “… un residente nei Paesi Bassi ha diritto ad un credito d’imposta in relazione a (…) dividendi (versati da una società residente nel Regno Unito) ai sensi della lett. c) di questo stesso numero, l’imposta può essere parimenti applicata nel Regno Unito e conformemente alle leggi del Regno Unito sul totale dell’importo o del valore di tale dividendo e dell’importo di tale credito d’imposta con un’aliquota non superiore al 5%”, ha riconosciuto coerente con il sistema di tutela contro le doppie imposizioni l’applicazione della ritenuta del 5% sul rimborso del credito d’imposta e sui dividendi conseguiti dalla società madre con sede in un paese membro diverso da quello della società figlia.

A fronte dei principi enucleati, si rendono tuttavia opportune alcune precisazioni a riguardo della verifica, da eseguire in concreto, di sussistenza dei presupposti di applicabilità dei meccanismi di prevenzione degli effetti distorsivi della doppia imposizione. A tal fine va chiarito che per identificare l’area d’indagine della verifica il richiamo, quale obiettivo di riferimento, al rispetto del principio di neutralità fiscale, è corretto ma non ancora sufficiente. Si vuol dire che se condizione per tener conto, anche con opzioni successive, tanto della esenzione d’imposta quanto del credito d’imposta nei termini già circoscritti – è che il dividendo percepito dalla società madre sia assoggettato ad imposta nel proprio Stato di residenza, occorre chiarire in quali termini tale condizione vada interpretata. La questione è tanto più rilevante quando si consideri che nell’eventuale rinvio della suddetta verifica al giudice di merito, questi deve aver chiara l’area di ricerca dei presupposti per riconoscere il diritto d’accesso della società al credito d’imposta.

E’ allora innanzitutto utile rammentare che la Corte di Giustizia, con sentenza 19 novembre 2009 (in causa C-540/2007, Commissione CE/Repubblica italiana), a fronte della eccezione sollevata dalla Repubblica Italiana, secondo cui i dividendi distribuiti a società stabilite in altri Stati membri non sarebbero in realtà trattati diversamente dai dividendi distribuiti a società residenti, in quanto le convenzioni contro la doppia imposizione permetterebbero di detrarre l’imposta trattenuta alla fonte in Italia da quella dovuta nell’altro Stato membro, ha rilevato che “solo nell’ipotesi in cui l’imposta trattenuta alla fonte, in applicazione della normativa nazionale, possa essere detratta dall’imposta, dovuta nell’altro Stato membro, per un ammontare pari alla differenza di trattamento derivante dalla normativa nazionale, la differenza di trattamento tra i dividendi distribuiti a società stabilite in altri Stati membri e i dividendi distribuiti alle società residenti scompare totalmente”. Ciò perchè “l’imputazione presuppone segnatamente che i dividendi provenienti dall’Italia siano sufficientemente tassati nell’altro Stato membro”, posto che “se tali dividendi non sono tassati o se non lo sono a sufficienza, la somma ritenuta alla fonte in Italia o una frazione di essa non può essere detratta. In tal caso la differenza di trattamento derivante dall’applicazione della normativa nazionale non può essere compensata dall’applicazione delle previsioni della convenzione contro la doppia imposizione”. In modo netto considera infatti che “la scelta di tassare nell’altro Stato membro i redditi provenienti dall’Italia o il livello a cui sono tassati non dipende dalla Repubblica Italiana, ma dalle modalità di imposizione definite dall’altro Stato membro”. La Corte Europea dunque ha avvertito come l’eliminazione della “disparità di trattamento” tra società percipienti in ambito UE o SEE rispetto alle percipienti italiane non era garantita dalla disciplina sulla doppia imposizione tutte le volte che la società percipiente in altro Stato membro non avesse avuto modo di compensare in tale Stato l’imposta pagata in Italia (a mezzo di ritenuta), perchè non tassata nel proprio Stato di appartenenza o non sufficientemente tassata.

Tali principi sono stati già recepiti e condivisi dalla giurisprudenza di legittimità, che ha infatti affermato, ad esempio in controversie relative a rapporti di partecipazione tra società madri sedenti nel Regno Unito e società figlie in Italia, come in tema d’imposte sui dividendi azionari l’intesa pattizia non assicura, di per sè, l’adempimento degli obblighi comunitari sulla parità di trattamento nella tassazione tra società percipienti nell’ambito dell’Unione Europea rispetto a quelle italiane, dovendosi assicurare condizioni di effettiva compensabilità della ritenuta alla fonte, dovuta nell’altro Stato membro, per un ammontare pari alla differenza di trattamento derivante dalla normativa interna. Concludendo che “Non è dunque corretto subordinare il rimborso della ritenuta alla circostanza che la società percipiente estera abbia effettivamente “sborsato”, nel Paese UE di residenza, l’imposta sul dividendo proveniente dall’Italia; risultando per contro (necessario e) sufficiente che tale dividendo concorra alla formazione del reddito complessivo, ancorchè non sussista effettivo prelievo fiscale (Cass. 19/10/2018, n. 26377; 31/01/2019, n. 2889). Il principio trovava già precedenti nella giurisprudenza della Cassazione che si era occupata dei rapporti tra società italiane partecipate da società estere, anche fuori dei paesi UE, e secondo cui la regolamentazione convenzionale della minore imposta “è applicabile per il solo fatto della soggezione del dividendo alla potestà impositiva principale dell’altro Stato, indipendentemente dall’effettivo pagamento dell’imposta. La sufficienza del solo fattore in sè della esistenza del potere impositivo principale dell’altro Stato, deve ritenersi infatti coerente con le finalità delle convenzioni bilaterali contro le doppie imposizioni, le quali hanno la funzione di eliminare la sovrapposizione dei sistemi fiscali nazionali, onde evitare che i contribuenti subiscano un maggior carico fiscale sui redditi percepiti all’estero ed agevolare l’attività economica e d’investimento internazionale” (Cass. 29/01/2001, n. 1231; 7/07/2010, 23431; 10/11/2017, n. 26656).

Dunque, ciò che va sindacato è se quella manifestazione di ricchezza, quel dividendo distribuito dalla società figlia sedente in Italia, sia compresa, una volta assegnata alla società madre sedente in Francia, nel coacervo dei redditi imponibili. Se la risposta è affermativa non è importante accertare se nel concreto su di essa lo Stato transalpino abbia assoggettato quel reddito ad una aliquota pari, inferiore o superiore a quella altrimenti applicabile in Italia, poichè la fattispecie non va ricondotta nell’obiettivo della “tax equalitation”, da cui ne marca anzi la distinzione, riconducendosi invece nel principio di neutralità ed efficienza fiscale internazionale.

Traendo allora le conclusioni, deve affermarsi il seguente principio di diritto: “In tema di imposte sui dividendi azionari corrisposti da una società figlia residente in Italia ad una società madre residente in Francia, il credito d’imposta previsto dalla Convenzione contro le doppie imposizioni, firmata tra Italia e Francia il 5 ottobre 1989, art. 10 comma 4, lett. b), e ratificata dalla Repubblica Italiana con L. 7 gennaio 1992, n. 20, non è escluso dal riconoscimento dell’esenzione dalla ritenuta prevista dalla Dir. madre-figlia n. 453 del 1990, (attuata con il D.Lgs. n. 136 del 1993), atteso che secondo l’interpretazione offerta dalla Corte di Giustizia (causa C-389/18, del 19 dicembre 2019, Brussels Securities), questo secondo beneficio non elimina necessariamente il rischio di doppia imposizione economica nè di violazione del principio di neutralità fiscale. Peraltro, ai fini del corretto coordinamento dei due meccanismi di tutela dagli effetti distorsivi della doppia imposizione (esenzione e credito d’imposta), la necessaria verifica in concreto della eliminazione effettiva di detto rischio in danno della società madre francese – a tutela da trattamenti fiscali deteriori rispetto alla disciplina applicabile ad una società madre sedente in Italia – deve essere compiuta mediante l’accertamento che il dividendo distribuito dalla società figlia italiana sia compreso, una volta assegnato alla società madre francese, nel coacervo dei redditi imponibili in quello Stato, senza che rilevi se nel concreto quel reddito sia ivi assoggettabile ad aliquota pari, inferiore o superiore a quella altrimenti applicabile in Italia, riconducendosi la disciplina nel principio di neutralità ed efficienza fiscale internazionale”.

La decisione impugnata non ha fatto corretta applicazione del principio enunciato. Il primo motivo va dunque accolto.

Il secondo motivo è invece inammissibile. Con esso ci si duole della nullità della sentenza per omessa motivazione sulla prova, allegata invece dalla contribuente, della sottoposizione dei dividendi ad imposizione nello Stato francese. La ricorrente pretende di sussumere una critica alla motivazione nell’alveo dell’error in procedendo, senza accorgersi che essa andava invece correttamente ricondotta nel vizio motivazionale.

Fondato invece è il terzo motivo, con cui denuncia che la Commissione regionale abbia affermato che la società non aveva dato prova della tassazione dei dividendi nello Stato francese, mentre la ricorrente aveva prodotto la dichiarazione dei redditi relativa al 1999, da cui si evinceva la sottoposizione ad imposta di quei dividendi.

Il motivo, ammissibile anche in riferimento alla nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come modificato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni in L. 7 agosto 2012, n. 134, è anche fondato. La sentenza dichiara che la contribuente non ha dato prova della tassazione dei dividendi in Francia. Sennonchè risulta per tabulas, nel rispetto del principio di autosufficienza, che la ricorrente, in primo grado, e poi in secondo grado, ebbe a depositare quale allegato la dichiarazione dei redditi relativa all’anno d’imposta 2000, da cui poteva evincersi l’imponibilità dei suddetti dividendi. L’inserimento in dichiarazione, alla pag. 9, delle cifre relative alla imposizione e alle deduzioni dei redditi riconducibili al regime delle società madri – figlie, costituiva un fatto decisivo in ordine alle valutazioni del giudice d’appello sulla imposizione dei dividendi subita in Francia. Sul punto invece la decisione è totalmente omissiva, così che la sentenza risulta viziata in punto di motivazione.

La sentenza va dunque cassata, con rinvio alla Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, sez. staccata di Pescara, alla quale, oltre che sulle spese del giudizio di legittimità, va demandato in diversa composizione il riesame della controversia alla luce dei principi sopra enunciati.

P.Q.M.

Accoglie il primo ed il terzo motivo, dichiara il secondo inammissibile. Cassa la sentenza e rinvia alla Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, sez. staccata di Pescara, cui demanda in diversa composizione anche la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 12 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 20 maggio 2021

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