Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13847 del 06/07/2020

Cassazione civile sez. trib., 06/07/2020, (ud. 27/02/2020, dep. 06/07/2020), n.13847

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. MANZON Enrico – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – rel. Consigliere –

Dott. MUCCI Roberto – Consigliere –

Dott. NOVIK ADET Toni – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 17591 del ruolo generale dell’anno 2013

proposto da:

M.S., titolare della ditta B.M. di

M.S., rappresentato e difeso dall’Avv. Carlo Alberto Feggi per

procura speciale in calce al ricorso, presso il cui studio in Arsago

Seprio (VA), via Roma, n. 43, è elettivamente domiciliato;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso

i cui uffici ha domicilio in Roma, Via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

regionale della Lombardia, n. 17/05/2013, depositata il giorno 31

gennaio 2013;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 27 febbraio

2020 dal Consigliere Giancarlo Triscari.

Fatto

RILEVATO

CHE:

la sentenza impugnata ha esposto, in punto di fatto, che: l’Agenzia delle entrate aveva emesso nei confronti di M.S., titolare della ditta individuale, due avvisi di accertamento con i quali, relativamente agli anni di imposta 2005 e 2007, aveva recuperato a tassazione l’Iva relativa a operazioni di cessioni di beni intracomunitarie nell’ambito di frodi carosello, in quanto varie società cartiere, aventi sede nel territorio di San Marino, Spagna o Francia, si interponevano nell’acquisto da parte dell’effettivo acquirente, operatore nazionale, non pagando l’Iva sulla cessione intracomunitaria, riscuotendola al momento della vendita senza, tuttavia, versarla; avverso i suddetti atti impositivi il contribuente aveva proposto separati ricorsi che, previa riunione, erano stati rigettati dalla Commissione tributaria provinciale di Varese; avverso la pronuncia del giudice di primo grado il contribuente aveva proposto appello;

la Commissione tributaria regionale della Lombardia ha rigettato l’appello, in particolare ha ritenuto che: gli elementi indiziari conducevano a ritenere che le società cui il contribuente aveva venduto la merce erano inesistenti; il contribuente, inoltre, se avesse utilizzato la dovuta diligenza, avrebbe potuto verificare che i soggetti da cui proveniva la proposta di acquisto della merce erano mere cartiere; non assumeva rilevanza la correttezza della documentazione; non era stata fornita la prova della estraneità del contribuente alla frode;

avverso la suddetta pronuncia M.S., titolare della ditta individuale, ha proposto ricorso affidato a due motivi di censura, cui ha resistito l’Agenzia delle entrate depositando controricorso;

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2727, c.c., e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 5, per non avere fatto corretta applicazione, nella vicenda in esame, della ripartizione dell’onere della prova, avendo il giudice del gravame posto a carico del contribuente l’onere di provare la propria estraneità alla frode;

il motivo è infondato;

va osservato, in primo luogo, che il giudice del gravame ha accertato che “la ditta Marcora ha effettivamente venduto la merce fatturata, solo che la merce al posto di essere consegnata e fatturata al cliente nazionale, ultimo vero acquirente, come effettivamente attuato, è stata fatturata e fatta transitare nel territorio di San Marino o in Spagna o in Francia, facendo in modo che le società cartiere non pagando l’Iva all’acquisto, riscuotendola alla vendita e non versando/a, potessero attuare la frode”;

va quindi evidenziato che questa Corte (Cass. civ., 10 aprile 2018, n. 9851), in tema di operazioni soggettivamente inesistenti, ha affermato, in piena aderenza ai principi affermati ripetutamente dalla Corte di Giustizia (v., tra le varie, Corte di Giustizia 22 ottobre 2015, Ppuh, C-277/14) che: a) l’Amministrazione finanziaria, la quale contesti che la fatturazione attenga ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, ha l’onere di provare, anche solo in via indiziaria, l’oggettiva fittizietà del fornitore e la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta; b) la prova della consapevolezza dell’evasione, peraltro, non richiede che l’Amministrazione finanziaria provi la partecipazione del soggetto all’accordo criminoso od anche la sua piena consapevolezza della frode ma che essa dimostri, in base ad elementi oggettivi e specifici non limitati alla mera fittizietà del fornitore, che il contribuente sapeva o avrebbe dovuto sapere, con l’ordinaria diligenza in rapporto alla qualità professionale ricoperta, che l’operazione si inseriva in una evasione fiscale, ossia che egli disponeva di indizi idonei a porre sull’avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto sulla sostanziale inesistenza del contraente; c) incombe sul contribuente la prova contraria di aver agito in assenza di consapevolezza di partecipare ad un’evasione fiscale e di aver adoperato, per non essere coinvolto in una tale situazione, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, nè la regolarità della contabilità e dei pagamenti, nè la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi;

la pronuncia censurata si è attenuta ai suddetti principi, avendo accertato: in primo luogo, sotto il profilo oggettivo, che le società in favore delle quali le operazioni erano state fatturate non avevano alcuna organizzazione di uomini e di mezzi, avevano tutte sedi fuori dal territorio nazionale, facevano tutte capo a M.P., il quale aveva ammesso ai verificatori che le stesse erano state create al solo fine di porre in essere la frode fiscale in secondo luogo, sotto il profilo soggettivo, ha valorizzato la circostanza che le suddette società avevano tutte sedi fuori del territorio nazionale e, in questo contesto, che le ditte di trasporto avevano affermato di non avere mai portato la merce oltre i confini nazionali e di averla, invece, recapitata direttamente presso altri operatori economici ai quali veniva consegnata con DDT intestati alle società fittizie; il contribuente, dunque, era nelle condizioni di verificare che le suddette società con le quali aveva avuto rapporti commerciali non erano effettivamente esistenti; sotto il profilo della prova contraria, la circostanza che il contribuente aveva prodotto la documentazione non poteva consentire di ritenere che lo stesso avesse dimostrato di essere estraneo alla frode fiscale in esame;

va peraltro precisato che sia dal contenuto della sentenza che del presente ricorso si evince che la pretesa dell’amministrazione finanziaria era stata prospettata ai sensi del D.L. n. 331 del 1993, art. 41;

secondo la giurisprudenza di questa Corte (Cass. civ., 7 ottobre 2011, n. 20575) “Nel caso in cui l’Amministrazione finanziaria, contesti, recuperando l’imposta non versata, la non imponibilità ai fini IVA – ai sensi del D.L. 30 agosto 1993, n. 331, art. 41, comma 1, lett. a), prima parte, conv. in L. 29 ottobre 1993, n. 427 – della cessione intracomunitaria di beni a titolo oneroso, per difetto del presupposto della introduzione dei beni ceduti nel territorio di altro Stato membro, grava sul cedente – in applicazione del criterio di riparto dell’onere probatorio – la prova dei fatti costitutivi del diritto che intende far valere in giudizio, non essendo sufficiente a tal fine la prova di aver richiesto ed ottenuto la conferma della validità del numero di identificazione attribuito a cessionario da altro Stato membro (D.L. n. 331 del 1993, art. 50 commi 1 e 2) e di aver debitamente indicato tale numero nella fattura emessa ai sensi del D.L. n. 331 del 1993, art. 46, comma 2, occorrendo invece, – avuto riguardo alla espressa previsione del D.L. n. 331 del 1993, art. 41, comma 1, lett. a), secondo cui la cessione non imponibile si realizza mediante il trasporto o la spedizione dei beni nel territorio di un altro Stato membro – la prova della effettiva destinazione dei beni ceduti nel territorio dello Stato membro in cui il cessionario è soggetto di imposta”;

inoltre, questa Corte (Cass. civ., 12 febbraio 2019, n. 4045) ha precisato che il riconoscimento, in questi casi, del diritto all’esenzione dell’imposta richiede, in ragione dell’interesse che presidia la lotta contro eventuali evasioni, elusioni e abusi, la dimostrazione del fatto che l’operatore abbia agito in buona fede, nel senso dell’adozione da parte sua di tutte le misure che gli si possono ragionevolmente richiedere al fine di assicurarsi che l’operazione effettuata non lo coinvolga in un’evasione tributaria (cfr., Corte Giust. 6 settembre 2012, Mecsek-Gabona, nonchè, da ultimo, Corte Giust. 21 febbraio 2018, Kreuzmayr) e che la buona fede del contribuente, che conduce alla tutela del suo legittimo affidamento in ordine alla estraneità dell’operazione ad una frode fiscale, presuppone l’impiego della diligenza massima esigibile da un operatore accorto, valutata secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità, in rapporto alle circostanze del caso concreto;

la pronuncia, dunque, ha considerato tutti gli elementi di prova e, sotto tale profilo, ha ritenuto che, mentre l’amministrazione finanziaria aveva adempiuto al proprio onere di prova, la prova contraria fatta valere dal contribuente non era idonea a contrastarne la valenza probatoria;

il passaggio motivazionale preso in considerazione dal contribuente, laddove viene affermato che la prova che la Ditta Marcora fosse estranea dalla frode messa in atto dalle società coinvolte, non è stata fornita, non implica, come invece sostenuto, una inversione dell’onere della prova, posto che, invece, dinanzi alla sussistenza degli elementi di prova presuntiva, addotti dall’amministrazione finanziaria sia con riferimento al profilo oggettivo che soggettivo, il giudice del gravame ha preso in considerazione la prova contraria, il cui onere spetta al contribuente, di aver agito in assenza di consapevolezza di partecipare ad un’evasione fiscale;

in questo ambito, il giudice del gravame ha evidenziato, in primo luogo, che non poteva assumere rilievo la regolarità della documentazione, e, inoltre, che questi non aveva tenuto la diligenza esigibile da un operatore accorto, in tal modo pronunciando in conformità ai principi espressi da questa Corte;

con il secondo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in particolare in ordine alla documentazione fiscale e alla esistenza dei bonifici da conti esteri, nonchè in ordine alla valutazione delle prove documentali e alle dichiarazioni rese in sede penale dagli autotrasportatori;

il motivo è inammissibile;

va osservato, in primo luogo, che la censura in esame è stata prospettata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), che, con riferimento alla motivazione della sentenza, può essere indicato laddove la motivazione sia solo apparente, e la sentenza è nulla perchè affetta da “error in procedendo”, cioè quando, benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Cass. SS.UU. 3 novembre 2016, n. 22232);

tuttavia, il suddetto vizio della sentenza non è ravvisabile nella fattispecie, in quanto, in realtà, parte ricorrente censura la sentenza, stando al contenuto del motivo in esame, per non avere valutato la prova documentale dallo stesso prodotta e in quanto carente e contraddittoria nell’esame degli elementi di fatto e documentali prodotti al fine di dimostrare la mancanza di consapevolezza nella frode, dunque per un profilo non riconducibile al vizio censurabile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4);

nè può ritenersi corretta la linea difensiva relativa alla mancanza di un iter logico argomentativo ai fini della formazione del giudizio, tenuto conto, secondo quanto già osservato in sede di esame del primo motivo di ricorso, quale siano stati i passaggi,- logico-argomentativi seguiti dal giudice del gravame;

inoltre, ove si volesse intendere la censura in esame quale vizio di motivazione della sentenza, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), va osservato che, in seguito alla riformulazione disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, individuabile nelle ipotesi – che si convertono in violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e danno luogo a nullità della sentenza di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di ” motivazione perplessa od incomprensibile”, al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia (Cassa 23940/2017);

nella specie, il giudice del gravame ha esaminato la produzione documentale di parte ricorrente ed ha ritenuto, peraltro in conformità con i principi espressi da questa corte, già evidenziati in sede di esame del primo motivo di ricorso, che la mera correttezza formale della documentazione non può costituire fonte di prova contraria utilizzabile dal contribuente ai fini di provare la propria estraneità alla frode carosello;

ne consegue il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese di lite del presente giudizio.

Si dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

PQM

La Corte:

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite del presente giudizio che si liquidano in complessive Euro 7.000,00, oltre spese prenotate a debito.

Dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della quinta sezione civile, il 27 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 6 luglio 2020

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